Cotton Club - Cotton Club (The)
| | | | | | |
Regia: | Coppola Françis Ford |
|
Cast e credits: |
Sceneggiatura: William Kennedy e F.F. Coppola; fotografia: Stephen Goldblatt; scenografia: Richard Sylbert; costumi: Milena Canonero; musica: John Barry, montaggio: Barry Malkin; interpreti: Richard Gere (Dixie Dwyer), Gregory Hines (Dalbert Williams), Diane Lane (Vera Cicero), Lonette Mc Kee (Lila Rose Oliver), Bob Hoskins (Owney Madden), James Remar (Dutch Schultz), Nicolas Cage (Vincent Dwyer), Allen Garfield (Abbadabba Berman), Julian Beck (Sol Weinstein), Joe Dallessandro (Lucky Luciano); produzione: Barrie M. Osborne e Joseph Cusumano; distribuzione: Cineteca dell’Aquila; origine: USA, 1984; durata: 125’. |
|
Trama: | Alla fine degli anni Venti, il Cotton Club, a New York, è il più famoso locale della metropoli. Vi si esibiscono cantanti e ballerini negri, mentre solo ai bianchi è riservato l’accesso. In occasione di un attentato a un boss (Schultz, l’olandese), presente nel locale, Dixie, un giovane bianco suonatore di cornetta, gli salva la vita. Schultz vuole sdebitarsi, fa assumere il suonatore al Cotton Club gestito da un altro “boss” (Owney Madden) e incarica Dixie di fare l’accompagnatore dell’amante Vera Cicero. Dixie e Vera piano piano si innamorano, ma l’ombra dell’olandese incombe. Capi e capetti del gangsterismo si danno convegno al Cotton, ma Dixie non accetta più il ruolo impostogli e, grazie all’intervento e alla simpatia del proprietario del club, va ad Hollywood dove con fulmineo successo riesce a diventare un idolo del cinema. Vera rifiuta di fuggire con lui, pur amandolo, dominata e intimidita dalla violenza dell’olandese che ha aperto a suo nome un lussuoso locale. Ma anche per Schultz la carriera è finita. Emergono nella malavita uomini nuovi: l’astro sorgente è Lucky Luciano, che aspira ad essere il signore del mondo del vizio e i cui killers fanno fuori l’olandese e la sua banda. Il boss che gestiva il Cotton Club si defila dalla scena, preferendo qualche mese di prigione per reati fiscali ai rischi mortali incombenti sulla città, mentre Dixie e Vera partono per vivere il loro amore ad Hollywood. |
|
Critica (1): | A leggere la storia produttiva dei vari film di Coppola si rimane strabiliati. D’accordo, ogni film è una scommessa, ma non c’è preparazione di qualsiasi pellicola dell’italo-americano che non assomigli a uno di quei drammi familiari meridionali, fatti di gesticolazioni, mani nei capelli, sedie rovesciate a terra, donne che urlano su registri sovracuti, vecchie in nero che si coprono gli occhi con le mani, uomini che trattengono (o fingono di trattenere) a stento la loro ira, la loro violenza. Le porte sbattono, i caratteristi si susseguono sulla scena. Esce un finanziatore, ne entra un altro, si litiga, ci si accorda, si rompono i patti, si ricomincia daccapo. Una vera noia, prevedibile come i feriti dai botti la notte di Capodanno a Napoli.
Il lettore ci scusi quindi se sorvoliamo su quella che si avrebbe la tentazione di supporre un’abile messa in scena promozionale (o almeno, anche questo) e passiamo invece subito al film.
Il quale sembra dovesse essere inizialmente tutto sul problema (o quantomeno il tema) negro, e invece – dopo le prefiche di cui sopra – se n’è uscito come un’opera condotta su due binari, o meglio, e democristianamente, su convergenze parallele.
È inevitabile infatti rilevare immediatamente la concordanza dei due plots sentimentali: Dixie ama Vera, mantenuta da un altro, e Sandman ama Angelina, anch’ella al soldo di un terzo uomo. Ma le concordanze in certa misura continuano: Dixie ha un fratello che ama, eppure le strade dei due divergono drammaticamente, così come quelle di Sandman e del fratello (ancorché, va notato, il primo rapporto si concluda tragicamente, mentre il secondo gode di un lieto fine). E tant’è per la struttura simmetrica del film. Una struttura entro la quale trovano corpo alcuni dei temi che pervadono il cinema coppoliano: il gangsterismo, la famiglia, la difficoltà di coppia, la razza, la festa, la musica, ecc.. Come e più di altri film coppoliani – e segnatamente soprattutto i due Padrini – Cotton Club si muove sull’intersezione di pubblico e privato in chiave traslatamente autobiografica attraverso un quadro – ancorché segmentale – di natura storica. In altre parole, alcuni anni della storia dell’America urbana e gangsteristica sono osservati (ricostruiti) nella finzione di alcune storie personali.
In realtà, a starci attenti, il referente primario dell’intera operazione è il cinema, dal momento che questa si organizza secondo i modelli elaborati dalla tradizione narrativa hollywoodiana: il bravo ragazzo involontariamente coinvolto con un gangster, il suo equivalente (qui addirittura suo fratello) volontariamente compromesso nello stesso ambito sino a lasciarci la pelle, l’entertainer che dà la scalata al successo e che per riuscire si comporta in modo discutibile nei confronti del partner, i gangster che si riuniscono per dividersi le zone da sfruttare e infiniti altri esempi che in ultima analisi si identificano con l’intero film. A fianco di questa fondamentale componente metacinematografica si pongono poi altri dettagli, dai titoli di testa obliquamente disegnati con l’illusione di rilievo tipicamente anni ’30 al gangster Dutch che, fuggendo dopo l’assassinio del rivale, si ritira nell’ombra allo stesso modo di Paul Muni nel celebre finale di Io sono un evaso di Mervyn LeRoy, al terrazzo scoperto dove, come in Fronte del porto di Elia Kazan, il gagster Owney tiene i suoi piccioni (ma non dimentichiamo, per la cronaca, la stessa idea anche in Per favore, non toccate le vecchiette di Mel Brooks), all’assassinio di Dutch e dei suoi nel finale, compiuto esattamente come nel primo Padrino, ad Angelina che è un ex bluebell di Ruth Etting (cfr. Amami o lasciami di Charles Vidor), alla classica frase pronunciata da Vera, «È stato bello finché è durato», alle stesse non meno classiche dissolvenze incrociate su eventi, date di anni, denaro, titoli di giornali, ecc. nella guerra dei racket di Harlem, e così via. Coppola tuttavia organizza il suo film in modo che al referente metacinematografico si affianchi (o meglio, si opponga) una controspinta di carattere sedicentemente storico. In particolare, i continui riferimenti a personaggi famosi di quegli anni, molti dei quali vengono addirittura temerariamente messi in scena in sfida a ogni verosimiglianza fisiognomica: vediamo Duke Ellington, Gloria Swanson, Lionel (Hampton), Cab Calloway, Lucky Luciano, Charles Chaplin (che a distanza di sette anni da The Gold Rush gioca ancora con i panini sul tavolo, evidentemente ad unico beneficio di noi spettatori), Fanny Brice, James Cagney, e sentiamo citati i nomi dei contemporanei Ruth Etting, Julius Lepke, e – vero e proprio gioco di specchi – Mike Coppola. Cotton Club, intendo dire, da un lato si propone come cinema «in eccesso», come opera costruita su una continua serie di referenti cinematografici tradizionali, e dall’altro come cinema «in difetto», come opera che – sia pure nei limiti dell’oggettiva, concreta impossibilità di resuscitare il passato – rimette davvero in scena volti e nomi di spettacolo e cronaca come a voler ridurre drasticamente l’inevitabile distanza storica che altri film situati nel passato (in quel passato) avevano trattato affidandosi a convenzioni meno dirette e più allusive.
Ma c’è una terza linea del film che, per così dire, funge da sintesi delle altre due, la zona entro la quale l’eccesso e il difetto, l’immaginario hollywoodiano e una pur discutibile storicità si saldano insieme: il personaggio di Dixie. Dixie, il cui stesso nickname riecheggia quello di Bix Beiderbecke, è liberamente ispirato al grandissimo jazzista degli anni ’20. Anche il leader dei Wolverines, pur onesto, sembra fosse stato coinvolto con personaggi underground di dubbia fama, e Dixie si produce non a caso, venendone richiesto, in quel Singin’ the Blues che per universale opinione è, insieme a I’m Comin’, Virginia e Way Down Yonder in New Orleans, la cosa più alta da lui mai registrata in quel mitico 1927 che gli vide a fianco Frankie Trumbauer al C-melody sax, Jimmy Dorsey al clarinetto e Eddie Lang alla chitarra. È il più grande cornettista bianco, esclama ammirato Dutch all’inizio del film, anticipando, o ripetendo, quel che dirà Hugues Panassié, lo storico e musicologo per il quale il jazz è un fenomeno unicamente negro e che pure nel suo volume sull’argomento – pubblicato, se ben ricordo, nel 1934 – inserisce il nome di un solo musicista bianco: Bix Beiderbecke. E quanto a questo, il film termina nel 1931, anno della morte di Bix. A questo punto però bisogna fare attenzione. Cotton Club non è certamente una sia pur libera biografia di Bix (non è, insomma, Chimere di Michael Curtiz). Tutt’all’opposto, il film di Coppola manipola elementi biografici unicamente nella misura in cui essi, amalgamandosi ad altre componenti narrative relative allo specifico personaggio, contribuiscono a disegnarlo, da questo punto di vista, in termini di «incertezza». Dixie, cioè, può, sì, essere letto come Bix, ma non abbastanza da identificarlo con lui (è questa, fra l’altro, la ragione per cui Coppola ha imposto a Richard Gere di suonare personalmente – e malamente – la cornetta, invece di farlo «doppiare» da qualche professionista o, perché no?, da registrazioni dello stesso Beiderbecke). La sua storia personale presenta momenti di una diversità troppo evidente perché noi si possa operare una identificazione. Ma al tempo stesso presenta anche allusioni non meno importanti perché il ricordo non corra al personaggio in questione. È insomma il modo escogitato da Coppola per mediare – come si diceva – le linee in eccesso e in difetto del film: non troppo vero, ed insieme non troppo falso, il personaggio di Dixie è il punto di raccordo e di coesione di un’operazione storico-cinematografica estremamente delicata. Tanto delicata che al momento climactico più alto della storia non c’è altro mezzo per scioglierla se non squilibrandone l’attenta costruzione.
Dutch giura vendetta contro Dixie e gli altri, Vera afferma che non può andarsene con il musicista che pure ama, nuovi volti si affacciano sulla scena gangsteristica: nell’insieme tutto si complica (ma, attenzione, sul versante bianco della vicenda). Il nodo gordiano è tagliato lasciando mano libera al nuovo. Lucky Luciano fa uccidere Dutch e i suoi, in questo modo ottenendo spazio e sicurezza per se stesso e per l’alleato Owney, che peraltro capisce bene che un’epoca è finita. Dutch, aveva detto Owney, tiene la gente con la paura, mentre a me sta a cuore la lealtà. Finita un’epoca con la morte del primo, Owney capisce che se n’è aperta un’altra della quale lui non può essere partecipe: forse è ancora un’epoca di paura, forse di qualcos’altro, certo non della lealtà nella quale lui crede (vengono in mente le parole di John Houseman in I tre giorni del Condor di Sydney Pollack). Luciano non parla a raffica come Dutch, non si mette in mostra, non si esibisce, ma se ne sta tranquillo nell’ombra. Di lui non vediamo né bocca né mani, vediamo solo gli occhi, seri, meditativi, spietati. Al vecchio gangsterismo sen’è sostituito un altro, fatto di bocche cucite, di silenzi più che di boati (aveva ragione Dutch, quando poco prima di morire diceva: «Ora gli italiani sono un problema», alludendo al problema che erano stati in precedenza negri ed ebrei).
Così Owney se ne va a Sing Sing di sua scelta. Vi porterà persino lo spettacolo del Cotton Club (un’altra allusione al primo film di Mel Brooks? o magari a quel The Blues Brothers di John Landis che era in fondo già presente nell’allusivo spettacolo di Cab Calloway e della sua «Minnie the Moocher» al Cotton Club?), lo spettacolo di un’epoca che sta per chiudere i battenti.
Ma l’eliminazione di Dutch è foriera di altre conseguenze: Vera può riunirsi a Dixie, ormai libera da impegni e paure. Risoluzioni così consolanti avvengono solo al cinema, e allora bisogna proporle senza tanta verosimiglianza. È a questo punto che la scenografia tutto sommato «realistica» della pellicola (ancorché fotografata con una luce squisitamente artificiale, come del resto si conviene a un film che ha tale entroterra teorico e uno speciale interesse per palcoscenico e locali di spettacolo in genere) si sfalda volutamente in un musical trionfale. Qualche montaggio alternato e una stazione ferroviaria (quella nella quale Owney è portato per andare a Sing Sing) diventa subito un palcoscenico sul quale avviene di tutto: matrimoni, riunioni sentimentali, lezioni di tip tap (e impartite da una maestra d’eccezione, Gwen Verdon, mostro sacro di Broadway, la più grande partner di Bob Fosse). II treno che parte non può non essere a questo punto il 20th Century di Hawks, e del resto già i precedenti della catarsi – altro mirabile montaggio alternato – si erano presentati come spettacolo e ritmo (il tap dancing di Sandman e la fine di Dutch). Che cosa è vero, allora, in questo strano film giocato su poca e su troppa (tentativa) verità? È la domanda che dobbiamo porci guardando Dixie che fa il gangster e che, per comune ammissione non sa recitare, ma che essendo un bel ragazzo è quel che ci vuole per lo schermo (il 20° secolo allora potrebbe anche essere una nuova definizione, un nuovo statuto, una nuova coscienza professionale dell’attore cinematografico: dopotutto siamo ormai negli anni del grande rivolgimento del sonoro). Fin qui non sarebbe nulla, ma è quando Dixie dice a Dutch di avere modellato su di lui il suo personaggio di gangster e che Dutch gli ha insegnato tutto quello che egli sa sui gangster, è allora che qualcosa non funziona (o funziona sin troppo bene): se Dixie è un gangster da strapazzo, anche quello su cui lui si è modellato non può non esser tale.
Oppure ha ragione Lucky Luciano quando si complimenta con Dixie per avere finalmente reso un’immagine realistica del gangster. In ogni caso, qualcosa non funziona (o non funzionava). E allora chi mai in questo film è quel che dovrebbe essere? O meglio, esiste qualcuno che dovrebbe essere qualcosa?
Qualcuno esiste, sì, e sono i negri. Il discorso del negro ruffiano a Sandman è di estrema lucidità, non prelude a chissà quali rivolte, è soltanto un’attenta lettura oggettiva della realtà. E, di più, i loro contrasti, pubblici e personali, a confronto con quelli dei bianchi sono più tranquilli, meno drammatici, più «umani», risolti, come al Club dei Maniscalchi, con uno splendido tap dancing generale di Sheik of Araby. La sequenza di Crazy Rhythm cantata e ballata dai due fratelli Williams che non finiscono il numero ma si guardano un attimo in silenzio e poi si abbracciano di getto, d’impulso è non solo bellissima da un punto di vista umano e psicologico (e, conoscendo Coppola, persino autobiografico), ma indicativa di un altro modo di trattare con se stessi, con le proprie contraddizioni, con i propri errori. I negri ammazzano «con le scarpe da tip tap», come dice Sandman alludendo, in fondo, anche all’eccezionale sviluppo e fortuna dell’arte negra dell’entertainment in questi ultimi decenni (non è tutta negra la musica rock odierna?). E allora la celebrazione della négritude che Cotton Club voleva essere prima ancora che Coppola rimettesse mano alla sceneggiatura originaria rimane dopotutto nel film. E vi rimane, a ben vedere, in modo molto più concreto ed efficace di quel che sarebbe stato in un film che del locale di Harlem avesse fatto unicamente il punto di riferimento di una pellicola «sui negri».Acquista così senso anche quel cliente dormiglione che alla fine si sveglia ed applaude ad uno spettacolo che non ha visto, un uomo fuori dalla Storia prima ancora che dalla cronaca, un personaggio incosciente come potenzialmente molti di noi sarebbero stati senza un film come Cotton Club.
Franco La Polla, Cineforum n. 241, 1/1985 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| Françis Ford Coppola |
| |
|