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Febbre a 90° - Fever Pitch


Regia:Evans David

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Nick Hornby dal suo romanzo omonimo; fotografia (colore): Chris Seager; montaggio: Scott Thomas; musica: Neill McColl e Boo Hewerdine; interpreti: Colin Firth (Paul Ashworth), Ruth Gemmell (Sarah), Neil Pearson (padre di Paul), Lorraine Ashbourne (madre di Paul), Mark Strong (Steve), Holly Aird (Jo), Luke Aikman, Charles Cork, Stephen Rea, Richard Claxton, Bea Guard, Annette Ekblom, Peter Quince, Bob Curtiss, Ken StottTed; produzione: Wildgaze Films/Channel Four; distribuzione: Mikado; origine: Gran Bretagna, 1997; durata: 104’.

Trama:Paul, tranquillo professore di lettere in una scuola media nella zona nord di Londra, è un accanito tifoso dell'Arsenal. Incontra Sarah, una collega seria e riservata molto attaccata al proprio lavoro con la quale inizia una convivenza. Ma la passione per la squadra del cuore – che sul finire della stagione ha un'impennata ed arriva a giocarsi il titolo nell'ultima partita contro il Liverpool – potrebbe mettere a repentaglio la storia d'amore.

Critica (1):CS è un metodo efficace per valutare Febbre a 90° (Pitch Fever, Gran Bretagna, 1997): immaginarselo scritto e girato all’italiana. Di certo, sarebbe dichiaratamente, pesantemente un film sul calcio. Ossia: pontificherebbe sulla pericolosità sociale del tifo, o tutt’al contrario ne esalterebbe i luoghi comuni. E forse, per accontentare tutti, cercherebbe di fare le due cose insieme, così finendo per non piacere a nessuno. Poi, sceneggiatura e regia non ci risparmierebbero provincialismi linguistici, volgarità folcloristiche, abiezioni varie. In ogni caso, gli autori non racconterebbero individui ma stereotipi, caricature denigratorie e fors’anche mostruose... Insomma, scritto e girato all’italiana, Febbre a 90° sarebbe l’esatto contrario del film di David Evans. Lo sceneggiatore Nick Hornby afferma di non aver scritto “a football film”. Tra l’altro, ricorda quanto sia difficile che il cinema renda credibile la ricostruzione d’una partita. Le immagini che ne vengono, sostiene, sono sempre insoddisfacenti (per la verità, usa un’espressione più colorita: “They always look crap”). Accade così che il calcio quasi non si veda, nei 102 minuti del film. Non ci sono folle gruppi di individui, ognuno riconoscibile, per quanto pronto a identificarsi nell’entusiasmo collettivo. E non ci sono nemmeno momenti di gioco vero e proprio, se non verso la fine e sempre molto brevi. Ben lontano dall’essere un film sul calcio, Febbre a 90° racconta di uomini e di donne, delle loro vite osservate attraverso il calcio, i suoi miti e i suoi riti. La questione di fondo viene posta fin dalle prime immagini. Che cosa hanno mai da dirsi Mr. Ashworth senior e i suoi due figli, seduti al tavolino d’un bar o d’un ristorante da pochi soldi? Certo, sarebbe opportuno che un discorso riempisse il vuoto dei loro lunghi pomeriggi domenicali. Può darsi che, davvero, niente li unisca. Oppure, semplicemente, può darsi che a loro – e a moltissimi altri come loro – riesca difficile e penoso vincere l’inerzia dei sentimenti, liberarsi da una sorta di timidezza che alla lunga mette a tacere cuori e anime. In ogni caso, questo è il dato: i pomeriggi degli Ashworth sono ingrigiti e imbarazzati dalla noia e dal silenzio. O almeno, lo sono finchè le loro vite trovano per così dire una mediazione proprio nel tifo per l’Arsenal. Entrando per la prima volta in uno stadio, d’improvviso l’adolescente Paul s’illumina in volto. Quello che ha davanti agli occhi non è solo un gioco, non è solo uno spettacolo: è una dimensione autonoma, felicemente chiusa in sé, affrancata dalla serietà della vita, un luogo dove gli incontri e i discorsi si fanno per incanto facili e intensi. Molti anni dopo, per spiegarlo a Sarah, usa una metafora trasparente. All’inizio d’ogni stagione - così misura e chiama gli anni, infatti - il programma di gioco della squadra (sicuro e inequivocabile, stampato com’è in un depliant) consente appunto di “programmare” il futuro. Per quanto la stagione precedente possa essere stata disastrosa, la successiva si presenta colma di promesse, del tutto nuova. Per il tifoso, i sogni tornano a vivere ogni dodici mesi, in una ciclicità temporale che si rigenera senza fine. D’altra parte, Evans e Hornby non hanno alcuna intenzione di fare un po’ di sociologia e d’antropologia spicciole sulla mitologia e anzi sulla Grande Narrazione che accomuna in questi nostri anni milioni e milioni di uomini e donne, vincendone in qualche modo il silenzio, l’inerzia, la solitudine. Il loro è appunto un film su uomini e donne, non su pregiudizi intellettualistici. Dunque, che cosa significa per Paul (e per gli altri) questa “mediazione” della vita e dei sentimenti? E prima ancora, come l’occhio del cinema deve osservarne il tifo? La risposta di Febbre a 90° è netta: Paul non è un oggetto d’analisi, ma un soggetto e un protagonista. Regia e sceneggiatura lo raccontano e l’osservano stando con decisione dalla sua parte, quasi con lo stesso amore e con la stessa profonda simpatia con la quale lo vedono gli occhi di Sarah. Sono ben lontani, per fortuna, sia dalla criminalizzazione del tifo quanto dall’apologia dei suoi luoghi comuni. Anche in platea, del resto, partecipiamo senza remore alle passioni e alle angosce calcistiche di Paul. Attraverso di esse, entriamo nelle sue passioni e nelle sue angosce tout court, ossia in quella sua vita che minaccia di trascorrere grigia e vuota come un interminabile, silenzioso pomeriggio domenicale. Anzi, sempre più ci pare di riconoscere in esse anche le nostre, per quanto la nostra propria mediazione possa essere diversa dalla sua. Probabilmente, questo film di David Evans e di Nick Hornby non passerà alla storia del cinema, ma è certo l’esatto contrario d’un film girato e scritto all’italiana.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 7/12/1997

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
David Evans
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