Grande peccatrice (La) - Baie Des Anges (La)
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Regia: | Demy Jacques |
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Cast e credits: |
Soggetto: Jacques Demy; sceneggiatura: Annie Maurel, Jacques Demy; fotografia: Jean Rabier; musiche: Michel Legrand; montaggio: Anne-Marie Cotret; scenografia: Bernard Evein; interpreti: Jeanne Moreau (Jacqueline Demestrelle), Claude Mann (Jean Fournier), Paul Guers (Caron), Henry Nassiet (M. Fournier); produzione: Paul Edmond Decharme; distribuzione: Lab80; origine: Francia, 1962; durata: 89’. |
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Trama: | Jean Fournier un modesto impiegato di banca che sta per partire per le vacanze si lascia convincere da un collega accanito giocatore di roulette ad accompagnarlo al casinò di Enghien dove incrociano una donna elegante che viene malamente allontanata dal locale. La fortuna assiste l'impiegato che vince 480.000 franchi e con questi decide di partire per la riviera e ritentare la sorte. Al Casinò di Nizza incontra la donna di Enghien, l'accosta e punta sullo stesso numero. La serata si conclude con una notevole vincita per i due che si recano a cena durante la quale Jean ascolta la storia della compagna. La donna è divorata dalla passione del gioco e ritornano al Casinò. Ancora un'altra vincita e poi il crollo fatale. Per ritornare a casa Jean deve ricorrere al padre. Prima di partire scongiura la donna di accompagnarlo e lasciare quel tipo di vita. Questa inizialmente resiste, ma alla fine sembra decidersi a seguirlo. |
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Critica (1): | Ma parliamo piuttosto di La baie des anges. Avevo scritto la sceneggiatura in tre giorni, e in questo caso si può parlare di spontaneità. Volevo fare il film molto in fretta e fare in modo che costasse poco; avrebbe dovuto costare al massimo 70 milioni, con due attori sconosciuti. All’inizio, il produttore era d’accordo su tutto. Avevo già scritto la sceneggiatura di Les parapluies e, a Cannes, nessuno aveva voluto saperne. Improvvisamente, mi è preso un folle desiderio di girare nei tre mesi successivi. Ne avevo assolutamente bisogno. (…)
La baie des anges è un film che amo davvero moltissimo, ma è stato decisamente stroncato, da tutti i punti di vista. Il solo che ne abbia parlato bene è un critico che ne ha dato un’interpretazione toccante, che accomuna questo film a Ars: e per me esistono veramente molti legami tra questi due film. L’idea di fondo è molto semplice: si parte dalla Bibbia, Adamo, Eva, il serpente, e si trovano tutti i rapporti tra i personaggi, con l’orologiaio, il padre, il Grande Orologiaio, e i due personaggi scacciati dal paradiso terrestre verso l’inferno. Ciascuno di noi ha delle realtà oscure in cui discende di tanto in tanto, o in cui proprio evita di scendere; ebbene, io ho compiuto questa discesa due volte, una volta per Ars, e una volta per La baie des anges: si tratta del medesimo universo. Per La luxure è diverso, si tratta di una visione infantile dell’Inferno: qui tutto prendeva le mosse dai ricordi d’infanzia, in seguito alla confusione sulla parola, fino alle visioni infernali; è l’idea che i bambini si fanno dell’Inferno; La baie des anges è la realtà dell’Inferno, con uno sguardo adulto posato su queste oscurità, su queste forze… E Ars è la medesima ossessione, rovesciata: la lotta di un uomo contro la presenza reale del Diavolo.
J. Demy, Cahiers du Cinéma, n. 155,1964 |
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Critica (2): | Due film, due bei film, due ritratti di donna, due diversi ritratti di donna; il primo sorridente, piccante, un po’ folle, indimenticabile; il secondo, inquietante, triste, crudele, che si vorrebbe poter un po’ dimenticare. Lola e Jackie, Anouk Aimée e Jeanne Moreau. Ci sono infatti pochi registi – e, oggi, ancor meno scrittori – che siano sensibili alla femminilità e siano in grado di esprimerla con sfumature sottili e particolari preziosi. Jacques Demy è tra questi, ma i suoi due ritratti di donna sono, quelli di una specie di iperfemminilità esasperata – che forse, sono d’accordo, agli occhi di qualcuno, e soprattutto di qualche donna, è veramente eccessiva – segno di uno stato psichico in equilibrio artificiale (Lola) o in rottura perpetua d’equilibrio (Jackie). Le due giovani donne sono tutte gesti automatici, parole automatiche, assenze di sguardo e di essere, frasi interrotte, corrette e di nuovo lasciate a mezzo. Demy sa scegliere e sottolineare solo due o tre gesti familiari, abituali, e sa ripeterli: il movimento della mano nei capelli, di Jeanne Moreau; egli sa descrivere una sola volta e precisamente il gesto, la preoccupazione, il movimento particolarmente femminile: tutta la scena del primo incontro tra Jeanne Moreau e Claude Mann, sulla promenade des Anglais, la scarpa, il cioccolato gelato, ecc.; egli è insomma fedele ad alcuni particolari del comportamento femminile, che corrispondono sia a un certo modo di essere sofisticato, sia a una certa visione del nudo, la guêpière per esempio - nera quella di Lola, bianca quella di Jackie. Queste cose, senza sollecitazione erotica di composizione, né di elaborata intenzionalità, ci fanno scoprire, senza insistenza, una toccante espressione della carne. (…)
Si è soprattutto sensibili al marchio di un regista che ama dirigere tutto il film, con vero piacere. In Lola, questo piacere appariva, se non temperato, almeno accompagnato dall’inquietudine dello stile. Senza dubbio ciò sfociava costantemente in bellezza e sicurezza di tratto, ma quell’inquietudine si sentiva. In La baie des anges si percepisce un grado maggiore di certezza, nell’intuizione stilistica.
R. Gilson, Cinéma, n. 75, 1963 |
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Critica (3): | In Lola, e’era la sceneggiatura… Qui, non c’è che questa corsa affannosa di due personaggi contro la ruota che gira e la loro felicità e la loro disperazione si distribuiscono ad arbitrio delle cifre. Tutto è ritmato secondo questi tempi: quello in cui si trattiene il respiro - e il mondo sparisce, lo schermo si restringe, diventa ossessi one. E poi quello in cui si respira, e la macchina da presa parte in quarta e se ne va sempre più in fretta, per assorbire tutto l’orizzonte e lasciarsi riempire dal cielo. C’è qualcuno che possa vedere senza scomporsi i titoli di testa, quando l’alba grigia vede i colombi sulla croisette, mentre la macchina da presa e il piano di Michel Legrand martellano insistentemente in selciato? Certo, Cera qualcosa di simile in Lola. E allora? Questa “ouverture” è forse meno necessaria, qui? non è forse normale che questo Breton, ossessionato dalla commedia americana, venga a cercare il mare e le palme di Hollywood in questi rari paesaggi della Francia in cui i marinai americani sono autentici e dove i casinò hanno un aspetto californiano?
I momenti migliori di La baie des anges – e non li ho citati tutti – sono quelli in cui la macchina da presa di Demy reinventa la commedia musicale: quando Jean arriva sulla Costa Azzurra e si affaccia alla finestra del suo albergo; quando, più tardi, con Jackie, vedrà il cielo da un’altra finestra d’albergo, nel gran lusso di Montecarlo. E se l’ultima scena del film è ancora, non una finestra, ma una porta aperta su di un altro cielo accecante, non è solo per riprendere una scena cara ad Agnès Varda (Du côté de la côte), ma perché bisognava far finire il film come era cominciato: con un profondo respiro. E se voi stessi siete capaci di respirare come la macchina da presa di Demy, è inutile che mi metta a spiegare tutte le scene una dopo l’altra, la grande scena del bureau, quella del casinò, della sala da gioco. Questa contrazione dello schermo su di un oggetto, un volto, è la passione che si fa regia. Tutti hanno senz’altro notato – come in Lola – che il bianco e il nero nelle immagini si respingono sistematicamente. Ugualmente avviene nei campi lunghi e nei piani ravvicinati. Nei primi, la tavolozza bianca. Nei secondi, i rivestimenti in legno scuro e i vestiti scuri dei giocatori, si è mai rimproverato a Gene Kelly di far uso dei piani ravvicinati, che sa far risaltare così bene? Ma Demy è francese, ha scelto degli attori francesi, e l’inizio del suo film fa pensare a Bresson. Bresson e la commedia musicale, non sono una sintesi facile da realizzare…
Il film è bressoniano più per il soggetto che per la regia: per la macchina da presa di Demy, Bresson è il punto di partenza. Il personaggio bressoniano coltiva la sua ossessione, la insegue, ne è affascinato. Il personaggio di Demy si libera della sua ossessione, vi ritorna, se ne libera un’altra volta: il fascino che egli prova è passeggero.
Si è rimproverato ai personaggi di La baie des anges di non essere reali, di recitare un dialogo letterario e vuoto. Non che mi piaccia abusare dei riferimenti, ma qui il richiamo al Bresson di Pickpocket e al Dostoesvskij (non quello de Il giocatore) de Le notti bianche conferisce al film la sua vera portata. Jackie ama il gioco come una religione, è il suo modo di sondare l’al di là, qualcosa che la trascende completamente. Attraverso il gioco, essa esperisce il sacro. Ma Jean non sente la trascendenza dei numeri. Egli ha uno strano potere su di essi. Per lui, in caso non è per nulla il caso. Perciò si spiega il loro incontro, la forza del loro incontro: Jackie rivelerà a Jean l’avventura, l’abbandono, ed essa, a sua volta, aspira alla prudenza, al ritegno un po’meschino di Jean. All’inizio, egli si lascia trascinare da lei (gioca, come lei, e perde). Lei è più forte di lui, sa dove va e si serve di lui. Quando egli se ne accorge (la schiaffeggia), non gli resta che diventare se stesso: lei lo seguirà, come lui ha seguito lei.
Mi pare che questo duello amoroso sia trattato qui con una semplicità che lo approfondisce continuamente: Jean non è soltanto “geloso” della passione che Jackie ha per il gioco. Scoprirà in questo terzo termine irriducibile il fondamento stesso del suo amore. Il borsaiolo aveva bisogno della prigione per conoscere Jeanne, il protagonista di Le notti bianche aveva bisogno dell’ombra di un rivale per mettersi ad amare. È questa stessa ombra bianca del gioco che riunisce Jean e Jackie, quest’ombra che li schiaccia e li esalta di volta involta, questa chiave sempre sfuggente della felicità.
J. Collet, Cahiers du Cinèma, n. 142, 1963 |
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Critica (4): | |
| Jacques Demy |
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