Hallucination - Damned (The)
| | | | | | |
Regia: | Losey Joseph |
|
Cast e credits: |
Soggetto: Henry Lionel Lawrence; sceneggiatura: Evan Jones; fotografia: Arthur Grant; musiche: James Bernard; montaggio: James Needs, Reginald Mills, Joseph Losey; interpreti: Oliver Reed (King), Brian Oulton, Viveca Lindfors (Freya Neilson), Alexander Knox (Bernard), Tom Kempinski, Walter Gotell, Shirley Anne Field (Joan), Barbara Everest, Kenneth Cope, Macdonald Carey (Simon Wells), James Villiers; produzione: Hammer; distribuzione: Cineteca dell’Aquila; origine: Gran Bretagna, 1962; durata: 87’. |
|
Trama: | n una cittadina sulle coste della Scozia opera una banda di giovani teppisti, comandata da King. Un giorno, la sorella del capo, Joan, si innamora di un turista americano, Simon, che i giovinastri hanno bastonato e derubato, e fugge con lui in motoscafo. Cercando di sottrarsi all'accanita caccia di King, Joan e Simon abbandonano il mare, risalgono le rupi costiere, penetrano in un recinto spinato, ma, nel buio, cadono in un crepaccio e finiscono in acqua. A salvarli e a farli rifugiare in una grotta è un gruppo di bambini – dal corpo senza calore–- i quali ricevono insegnamenti attraverso un impianto televisivo e provvedono da soli al proprio sostentamento. Intanto, anche King, che durante l'inseguimento ha rischiato di annegare, è salvato e condotto nella grotta. Tra gli individui che sovraintendono alla vita dei bambini scatta l'allarme: un uomo armato cerca di eliminare i tre intrusi, ma Simon e gli altri lo mettono in condizione di non nuocere e lo costringono a parlare. La verità è spaventosa: quegli strani bambini sono figli di donne contaminate da radiazioni atomiche; a loro, nel caso di una guerra nucleare mondiale, è affidata la speranza della sopravvivenza dell'umanità. Simon, inorridito, cerca di far fuggire i bambini, ma essi vengono tutti ripresi. King muore precipitando con l'auto da un ponte mentre Joan e Simon, ormai irrimediabilmente contaminati, non vivranno più a lungo.
|
|
Critica (1): | Piú dichiaratamente commerciale è la partenza di The Damned (in Italia verrà col titolo assurdo di Hallucination), altro film che ha avuto non poche noie di produzione. Stavolta il soggetto è preso da un romanzo di fantascienza (Fossa d'isolamento, di un certo H. L. Lawrence, pubblicato in Italia da Urania), e il film è prodotto per la Hammer, una piccola casa commerciale inglese che produce abitualmente i mostri di Terence Fisher. Losey ha lavorato sul soggetto trasformandolo completamente, applicandovi scene e personaggi assolutamente suoi.
Chi sono The Damned? Sono bambini sopravvissuti alle radiazioni atomiche e divenuti essi stessi radioattivi, che il governo inglese tiene accuratamente isolati e nascosti preparandoli, educandoli, ad essere l'umanità di domani, e naturalmente gli abitanti "super" di un mondo atomico in cui l'Inghilterra avrà la meglio per merito loro. Ma attorno a questo soggetto, che permette a Losey di darci il piú penetrante film sull'era atomica – che può reggere il paragone con Stranamore – Losey ne aggiunge almeno altri due. Tre storie si incrociano : quella del turista americano tartassato senza ragione in una tranquilla città vittoriana (Weymouth) da una banda di teddy boys capeggiata da un giovinastro complessato e geloso della sorella; quella del dirigente del campo topsecret e di sua moglie, una scultrice; quella infine dei ragazzi. Tre forme di violenza che si incontrano, o scontrano: quella irrazionale e gratuita della banda di giovani; quella razionale e cosciente, ma non per questo meno agghiacciante, del direttore del campo; quella infine della guerra, dell'atomica, delle ragioni della politica (da parte di chi ha accettato definitivamente l'idea di una guerra atomica) ai danni di un gruppo indifeso di ragazzi, o meglio di "mostri" che "la politica" ha indirettamente creato. Le tre violenze, le tre storie, si incrociano ed uniscono fino a diventarne una sola nella seconda parte del film, e non sono che aspetti diversi di uno stesso problema e di una stessa angoscia.
Ma la vera lotta, il nucleo loseyano del film, è nell'incontro, o scontro, tra la scultrice e il comandante: Freya (Viceca Lindfors), che lavora a statue incomplete, abbozzi, mostri che non arrivano alla loro espressione decisa (come ad esempio la grande statua del finale, figura umana dalla testa piccolissima, rozza, con brandelli d'ali alle spalle) – e Bernard (Alexander Knox), che ha accettato l'idea di un mondo post-atomico e persegue razionalmente il suo lavoro, in piena coscienza e buona fede. Egli cerca di spiegare le sue posizioni alla donna. "... Dopo la prima grande esplosione, fiori strani e meravigliosi prima sconosciuti, sono nati nel deserto. Per sopravvivere alla distruzione che inevitabilmente arriverà, abbiamo bisogno di una nuova specie d'uomo. Un accidente ci ha offerto questi nove preziosi bambini – i soli esseri umani che hanno una possibilità di sopravvivere nelle condizioni che dovranno per forza esistere quando verrà il momento. Tutte le nazioni civili cercano la chiave di una sopravvivenza che noi abbiamo trovata (...) I miei bambini sono i semi nascosti della vita. Quando verrà il momento, i bambini usciranno a ereditare la terra." E Freya, già contaminata dal contatto coi bambini: "Che terra gli lascerete? Dopo tutto quel che gli uomini hanno fatto e faranno ancora, è quella la grandezza del vostro sogno?... Mettere nove bambini, liberi, al centro delle ceneri dell'universo?" Freya sceglierà di aspettare la fine lavorando in silenzio alle sue statue, ed è in questa occupazione che Bernard l'ucciderà.
La parte finale del film, angosciosa e serrata fino allo spasimo, si muove su una serie di rapidi brani, improvvisamente rapidissimi, e si chiude sul battello in cui l'americano e la ragazza attendono la morte, contaminati anch'essi, mentre un elicottero li sorvola aspettando la loro fine per distruggere la barca, e infine ritornando sulla scena dell'inizio, la veduta dal mare della tranquilla sonnolenta città vittoriana. Fuori campo, le nostre orecchie continuano però a percepire le grida di aiuto disperate, inascoltate e strazianti, dei bambini nuovamente rinchiusi ad aspettare la fine del mondo.
Questo film assai bello è comunque ancora un'opera in cui l'abilità e la drammaticità non sono pienamente risolte in quel controllo perfetto di tutti gli elementi che vedremo nel Servo.
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli, 1977 |
|
Critica (2): | Come per ogni film di fantascienza (o che si rifaccia in qualche modo alla fantascienza), non ha senso discutere la veridicità dell'assunto, che è sempre una traslazione metaforica di una situazione oggettivamente diversa: non ha importanza, così, che la somministrazione di radiazioni a donne gravide produca malformazioni al feto. È invece necessario, ai fini del film, che i bambini nascano e crescano perfettamente sani, anche se portatori di radiazioni. L'intento di Losey è infatti quello di lanciare un grido d'allarme sul futuro dell'uomo, come in The Boy with Green Hair (con la differenza che qui i bambini sono contemporaneamente assassini e vittime). L'età di questi bambini non è certo l'età della speranza (The Boy with Green Hair), né quella del malessere e della malinconia (The Go-Between): è l'età della minaccia che si protende dal presente verso il futuro. Così quando Simon e Joan entrano per errore nella base militare (ultima figurazione del luogo chiuso, terminazione apocalittica di un panottico che intuisce già le grigie colorazioni foucaultiane), lo spettatore è combattuto fra una partecipazione emotiva per la sorte dei bambini e un
istintivo timore per il pericolo mortale che essi costituiscono. È da questa indecisione che nasce la decisione di Bernard: reclusione militare per i bambini e contemporanea loro educazione, perché saranno loro che erediteranno la terra. Losey non parla delle cause, ma insiste sulla ineluttabilità di questa decisione come unica alternativa all'attesa passiva dell'apocalisse. In realtà, l'apocalisse si è già consumata prima che il futuro la realizzi: essa è la forma nascosta (il bunker sotterraneo) del presente e la sua uscita all'aperto non potrà che essere pletorica, tautologica. Non possono infatti costituire un'alternativa accettabile né il romantico tentativo di fuga di Simon e Joan, né quello patologico di King, né quello sterile e irrazionale di Freya (tutti, non a caso, condannati a morte). (...)
Ciò che prevale è, come in The Lawless, la tensione all'enunciazione. Essa traspare in particolare dalla semplificazione eccessiva dei personaggi, ridotti a pure funzioni narrative. (...)
Comunque sia, ancora una volta il protagonista loseyano è sconfitto, senza alcuna possibilità di scampo. Il ricorso alla fantascienza contraddice apertamente la speranza, la possibile utopia: è il presente, nella sua negatività, a determinare rigidamente il futuro. Non a caso « l'elemento fantascientifico viene ricreato usando soltanto paesaggi fisicamente reali, cioè senza invenzioni o trucchi » (Porro): infatti il futuro è sin d'ora eguale al presente. Ricorrendo alle tipologie individuate da René Predal per il "fantastico", diremo che The Damned è sospeso fra «l'intrusione di un elemento straordinario in un mondo ordinario» e « la proiezione di un elemento ordinario in un mondo straordinario ». Infatti, ciò che appare straordinario (i bambini contaminati e contaminanti) non è altro che la forma nascosta e sotterranea dell'ordinario, che fa apparire straordinario (in quanto anacronistico e insufficiente) quel mondo che siamo avvezzi a giudicare ordinario (Simon, Joan, Freya, ecc.). In questo senso il ricorso alla fantascienza è puramente strumentale, come sempre nel filone fantapolitico dell'apocalisse (The Damned precede di un anno sia Il signore delle mosche che Il dottor Stranamore). E si sa che il filone fantapolitico è sempre di tipo didascalico: il punto di vista rimane sempre quello del mondo " normale ", in cui l'apologo costruisce la parola edificante (la violenza, costitutiva della società, come mostra la progressione Teddy Boys-Potere-Energia Nucleare, porterà in breve tempo alla catastrofe).
The Damned finisce così per rovesciare il «principio di indeterminazione», da cui sembra procedere (l'assenza di soluzioni "positive"; la fusione speculare presente/futuro; lo scambio ordinario/straordinario; ecc.), nel suo esatto rovescio: ossia, in un eccesso didascalico, in un'ansia duplicatrice che alle immagini, alla struttura, al funzionamento fa seguire immediatamente (o addirittura precedere) la parola, l'evidenziazione, l'enunciazione. «Ciò che può essere mostrato, non può essere detto» (Wittgenstein): una regola a cui Losey non sa o non vuole attenersi sempre.
Giorgio De Marinis, Gualtiero Cremonini, Joseph Losey, Il Castoro Cinema, 3/1981 |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|