Ombrellone (L')
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Regia: | Risi Dino |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Ennio De Concini, Dino Risi; fotografia: Armando Nannuzzi; musiche: Lelio Luttazzi; montaggio: Franco Fraticelli; scenografia: Maurizio Chiari; arredamento: Bruno Cesari; costumi: Maurizio Chiari; interpreti: Enrico Maria Salerno (Enrico Marletti), Sandra Milo (Giuliana Marletti), Daniela Bianchi (Isabella Dominici), Trini Alonso (Clelia Valdameri), Pedro De Quevedo (Gustavo Valdameri), Lelio Luttazzi (Conte Antonio Bellanca), Raffaele Pisu (Pasqualino), Leopoldo Trieste (Prof. Franco Sportorri), Véronique Vendell (Giuliana), Jean Sorel (Sergio), Ana Castor (Signora Pellini); produzione: Ultra Film (Roma), Les Films Du Siecle, Sud Pacifique Film (Parigi), Altura Film (Madrid); distribuzione: Griffith; origine: Italia-Spagna-Francia, 1965; durata: ’97. |
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Trama: | L'ingegner Enrico Marletti, approfittando di due giorni di vacanza, decide di far visita alla moglie Giuliana in villeggiatura sull'Adriatico. Lasciata Roma si trova immerso nella frenetica atmosfera d'una spiaggia in "alta stagione", fitta di gente pettegola, noiosa, invadente, che per divertirsi s'adatta ad ogni sciocca, spossante occupazione. Enrico non tarda ad accorgersi che Giuliana è a disagio. Geloso, crede di individuare in Sergio, un "latin lover" balneare, la cagione del turbamento. In verità un corteggiatore c'è, si tratta del conte Bellanca, un personaggio che tenta di conquistare Giuliana ricorrendo ai poeti "impegnati", con il segreto proposito di ricavare dall'avventura qualche buon affare dato che il conte fa l'antiquario. La situazione devia dalla china pericolosa lungo la quale sembrava scivolare. Rasserenato, l'ingegner Marletti tornerà a Roma, dove finalmente potrà concedersi un lungamente vagheggiato sonno ristoratore. |
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Critica (1): | L'ombrellone chiude un'epoca, suggella una stagione: la villeggiatura degli anni del boom. È infatti ormai tempo di «congiuntura», la festa è finita. Vi troviamo simbolicamente riuniti tutti i principali arnesi del cinema del miracolo (quello «vecchio», progenitore, illusioni e velleità comprese, di quello «nuovo», berlusconiano): la spyder, la spiaggia, le canzonette. Ma un velo di inquietudine, ancora impalpabile e inspiegabile (vedi i dubbi sulla virilità del protagonista, cui Enrico Maria Salerno dà l'impronta precisa e inequivocabile del quarantenne in crisi), sta calando sull'euforia, sul vitalismo e sul mito della facilità che ha fatto correre i sogni degli italiani.
È proprio questa la sensazione che Risi e il suo film intendevano comunicare, un po' grossolanamente. La corsa, divenuta febbre, al consumare esperienze e riti edonistici forse sospinti dall'oscuro presagio dell'imminente fine di ogni pretesto festoso. E il corrispondente dilagare di una volgarità chiassosa, avida e rapace, venuta allo scoperto, non più mascherata dai costruttivi slanci, dal dinamismo salutare e vitale che, mescolandosi con le stesse pulsioni diaboliche, aveva accompagnato la ricostruzione e il boom nel cuore del loro decorso, dando vita a una figura sociale, a una classe di nuovi protagonisti privi di scrupoli morali ma anche portatori a loro modo di una funzione storica rivoluzionaria.
Ora restano le macerie e le scorie di una modernizzazione fatta solo di apparenze e di simboli che da lucidi e smaltati si sono fatti rapidamente obsolescenti e cupi: file di automobili sotto il sole cocente e ostile (la luce del film ha un suo ruolo importante: sebbene malridotto dal tempo, ed esasperato fuori misura, il suo colore era e voleva essere ún rosso acceso e innaturale). Era un'idea forte quella del finale ma il gusto del grottesco di Risi non è lo stesso di Ferreri che avrebbe probabilmente reso il medesimo spunto più incisivo e inquietante.
Rientrato nel suo appartamento di città Enrico Marletti ascolta alla radio un notiziario che dà apparentemente conto del neutro svolgersi della vita vacanziera, mentre è in realtà un autentico bollettino di guerra con invasioni (di turisti stranieri) e scontri cruenti (incidenti stradali). Ma il regista, lo confessa lui stesso con l'istinto iper-autocritico che lo contraddistingue, non seppe o non volle essere abbastanza deciso e così, come testimoniano le tiepide (e tanto per cambiare sopracciliose) reazioni critiche contemporanee, finì con lo sprecare un'occasione, per edulcorarla. Quello che poteva essere un apologo assai più efficace e memorabile divenne un'opera troppo timida e ibrida, parte dello scorrere brillante ma in definitiva indistinguibile di uno standard creativo che privilegiava sempre e comunque l'intrattenimento «per tutti» sui rischi di una critica sociale che potesse escludere o scontentare qualcuno.
Nel bene e nel male, ai livelli più alti come negli episodi meno importanti, è del resto sempre stata questa la più profonda e autentica vocazione di Risi.
Paolo D’Agostini, Dino Risi, il Castoro Cinema, 1-2/1995 |
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Critica (2): | «Da L'ombrellone non è venuta forse fuori la cosa che volevo si sentisse di più, la vacanza cioè intesa come una guerra, coi morti sulle strade eccetera... Il film non è stato abbastanza virulento. C'era una buona idea di partenza, e una preoccupazione di essere piacevoli che ha guastato un po' tutto. Abbiamo voluto esasperare la luce dell'estate, per fare sentire una certa volgarità della vacanza; spiagge stipate come carnai, come vetrine di negozi a Natale; dove non c'è più piacere dell'avventura, nè gusto della vacanza, nè riposo... I colori specialmente il rosso delle abbronzature, accentuano il tono grottesco del film».
Lorenzo Codelli, Intervista a Dino Risi in Positif n. 142 settembre 1972 |
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Critica (3): | Nell' ultimo film di Dino Risi, L'ombrellone (1965), la "canzone di consumo" ha perduto il valore accessorio che pareva esserle riservato nei precedenti film dello stesso regista ed è stata promossa a elemento sostanziale; non accompagna un universo che l'accetta come diversivo ma ne sostiene uno anch'esso di consumo. In L'ombrellone quest'universo di consumo è il mondo delle vacanze, microcosmo senza alternative, concentrato dello spettacolo che il mondo moderno offre a se stesso, proiezione delle mediocrità piccolo-borghesi chiuse sotto vetro, pronte per l'analista alla ricerca della loro ragion d'essere. Risi non alza il vetro, non seziona lo spettacolo per demistificarlo; il suo realismo è quello di chi aderisce al mondo che descrive, senza sollevarsi alla ricerca delle cause che lo determinano; egli si limita a riprodurlo, attento ai caratteri del mezzo che usa, il cinema, preoccupato di rendere la violenza fisica, visivo-sonora, di questo spettacolo e individuare le leggi di compensazione, che evidenzia attraverso un intrigo. La storia del marito (Enrico Maria Salerno), della moglie (Sandra Milo) dell'amante (Lelio Luttazzi) si risolve senza apportare mutamenti sostanziali nei personaggi: non fa cioè che confermare la circolarità del mondo riprodotto, la sua sostanziale chiusura; mette fra due parentesi di immobilità (la scena iniziale e quella finale) lo sfrenato movimento di un universo di consumo, come dicevo, che si identifica con un universo di spreco (vedi per esempio la partita di calcio). Nei suoi miglior film Risi non ci aveva abituato ad ambienti dissimili ma li aveva ridotti a dècor, puntando l'attenzione piuttosto sul personaggio che vi si muoveva: Sordi (Una vita difficile), Gassman (Il sorpasso), Chiari (Il giovedì). Essendo dècor, l'universo di consumo conservava ancora il fascino dei suoi beni: le automobili, le spiagge, le belle ragazze da passerella, le canzoni. In L'ombrellone ciò che era affascinante è divenuto sgradevole: le automobili non hanno più provetti guidatori, le spiagge sono troppo affollate, le belle ragazze sono eccessivamente provocanti (come la disponibile straniera) si alternano a troppo mature concorrenti, le canzoni, infine sono invadenti e ossessive. Quel tanto di privacy che c'era nell'intrigo dei precedenti film qui è assorbito da un universo digestivo che conosce solo la dimensione collettiva, le folle, i balli, le canzoni diffuse dagli altoparlanti, le conversazioni intrecciate, il divertimento a tutti i costi. La sgradevolezza de L'ombrellone è innanzi tutto una sgradevolezza fisica. Ma Risi, rispettando rigorosamente i dati della realtà esaminata (tanto che il film può essere fruito dallo spettatore medio come uno dei beni di consumo che rappresenta), finisce col fare della sgradevolezza un atteggiamento morale. Voglio dire che introducendo nelle pieghe del suo racconto apparentemente evasivo (perchè rispetta le "apparenze" dell'evasione) un eccesso degli elementi che lo compongono, impedisce il completo abbandono dello spettatore al ritmo delle canzoni, al fascino delle belle ragazze, al sogno delle spiagge assolate in pieno inverno, al rombo rassicurante delle automobili. Per questa via di rappresentazione fisica il film, pur non arrivando a demistificare il fenomeno e illuminare le cause che lo producono, mette lo spettatore in condizione di reagire ad esso, poiché si pone come oggettivazione troppo concreta di un mito per permettere a chi lo guarda di sognarlo.
Adriano Aprà Filmcritica n. 164, febbraio 1966 |
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