Garage Demy - Garage Demy
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Regia: | Agnes Varda |
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Cast e credits: |
Soggetto: Jaques Demy; sceneggiatura: Agnes Varda; fotografia: Patrick Blossier, Agnes Godard, Georges Strouvè; musiche: Joanna Bruzdowicz; montaggio: Marie Jo Audiard; interpreti: Jacques Demy, Brigittte Monnier, Philippe Maron (Jacquot 1), Edouard Jubeaud (Jacquot 2), Laurent Monnier (Jacquot 3); produzione: Cine-Tamaris; distribuzione: Lab80; origine: Francia, 1991; durata: 118'. |
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Trama: | Una cineasta grintosa, indomita come Agnes Varda rilegge l'iniziazione artistica di suo marito Jacques Demy (1931-1990), regista poco conosciuto nel panorama internazionale (il suo film d'esordio "Lola donna di vita" del 1960 resta l'opera più apprezzata, anche se nel 1964 con "Les parapluies de Cherboug" vinse il Gran Premio a Cannes) e rapidamente dimenticato anche in terra di Francia. Eppure la sua passione per lo spettacolo, il suo innamoramento per il cinema ne fanno un personaggio indimenticabile, almeno a quanto ama raccontarci la Varda, la quale sa cogliere la profonda sintonia, in Demy, tra maturazione umana ed espressività filmica: la sua innata naturalezza nel rivisitare attraverso la macchina da presa le esperienze e le emozioni di un'infanzia felice, il vivido ricordo della serenità familiare nonostante le perplessità del padre che lo avrebbe voluto meccanico (il riferimento del garage nel titolo italiano), quell'irrefrenabile, dolce ardore per lo sfarfallio delle immagini che segnerà la sua esistenza e che gli resterà amabilmente nel cuore e nello sguardo fino al momento della vecchiaia, della malattia e della morte. |
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Critica (1): | Lo scrivere direttamente per il cinema, inventando una scrittura cinematografica diretta, da un lato, e il problema della comunicazione con lo spettatore, anch'essa la più diretta possibile, sono i motivi dominanti del fare cinema di Agnès Varda. O forse sarebbe meglio dire del fare con il cinema, dato il carattere particolare che assume ogni film della cineasta belga di nascita e francese di adozione, radicato in modo così forte nella realtà tanto che la mdp, per coglierne le complesse sfumature, è obbligata ad un continuo lavoro di creazione, di svelamento. Svelamento e creazione sono la stessa cosa, azioni che si chiamano in causa reciprocamente: mano a mano che si modula il movimento della cinepresa o che si cura l'aspetto degli attori, si affida a questi elementi il compito di smascherare immagini e suoni che sono sempre stati soffocati o rimasti allo stato latente e che ora devono uscire allo scoperto, affrancati da cliché e stereotipi reinventati dall'immaginazione. È il cinema che dà vita alle cose.
Il cinema scrive la vita, reinventandola la rifornisce della linfa vitale, di interesse e curiosità. In Garage Demy il primo livello di scrittura è quello dell'`infanzia di Jacquot. Qui è come se la mdp fosse lo spirito buono della casa, la sua divinità protettiva, e insieme il garante della sicurezza e della felicità del bambino: le fughe da casa sono sempre provvisorie, furtive, subito ricondotte allo spazio sicuro del cortile. E anche quando Jacquot esce dalla città è subito riaffidato ad un'altra dimensione familiare, quella dello zoccolaio e della moglie, sulle sponde della Loira.
Scrittura che è anche dello sguardo: durante la proiezione Jacquot è felice come se il film fosse suo. L'interesse per la vita cresce di intensità e si moltiplica con la possibilità di reinventarla, di scoprirla secondo nuovi punti di vista. La scrittura cinematografica diventa elemento vitale, dà al giovane artista-artigiano la sensazione epidermica di realizzare qualcosa di magico, che fa trattenere il respiro: è la meraviglia della creazione. Qualcosa che si deve provare costantemente, poiché con la fine del lavoro per un film si perde anche la ragione di vivere. Immergersi nel lavoro è il solo modo per sottrarsi alla morte. Scrivere, dunque, per continuare a vivere. Agnès dà un corpo alla sceneggiatura scritta da Jacques sui suoi ricordi di un'infanzia felice e serena, scritti freneticamente, con cura maniacale nelle descrizioni giorno per giorno durante la malattia. Agnès si spinge oltre: scrive direttamente il corpo di Demy, le sue mani, i suoi occhi, le sue rughe, le increspature della pelle. Inventa delle immagini-carezza che riproducono sensazioni tattili e macrosguardi totali; poi ne individua la corrispondenza con il leggero scivolamento della risacca sul bagnasciuga, dove il corpo nudo è la sola sceneggiatura, qualcosa da riscrivere di nuovo ogni volta, seguendo questa o quel a linea della pelle. Nelle primissime immagini de film la mdp si sorprende ad esplorare una tela dipinta da Demy: un uomo e una donna sono coricati in un abbraccio. Dice la Varda: “Per me il nudo è il punto d'incontro tra l'orizzonte del bello formale e del bello morale. Il corpo nudo è la misura della bellezza”. Per esprimere la bellezza di un affetto era necessario che si trovasse una forma espressiva che rispondesse alle particolarità del mezzo-cinecamera e che nello stesso tempo fosse la più diretta possibile. Cosi Agnès ha scritto di Jacques scrivendo sul suo corpo traiettorie d'amore.
Ha imbastito sulle immagini-documento dell'uomo-Demy le immagini-finzione del personaggio-Jacquot, facendo in modo che entrambe prendessero vita dalla medesima realtà, una realtà superiore che va oltre la sterile distinzione tra fiction e documentario e di cui si possono cogliere gli ingredienti soltanto nella variabilità delle dosi in cui si trovano mescolati. Si può fare un film con più documentario che finzione - Elsa la Rose (1966), Jane B. par Agnès V. (1987) - e lo si può rifare invertendo i termini - Les créatures (1966), Kung-Fu Master (1987). L'importante per la Varda è costruire la fiction come se si trattasse della realtà; non esistono la vita e il cinema: essi si fanno insieme, allo stesso tempo.
La regola secondo cui Agnès Varda improvvisa gli esterni giorno per giorno, scegliendo i luoghi per le riprese a seconda della sensibilità del momento, può aver costituito un problema nel caso di Garage Demy. Il film infatti è costruito interamente sulle pagine scritte in cui Demy annotava freneticamente ogni particolare, anche i più piccoli. Quello che possiamo non fare a meno di notare è l'assenza pressoché totale dei momenti del viaggio, dei percor-si di spostamento: gli spazi sono quelli delle partenze e degli arrivi, mai quelli di mezzo. Per il resto la Varda è rimasta fedele al suo stile di esploratrice, di percorritrice della finzione come se si trattasse della realtà, fedele a quel “mentir vero” che solo assicura la piena comprensione delle cose.
Costretta come sempre a dover fare i conti con il budget a disposizione - salvo rare eccezioni la sua Ciné-Tamaris ha prodotto i suoi lavori sin dai primissimi esordi de La Pointe Courte (1954) e de L'Opèra mouffe (1958) -, qui la regista e il suo scenografo risolvono problema dello spazio storico con grande coerenza. Consapevoli di non poter mettere in scena un film in costume, organizzano il profilmico in modo che esso venga colto attraverso gli occhi di Jacquot. Il portone del cortile, oltre il quale raramente si spinge l'immaginarlo del ragazzino, diventa lo schermo attraverso cui mostrare la Storia: nei momenti avventurosi, come quando il padre Raymond aiuta alcuni soldati in fuga dai nazisti; nel ricordo colorato della Liberazione, con le bandiere e i fazzoletti al collo della gente. E il fuori della Storia visto dal dentro dello sguardo di Jacquot.
E proprio questo desiderio di vedere dal di dentro ha portato la Varda nel cortile al numero 9 del vecchio Quai de Tanneurs, a Nantes. Ribadendo quel legame profondo che univa la mdp ai personaggi di alcuni lavori precedenti - la Elle de La Pointe Courte, la Cléo di Cléo de 5 à (1961), la Mona di Senza tetto né legge (1985), la Jane B. di Jane B. par Agnès V., sceglie di esplorare il mondo dell'infanzia del marito con estrema discrezione e rispetto. La cinepresa sale la scala che porta nella soffitta dove Jacquot fabbricava i suoi filmini animati, ma si ferma sulla soglia, lo sguardo si blocca sull'ultimo scalino: bisogna essere iniziati alla magia della creazione. Bisogna evocare la straordinarietà della situazione se si vuole comprendere appieno l'uomo che l'ha vissuta. E la disponibilità lieve verso le cose da parte del personaggio a guidare la mdp, riproduce lo sguardo del bambino che a casa è sin troppo protetto e che quando esce lo fa con lenta progressione. Anche quando riprende situazioni che avvengono ad una certa distanza dal mondo del cortile e del garage, la cinecamera si muove con discrezione, trattenendo il respiro, come se si fosse allontanata furtivamente, di nascosto.
Dei dintorni di quel garage di Nantes si è nutrito tutto il cinema di Jacques Demy, l'intero suo universo poetico. La vicina di casa incinta è la Catherine Deneuve di Les parapluies di Cherbourg, la cantante incontrata a cena con la zia ricca venuta dal Brasile è la Ainouk Aimée di Lola. Così come apparten-gono ai colori e alle sensazioni dell'infanzia i personaggi de I saltimbanchi e di Pelle d asino, mutuati dall'operetta e dallo spettacolo dei burattini del Theatre Guignol. Il Nino Castelnuovo che lavora in officina e la Deneuve che prepara la pasta per fare il dolce sono il padre Raymond e la madre Marilou. Nei film di Demy la famiglia è sempre qualcosa di particolare: non ci sono mai soltanto delle coppie, c'è sempre un nucleo più ampio, non si trovano mai cose come padri assenti e irresponsabili o madri e figli che si affrontano. La Varda non ha potuto prescindere da questi dati per creare la sua casa Demy. E lo spettatore resta francamente stupito quando si accorge che è riuscita a comunicare tutto questo facendo a meno del colore per la maggior parte delle immagini del film, di come il mondo del piccolo Jacquot ricreato attraverso le interpretazioni di tre differenti attori, brilli tutto delle tinte che si colgono di tanto in tanto dagli spezzoni dei film di Demy. È sufficiente farle precedere dalla figura del dito disegnato vicino al garage, per esprimere la contiguità tra Arte e Vita; contiguità che è disponibile a diventare identità nel momento in cui prescinde dalle tradizionali coordinate spazio-temporali.
Tuttavia l'uso del colore non si limita alle sole immagini girate da Demy, e interviene ogni qual volta il piccolo Jacquot è investito, o anche solo sfiorato, dalla visione artistica. Allora ogni cosa subito prende colore, attraverso la soggettività del ragazzino. I suoi sensi tinteggiano il mondo circostante e il cinema è più colorato del resto, come accade con le locandine di Biancaneve affisse al cinematografo di quartiere.
Film che racconta la scoperta dell'amore per il cinema, le tappe di una vocazione, Garage Demy parla oltre che per immagini, anche di immagini, di come queste possono essere costruite, conservate e addirittura riscritte, riutilizzate. Da un lato, infatti, alcune situazioni simboliche, come il baratto tra la figura colorata del transatlantico Normandie con il pezzo di pellicola, rimandano alla formazione dell'immaginario di Jacquot, al passaggio dall 'immagine fissa a quella in movimento. Le tappe progressive che vanno dal collezionismo - la passione per gli oggetti del cinema, vecchi proiettori, piccole cineprese scambiate con un meccano, fino alla prima Eresam che Demy mostra ancora con l'attenzione di un ragazzino - al dilettantismo - le attualità a disegni animati! - e al professionismo dei film realizzati dopo i corsi di cinematografia all'Ecole de Vaugirard a Parigi. D'altro lato, come si può notare, Garage Demy è un film sul fare il cinema, sul costruire artigianalmente e in modo epidermico la propria pellicola, sulle emozioni del bricoleur. Sulla pazienza smisurata che permette di costruire un rudimentale carrello montato su un pattino a rotelle, per filmare Attacco notturno. Il cinema fatto in soffitta si avvale di una struttura teatrale, palcoscenico e scenografia finta, ma ripresa con l'occhio del cinema, mobilitando il punto di vista. “Ora che ho finito il mio film non so più cosa fare”, confessa Jacquot: ritorna quell'urgenza di lavorare che lo aveva portato, senza alcuna esitazione sentimentaleggiante, a cancellare nell'acqua calda il filmino di Charlot e a sostituirlo con la sua primissima fatica, Le Pont de Mauves, attualità a disegni animati sugli aerei che se ne vanno dai cieli della Francia. Jacquot compra il manuale “On tourne” e gira Le avventure di Solange, sperimentando la direzione degli attori, travestendoli e trascinandoli come pesi morti sul set, alla ricerca dei loro personaggi. La sua esperienza della vita procede di pari passo con quella del cinema.
Il mondo è per Jacquot una grande occasione di scoperta, a patto che sia sostenuto dalla curiosità e dallo stupore che sono insiti nell'atto del riprodurlo, del fissarlo attraverso un lavoro artigianale che metta in gioco tutti i sensi dell'individuo: mentre impara ad intagliare il legno dallo zoccolaio, egli lascia capire che il suo lavoro artigianale (che è immediato sinonimo di passione) sarà quello di fare le sceneggiature per il teatro, il cinema, le marionette. Anche la temporalità attraverso cui Jacquot cresce è quella del cinema: egli diventa più grande nel lungo periodo di tempo impiegato a realizzare Attacco notturno e Jacquot 2 è sostituito da Jacquot 3.
Il piccolo Demy cresce anche per mezzo della musica, cantata dal padre in qualsiasi momento della giornata, ascoltata al fedele grammofono, che si porta in soffitta ogni volta che vi lavora. I suoni della canzone francese d'autore, da Trenet a Edith Piaf, mescolati a motivetti fischiati come la Cucaracha, sono colore allo stato puro; prevale in essi una ritmicità risolta, fluente, dove ogni spigolo è sempre soltanto un breve episodio, quasi un pretesto per ritornare in un batter d'occhio ad una armonia mai scomposta, che bene esprime una disposizione d'animo coerente e priva di incertezze. Da qui Jacquot approda alla musica classica, scelta come accompagnamento per il suo lavoro e vissuta proprio nella funzione che può apparire più banale, quella di veicolo di equilibrio e concentrazione, garante di una situazione di mistica adesione alle cose.
Dicevamo che se un polo del cinema di Agnès Varda è quello della scrittura filmica, l'altro investe senz'altro il problema della comunicazione. La scommessa di Garage Demy era quella di scrivere gli affetti di una donna per il proprio compagno scomparso, tentando di restare coerente con il proprio lavoro, e rispettando quindi pienamente l'Altro, il suo segreto più profondo, lasciando che fosse soltanto lui a spiegare, con la scrittura del proprio passato. I frammenti di immagine che mostrano Demy scavato dalla malattia esemplificano bene quel modo di avvicinarsi agli altri con l'approccio documentaristico di chi nutre grande rispetto per le cose che filma, partendo dal presupposto che mai esse si conoscono completamente. La mdp deve limitarsi a rievocare nel modo più discreto possibile, a mettere in scena senza tanti clamori, e poi deve soltanto stare a guar-dare cosa succede. Il punto di vista dell'Autore-donna-Agnès Varda lo si può registrare sempre e mai, vive della lievità della camera quando è alle prese con la rapprentazione dell' assenza e del desiderio,quando scorre sull'acqua senza più trovare il corpo che ha sempre cercato.
Eppure è soltanto lì che può ancora cercarlo, sulle rive di quell'Oceano che, poiché è un non-posto, non esiste e non ha bisogno di adattamento, pone la regista in una sorta di stabilità nei confronti di se stessa, come il personaggio di Emilie che lavora davanti al mare in Documenteur (1981). È l'esilio dal peso di ogni affetto. “Una rievocazione scritta da Agnès Varda dai ricordi di Jacques Demy”, dice una scritta sui titoli di testa. Torna alla mente Elsa la Rose, dove la gioventù di Elsa Triolet era raccontata dal suo amante-poeta Louis Aragon, con le memorie della stessa Elsa.
Garage Demy è un grande atto d'affetto, un cinema del cuore che disintossica da quello dei buoni sentimenti.
Umberto Mosca, Cineforum n. 316, 7-8/1992 |
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