Film - Film
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Regia: | Schneider Alan |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Samuel Beckett; fotografia: Boris Kaufman; montaggio: Sidney Meyers; interpreti: Buster Keaton (O), Nell Harrison (passante), James Karen (passante), Susan Reed (passante); origine: USA, 1964; durata: 20’. |
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Trama: | In una strada fatiscente si vede un uomo rifuggire affannosamente dallo sguardo della macchina da presa. Lo si vedrà inquadrato di schiena fino al finale del cortometraggio. Il personaggio (chiamato O nella sceneggiatura) subisce alcuni avversi contatti umani: scontra una coppia di passanti, raggiunto l'interno di un edificio, incontra un'anziana, tutti reagiscono sgomenti alla sua visione. |
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Critica (1): | Bisogna «guardare al futuro, quando ci mancheranno anche le parole». Così la protagonista di Giorni felici, in un grido di assurdo ottimismo, mentre sprofonda nel fango e sta per concludersi il suo ritorno alla terra. Per Beckett il futuro è arrivato e il silenzio calando sugli atti dell’uomo come un’infinita, spessa cortina ha tolto ad essi la fallace giustificazione delle parole, e ha lasciato soltanto lo sguardo muto, ultimo segno di una soggettività frustrata, contraddetta. Beckett raggiunge per la prima volta questa estrema tappa della cosmoclastia, da lui tante volte annunciata, nel mediometraggio Film, presentato alla Mostra di Venezia per la regia di Alan Schneider e l’interpretazione di Buster Keaton. Già sulla scena, in due dei suoi drammi più significativi, egli aveva privato i personaggi dell’uso della parola, ma si trattava, allora, di dimostrazioni geometriche affidate a balletti-pantomime, come un problema di scacchi giocato e risolto con figure viventi, dove quello che conta sono i simboli, i valori che gli individui rappresentano e non le qualità che ineriscono ad essi. Le parole in quei due lavori non venivano negate: volendo illustrare l’obiettività di una situazione era naturale che la si privasse di quell’aura emotiva e creatrice che il verbo non può fare a meno di evocare magicamente; perciò più che negare le parole, si rinunciava ad esse, dimostrando il vero attraverso segni matematici; ed è significativo che persino le indicazioni di scena, in quei drammi, richiamassero alla mente in un certo senso il linguaggio delle proposizioni geometriche. In Film il silenzio invece è affermato intenzionalmente come fine, non più usato come mezzo; direi anzi che esso viene conquistato se Beckett potesse mai ammettere una qualche conquista che non si riveli poi per una dolorosa necessità, un segno ulteriore della sistematica sconfitta dell’uomo. L’unico suono di Film è uno zittio: un modo esplicito per sottolineare che l’opera sonora non ha nulla da dire, non può dire nulla. I personaggi che gridano non si fanno udire, le loro urla non rompono la raggiunta autonomia del protagonista, autonomia che ancora una volta è per Beckett una mutilazione. Il silenzio ha sempre occupato nelle regressioni beckettiane un posto privilegiato, perché esso rivela, e con la sua opaca gravezza fisicamente accentua, l’opposizione fondamentale tra pensiero e parola. «Il pensiero fantastica la parola anche, l’uno lontano dall’altra, o per meglio dire, se non si vuole esagerare, l’uno accanto all’altra, come due cani di terracotta; è nel centro che bisognerebbe essere, dove si soffre, dove si esulta, di essere senza parola, di essere senza pensiero, dove non si sente nulla, dove non si capisce nulla, non si sa nulla, non si dice nulla, non si è nulla, è lì che si starebbe bene, dove ci si trova». In altri termini, per quanto vicini, quasi simmetrici possano sembrare i membri della coppia pensiero-parola, essi sono estranei l’uno all’altro come due ruote dentate che non si toccano. Sia il pensiero, sia la parola tentano di giustificare la vita, di tener desta la speranza, e per riuscirvi si piegano, l’uno al sofismo, l’altra al vaniloquio. Essi operano nella stessa direzione, eppure basta la leggera sfalsatura fra ciò che si dice e ciò che si pensa per rivelare l’autoinganno di cui l’uomo è vittima col suo grottesco tentativo di uscire dalla posizione che gli è stata assegnata, dove egli non è nulla e il suo verbo è cancellato. È questa la condizione dell’oggetto, cui l’uomo è ridotto nonostante le sue velleitarie aspirazioni soggettivistiche e i suoi sforzi «per non lasciarsi andare», come dice un’eroina di Beckett già prossima allo stato vegetativo. Ma quando si comincia ad accettare la propria condizione, quando si rinuncia alla lotta, alla vana contesa con le ragioni delle cose in difesa della soggettività, allora si piomba prima di tutto nel silenzio oggettuale che è un sintomo patologico, un annuncio fisico che l’uomo si rassegna e ritorna all’ordine naturale. Tutto il dramma dei Molloy, dei Malone, dei Morand sta proprio in questa resistenza alla crescente marea delle cose, a cui solo per immaginazione ciascuno di essi può per qualche tempo credersi estraneo. Nella realtà, invece, fra essi e gli oggetti c’è sempre stata continuità: il bastone che essi impugnano, questo arnese così importante nel mondo di Beckett, è il naturale prolungamento degli arti, «il lungo puntale dell’ombrello è come un dito» e il cappello è in realtà un’organica escrescenza del loro capo. Solo gettandosi in un vortice di parole quei personaggi possono fingere di ignorare le menomazioni, il grado di integrazione obiettiva di cui soffrono. Tutte quelle frasi di Malone sul suo bastone («adesso che non l’ho più mi rendo conto di quel che fosse il mio bastone, di quello che rappresentasse per me») gli servono solo per nascondersi l’amara verità: «Mahaod buttò lì come incidentalmente che mi mancava non soltanto una gamba, ma anche un braccio». Il periplo dell’autocoscienza comincia da queste scoperte: anche una persona così metodica e soddisfatta di sé come Morand entra in crisi quando comincia a trovare più comodo trascinarsi per terra che non camminarvi sopra eretto. Riconoscere che si partecipa della condizione degli oggetti al punto che questi si insediano nella nostra vita, si impossessano di noi, e rivelano a noi stessi che fra noi e loro c’è identità assoluta, rappresenta la drammatica conclusione del breve viaggio della coscienza attorno all’individuo, che si conclude col silenzio e con l’immobilità finali dell’Innominabile. In Film questa condizione oggettuale dell’uomo viene assunta quale premessa e incorporata nel rifiuto stesso del mezzo tecnico, il sonoro, di cui regista e soggettista disponevano; ma l’opera va oltre, volendo riflettere e commentare una tappa ulteriore, quella definitiva, del processo di disumanizzazione: la tappa in cui, calato nel silenzio, il personaggio subisce e brama l’ultima reductio ad nihil. Scomparso il contrappunto inebriante ed elusivo delle parole, egli deve ricorrere alla ragione, l’altro cane in terracotta ancora intatto, sempre immobile al suo posto, per sottrarsi almeno all’oggettivazione incalzante, se non per liberarsene del tutto, il che non è, né sarà mai possibile. Il fatto è che la colpa del silenzio, cioè come si è visto dell’accettazione del luogo naturale cui l’uomo è stato predestinato, risale alla ragione, intollerante dell’assurdo vaniloquio con cui l’uomo si ingegna di mascherare la realtà drammatica del proprio stato, distogliendone la propria attenzione. Ma allora come poteva la stessa ragione far fronte all’aggressività delle cose, se ne aveva già preso atto e l’aveva riconosciuta inevitabile? Qui si svela il risvolto irrazionale della ragione: per neutralizzarlo l’unica via che l’individuo potrebbe tentare sarebbe forse di rivolgersi agli altri individui, di riconoscersi in essi e quindi di superarsi (in quanto uscirebbe da sé), di stabilire infine assieme nuove tavole di valori, magari anche convenzionali, che potrebbero soddisfare parzialmente le esigenze sue e dei suoi simili. «Tutti quelli che avrei potuto aiutare. Aiutare! Salvare. Salvare! Uscivano da tutti gli angoli. Ma riflettete, riflettete, ormai siete al mondo, non c’è più rimedio!» dice Hamm in un raro momento di commozione. È un guizzo che attraversa la concezione di Beckett senza scalfirla. In Film la ragione non esce se non per brevi patetici momenti dal suo bozzolo nichilista, quando l’uomo rivede attraverso qualche fotografia la propria vita, colta alle varie epoche e in situazioni critiche e quindi guarda per l’ultima volta gli altri e se stesso con loro, e risente per un istante un moto d’amore, che è per definizione un atto comunicativo, di scambio fra diverse individualità. Ma è nulla più che un cedimento sentimentale, l’ultimo; le fotografie, con studiata lentezza e in ordine meticoloso, sono fatte a pezzi e cadono sul pavimento della sordida stanza in cui il protagonista si è rinserrato. Gli altri, riemersi per un attimo nella memoria, tornano così nel grembo delle possibilità sprecate e vi si annullano. L’assenza del prossimo ricorre implicita in tutta l’opera di Beckett, ma qui è sottolineata volutamente. Anzi si può dire che il significato profondo di Film è appunto questa fuga dagli altri, nell’illusione di scampare dal destino oggettuale, il quale invece è già in atto. Cosicché l’assurda pretesa del protagonista di allontanare artificiosamente i testimoni del proprio essere oggetto, riflette un’altra delle velleità della ragione, un suo errore logico per cui essa scambia quegli spettatori per gli autori della sua tragedia. In questo errore però una verità balza evidente: che il rapporto fra l’uomo e gli uomini, fra l’io che vede e l’io che è visto, è fatale, inevitabile. L’occhio è il mezzo e il simbolo concreto di questa visualizzazione attiva e passiva, di questa esigenza correlativa fra individui, pur contraddetta dal loro reale esistere quali pseudo individui, puri oggetti: «quell’occhio è strano, come quell’occhio chiami lo sguardo, supplichi che ci si occupi di lui, che si faccia qualcosa per lui, che lo si aiuti, non si sa esattamente a che cosa, a non piangere più, a poter fissare, a potersi chiudere. Non si vede che lui in quel volto, è partendo da lui che si cerca un volto, a lui si fa ritorno dopo che non si è trovato nulla, niente che abbia il minimo valore». Film comincia con l’occhio che occupa l’intero campo cinematografico e termina con la palpebra che lentamente cala su di esso. Il protagonista, nel corso dei venti minuti dell’opera, ha tentato di sottrarsi alla vista di tutti, della gente, degli animali, delle cose che in qualche modo evocano l’atto magico del guardare e ha fuggito la luce naturale, elemento complementare dell’occhio, sua sostanza, sua vita, suo destino, organo al pari di esso della vista, ponte iridato percorso nei due sensi, dall’interiorità all’esteriorità e dal mondo all’individuo. La rinuncia alla luce, il rifiuto di farsi vedere, non salvano però il protagonista di Film dall’unico testimone della propria oggettivazione, dal suo guardare se stesso, e questa volta dal di fuori, proprio come si guarda un oggetto, una cosa. Di qui il panico che gli si dipinge in viso, l’incredulità prima e la rassegnazione poi quando accanto a sé scorge se stesso che lo guarda, cioè lo oggettiva: egli allora chiude l’occhio, rinuncia a ogni speranza, si abbandona inerte al proprio destino di oggetto e in un certo senso lo sancisce e gli dà il proprio assenso. Questa di Beckett è l’ennesima resurrezione del double, un espediente che da Dostoevskij a oggi è stato mille volte impiegato nell’arte d’avanguardia per esprimere lo sdoppiamento della coscienza. La quale, col continuo riflettersi sulle cose, non riesce ad appropriarsene, ma finisce anzi per integrarvisi diventando così coscienza nelle cose, e quindi estranea, ostile all’uomo. In Film l’apparizione del double assume particolare efficacia grazie al mezzo cinematografico che consente, quanto nessun altro, di portare fino allo spasimo l’attesa di un fatto misterioso di cui si avverte la inevitabilità. Chi assiste a Film, sente sin dall’inizio che nella stanza, luogo dell’azione, c’è, deve esserci un’altra presenza oltre a quella del protagonista, e tale sensazione è tanto più irritante in quanto nasce da una premessa che formalmente la esclude, cioè che il protagonista ha voluto essere solo, e c’è riuscito. Quando anche questo atto di volontà appare frustrato, quando accanto alla poltrona dove il protagonista si è abbandonato scorgiamo il suo double che lo guarda, allora la tensione si allenta ma solo apparentemente, perché in realtà in noi si stabilisce una tensione superiore, non più quella dell’attesa bensì quella della disperazione razionale. Il double infatti non può mai concludere una vicenda; può soltanto trasferirla da un piano d’azione su un piano di significato, due zone che sono, come molto spesso si è potuto verificare soprattutto nel cinema, nettamente distinte. Forse, senza saperlo, lo spettatore già prima della fine di Film sente implicitamente che la solitudine del protagonista è impossibile, perché noi vedendolo muoversi, agire, lottare caparbiamente contro gli estranei siamo con lui, e lui inconsapevolmente ci ha chiusi con sé nella sua stanza funebre. All’apparizione del double ci accorgiamo che la presenza che avvertivamo era appunto la nostra, riconosciamo che il double e noi siamo la stessa cosa; ancora una volta la coscienza che il protagonista lungo tutta la sua vita ha messo nelle cose e negli atti, e alla fine anche in noi, si è rappresa e solidificata fuori di lui: oggetto e soggetto si identificano sotto il segno di una assoluta oggettività. Non è necessario che lo spettatore sia particolarmente sensibile perché una volta scopertosi implicato nel double, si senta anche solidale col protagonista, rinnovando perciò, in proprio, l’esperienza e la frustrazione di questo. E se per Buster Keaton è venuto il momento di chiudere gli occhi, per noi il drammatico conflitto esplode in tutta la sua avvertibile crudezza proprio quando l’immensa palpebra cala sullo schermo.
Gian Piero Brega, Cinema nuovo, nov.-dic. 1965 |
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Critica (2): | |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Alan Schneider |
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