Farinelli - Voce regina - Farinelli
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Regia: | Corbiau Gérard |
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Cast e credits: |
Soggetto, sceneggiatura: Gèrard Corbiau, Marcel Beaulieu, Andrèe Corbiau, Michel Fessler; fotografia: Walther Vanden Ende; musica: brani vari; Christophe Rousset (consul.); montaggio: Joelle Hache; scenografia Gianni Quaranta; costumi: Olga Berluti, Anne de Laugardière, Anne Verhoeven; suono: Jean-Paul Mugel, Domenique Henequin; trucchi speciali: Kuno Schlegelmilch; interpreti: Stefano Dionisi (Carlo Broschi 'Farinelli"), Enrico Lo Verso (Riccardo Broschi), Caroline Cellier (Margareth Hunter), Omero ,Antonutti (Porpora), Jeroen Krabbe(George F.Haendel), Elsa Zylberstein (Alexandra), Jacques Boudet (Filippo Mauer), Graham Valentine (il Principe di Galles), Pier Paolo Capponi (papà Boschi), Patrick Bauchau (Giorgio II); produzione: Vera Belmont, per Stephan Films/Alinea Film/UGC Images/Studio Canal Plus/France 2 Cinéma/Studio Images/K2 Prods./RTL/ TVI Prod./M.G./ Italian Intl. Film/NRW; distribuzione: Italian International Film; origine: Fancia - Italia.- Belgio, 1994; . durata: 110'. |
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Trama: | A Napoli, nei primi anni del 700, con il padre vivono Riccardo e Carlo Broschi: il primo ha dieci anni più del fratello e scrive canzoni sacre e pezzi d'occasione nello stile - ma non certo con il talento - di molti musicisti operanti in quella coltissima città, mentre il fratellino, che fa parte di una cantoria in Chiesa, possiede per natura una voce d'angelo. Un giorno non riesce a farsi uscire dalla gola un solo suono davanti al grande Nicola Antonio Porpora (che ha accettato di sentirlo, perché colpito dal suicidio di un amico cantore, terrorizzato dalla castrazione, di cui si abusava quando le donne non potevano in Chiesa ricoprire ruoli vocali femminili, Riccardo Broschi, però ambizioso com'è (ha cominciato a comporre "l'Orfeo"), profittando di una malattia di Carlo, ridotto in stato di incoscienza, gli somministra dell'oppio, lo immerge in una tinozza di latte e lo castra. La sua voce gli preme troppo: essa deve restare per sempre purissima e con Carlo - ribattezzato Farinelli - i due condividono onori e gloria per anni e anni. Cominciano così i concerti gremiti ed i fastosi spettacoli teatrali a Napoli, a Vienna, a Londra e, con la protezione del Re, in Spagna. A Londra pontifica Georg Friedrich Haendel, che detesta Farinelli, diventato ormai il più splendente degli astri. Le donne cadono in delirio per il cantante napoletano, ma il castrato trionfante sulla scena, ai vertici della celebrità non è felice: egli sa di non essere un uomo completo e la malinconia lo incupisce. Una bella vedova inglese, Margareth Hunter, non accetta la richiesta di sposarlo e Carlo ripiega sulla nipote Alexandra Keene, innamorata di lui ed insorta in difesa. Intanto ferve a Londra la lotta tra il pubblico del Covent Garden - regno di Haendel - e quello del Teatro della Nobiltà, dove Porpora ha moltissimi ammiratori. Tre anni dopo Riccardo ha ultimato il suo faticosissimo "Orfeo"; lo offre al fratello, che lo rifiuta. Ormai a Madrid egli canta solo per Re Filippo V che, malato, crede di trovare in Farinelli la sola medicina efficace a calmarlo. Riccardo si taglia le vene durante un'eclissi solare ed ecco che il cantante gli è fraternamente vicino: i due non possono separarsi. Poi come è accaduto in passato con tante altre donne, Carlo, innamoratosi di Alexandra lascia al fratello di completare e rendere fertile la propria vana passione. Un bambino deve nascere, mentre Riccardo fugge a cavallo da Madrid dopo aver distrutto lo spartito de "l'Orfeo". |
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Critica (1): | La parziale atrofizzazione dell'apparato genitale, detta orchiotomia, determinava, fra l'altro un ampliamento e arrotondamento della cassa toracica, apportando così un' eccezionale capacità polmonare. La voce del "principe" Farinelli abbracciava infatti tre ottave, toccando, in un virtuosismo continuo di natura strumentaleggiante, note sia altissime che profondissime: una voce perfetta, un assoluto miracolo di natura e tecnica. Il melodramma, nel `700, é all'apice del successo: la polemica contro la polifonia, giudicata troppo "fredda", aveva spinto, fin dal secolo precedente, a erigere il pubblico quale giudice ultimo della carica "affettiva" musicale e canora. Il canto "virtuoso" deve rapire i sensi dello spettatore e sollevarlo in un'estasi suprema. Nel secolo dei lumi, quando sul piano della "cultura" le acrobazie vocali mal si conformano allo spirito del tempo, quando Algorotti tuona contro i cantanti preoccupati solo di "isquartar la voce" e Benedetto Marcello, nella satira Il teatro alla moda, pizzica i virtuosi che sbraitano affinché non "s'intenda neppure una parola di ciò che dicono", Farinelli fa del suo caso il luogo delle contraddizioni della vita e dell'arte. Tale contraddizioni comporta un rischio di natura esclusivamente cinematografica: il film sembra innanzitutto inserirsi nel filone a quanto pare remunerativo, del sub movie, dove sub indica ovviamente il protagonista che, gioco forza é condotto ad esibire una determinata inferiorità, intellettuale o fisica. L'eroe, insomma, è incompleto, e se oggi, in fin di Novecento, l'handicap può costituire addirittura un vantaggio, ieri nel secolo dei lumi, è perfettamente "ragionevole" che la distanza si colmi rovesciando ad ogni costo il "sub" in qualcosa di "altro" e di "super". Farinelli, reso "divino" dall'evirazione, sconfigge la malinconia dei re e giunge a "penetrare", con l'ugola, dalla sommità del palcoscenico, il pubblico femminile assiepato in platea. "Datemi ciò che nessun altro vostri simili mi ha mai concesso", supplicano un po' tutte, mentre Farinelli, nella verità storica amico di Metastasio e di Gluck, maestro di scena e impresario di prim'ordine'brucia al pensiero che il successo risieda solo nell'effetto puramente meccanico di una "gola profonda" al contrario. Da qui la rivalità con Hàndel, colui il quale, invece, entrerà nella Storia con tutti gli onori della Musa, e il patto con suo fratello Riccardo, una sorta di pruriginosa variazione sul tema del celebre "Io ho fatto te e tu hai fatto me", tratto dal Batman di Tim Burton: Riccardo depone Carlo nella tinozza dove subirà la mutilazione e Carlo, reso " divino", gli consentirà comunque un barlume di carriera. Il film insiste molto sul sigillo di un simile accordo, ossia sugli amplessi che Carlo inizia e, non giungendo materialmente all'esperienza del coito, lascia concludere trionfalmente al fratello. Manca, invece, qualsiasi approfondimento sul senso del teatro nella cultura dei primi lumi, tanto che il film costringe il critico a un'operazione poco utile ma che, nella circostanza, si impone con inaspettata energia: riflettere su cosa avrebbe potuto essere Farinelli, ma purtroppo non è. Le strade percorribili, in sostanza, erano due. Affrontare Farinelli come una sorta di "elephant man" settecentesco (la
fattura dei trucchi e costumi barocchi lo consentivano appieno), una creatura fatta esclusivamente per la scena, "mostrum" attraverso il quale il teatro andava ad assumere un ruolo finalmente istituzionale, individuando quel pubblico su qui progettare e realizzare senz'altro un circuito, un mercato. Oppure, affrontare seccamente la perversione di partenza e affondare a piene mani sull'idea hard del divo come sorprendente "gola profonda" del XVII secolo, assumere così una visione come ha intuito Neil Jordan con il palcoscenico grandguignolesco dei vampiri parigini, ripercorrere tutte le vertigini della simulazione, esibendo l'ossimaro, del castrato stallone. Ma i dubbi restano tutti in superficie, l'hard trascolora nel soft tipico dei compromessi di coproduzione, il teatro si limita a campeggiare all'interno. Anche a una seconda, più distaccata, visione colpisce la monotona organizzazione dello spazio (la cinepresa inquadra ma non squadra), dispiace l'obesità del ritmo (l'unico guizzo temporale è un primitivo flash back onirico di abusata simbologia equina). Fra tali e tante, spicca davvero, senza ironia, la prova di Stefano Dionisi, che assume il ruolo del protagonista con una professionalità direi sconosciuta alle nostre più recenti leve (mentre Enrico Lo Verso recita con qualche imbarazzo, suo e di chi guarda). La malinconia della sua maschera è in fondo quella di chi, stretto per davvero nelle spire del libero mercato, sa assumere il peso della messa in scena come un sacrificio di cui soltanto il grande attore, al di là del personaggio, conosce appieno il senso e la portata.
Flavio De Bernardinis, segno cinema n. 73, maggio-giugno 1995 |
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Critica (2): | |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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