Border - Creature di confine - Gräns
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Soggetto: dal romanzo di John Ajvide Lindqvist; sceneggiatura: Ali Abbasi, Isabella Eklöf; fotografia: Nadim Carlsen; montaggio: Olivia Neergaard-Holm, Anders Skov; effetti: Peter Hjorth; interpreti: Eva Melander (Tina), Eero Milonoff (Vore), Viktor Åkerblom (Ulf), Jörgen Thorsson (Roland), Andreas Kundler (Robert), Joakim Olsson (turista); produzione: Nina Bisgaard, Peter Gustafsson, Petra Jönsson per Meta Spark & Kärnfilm; distribuzione: Wanted, Pfa Films e Valmyn; origine: Francia-Svezia-Danimarca, 2018; durata: 104’. |
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Trama: | Una guardia di confine che ha fiuto per identificare i contrabbandieri un giorno si trova di fronte ad una persona che non riesce a decifrare. |
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Critica (1): | Spesso nel cinema di genere indipendente europeo la presenza di mostri è un pretesto per parlare di identità, comprensione di sé e scoperta (vedi Raw o Thelma). Sotto questo punto di vista, Border non è certo un’eccezione. Un fantasy mascherato da dramma personale, una storia di creature magiche non dichiarata, tanto realistica quanto fantastica.
Tratto dall’omonimo racconto dello svedese John Ajvide Lindqvist, Border racconta la vicenda di Tina, donna dall’estetica ambigua e dalle magiche capacità di fiutare i sentimenti delle persone (abilità che sfrutta alla dogana, dove lavora impeccabilmente), e dell’incontro con un uomo molto simile a lei (Vore), che la porta a perdere il propro equilibrio interiore.
“Creature di confine”, riporta il sottotitolo italiano, e sono proprio i sottili confini la forza trainane del film. Prima di tutti il luogo, la dogana come confine per eccellenza attraverso cui individui entrano ed escono da una nazione, ambiente di lavoro nel quale Tina si trova ad avere a che fare con soggetti a lei “estranei”; a esso viene contrapposta la natura come suo habitat naturale lontano da occhi indiscreti e libero luogo di sfogo. La dogana e la foresta si fanno binomio “ambientale” di un contrasto più universale: il rapporto tra uomo e animale. Non solo nelle location, questo è anche estetico e caratteriale. Tina e Vore sono ambigui, esteticamente primitivi, corrono nudi nella foresta e ringhiano come animali. Punto di incontro tra gli uomini “civilizzati” (i colleghi e il padre) che vivono attorno a loro e gli animali “selvaggi” (i cani e la volpe) coi quali interagiscono come fossero loro simili. Il confine è sempre più labile quando ad un uomo elegante e pulito si scopre appartenere un archivio di materiale pedo-pornografico (tematica sociale insistente nel film). L’animale sta nell’uomo o l’umanità invade l’animale. L’opposto dell’innocenza, della correttezza e dell’onestà di una protagonista che ricorda tanto il recente Lazzaro felice che, come lei, faticava ad appartenere ad una contemporaneità denaturalizzata.
Con l’arrivo di Vore, nel film vengono introdotti altri sottili confini. Tra i tanti, quello sessuale: l’incertezza di genere che comporta transizioni genitali. Non solo, anche un confine di stili di vita, la sedentarietà di lei in relazione al nomadismo di lui, da cui scaturisce il grande conflitto interiore di Tina relativo a ciò che vuole fare in rapporto a ciò che è costretta a fare: la sua natura contro la sua educazione, il suo “simile” Vore contro il “fidanzato formale” Roland, sentirsi speciale contro il sentirsi normale, aiutare gli animali che attraversano la strada o aiutare la vicina di casa che deve partorire. Uno non preclude l’altro ma, di certo, non tutto può coesistere.
Ali Abbasi, regista svedese di origini iraniane giunto al suo secondo lungometraggio, si riconferma interessato a giocare e ad insistere con gli stilemi del cinema di genere. In Shelley, il suo horror d’esordio, i canoni del genere erano ben evidenti (forse anche troppo “ricalcati”) e riproponevano le dinamiche di un certo cinema dell’orrore, costruito intorno alla gravidanza e al concetto di feto-parassita, al quale Rosemary’s Baby è riferimento più generalizzante.
Con Border, il regista si allontana dall’horror per abbracciare il fantasy, il tutto accompagnato dalla location e dalla cultura nord-europea, affidando a queste il compito di mascherare, in parte, l’evidenza del genere per offrire un tono più realistico. Ali Abbasi, rifacendosi sempre al fantasy, lavora sui corpi e sulla loro ambiguità. Le dentature irregolari, le unghie sporche e la fisicità selvaggia sostengono il film e la narrazione. Tra umani-animali e animali-umani, Border rimane un film sulla scoperta di sé: uomo, animale o mostro che sia.
Alberto Savi, cineforum.it, 25/3/2019 |
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