Swing - Swing
| | | | | | |
Regia: | Gatlif Tony |
|
Cast e credits: |
Sceneggiatura: Tony Gatlif; fotografia: Claude Garnier; montaggio: Monique Dartonne; musica: Mandino Reinhardt, Tchavolo Schmitt, Adbellatif Chaarani, Tony Gatlif (supervisione musicale di Amélie De Chassey); scenografia: Denis Mercier; interpreti: Oscar Copp (Max), Lou Rech (Swing), Tchavolo Schmitt (Miraldo), Mandino Reinhardt (Mandino), Abdellatif Chaarani (Khalid), Fabiene Mai (la nonna di Max), Ben Zimet (il dottor Liberman), Hélène Mershtein (Puri Daï), Colette Lepade (la moglie di Miraldo), Alberto Hoffman (Calo), Marie Génin (la madre di Max), Sha–Sha (Farida), Moïra Montier-Durac (Moïra), Ghalia Benali (Ghalia), Hayet Ayad, Mónika Juhász-Mitzura, Katica Illenyi, Mona Mercier, Pierre Petit; produzione: Princes Films/Canal+/Centre national de la Cinématographie/Nikkatsu Corporation; distribuzione: Mikado; origine: Francia/ Giappone, 2002; durata: 90'. |
|
Trama: | Max è figlio unico, ha 12 anni ed è in vacanza dalla nonna. Ha una passione per il jazz gitano, scoperto sentendo suonare Miraldo, virtuoso chitarrista amico del grande Django Reinhardt. Proprio su indicazione dell’uomo, Max si reca nel quartiere manouche per incontrare il coetaneo Swing, che gli vende una chitarra; l’indomani, torna da Miraldo e lo convince ad impartigli lezioni. Gli incontri cominciano immediatamente, con Miraldo che spiega a Max l’essenza del jazz gitano, una musica che non si scrive, ma che viene dall’orecchio e dal cuore. L’entusiasmo del ragazzino è alle stelle e se anche i suoi progressi non sono prodigiosi, Max si applica con passione e comincia a frequentare il quartiere gitano, diventando amico di Swing e affettuoso pupillo di Miraldo. E mentre, in attesa di un grande concerto, tra le roulotte si prova e si balla di continuo, Max capisce che Swing è una ragazza. L’amicizia tra i due diventa allora altro e i ragazzini si scoprono ben presto molto legati, tanto che Max, durante le abituali lezioni, inizia a simulare improbabili mal di testa per correre dietro a quella che vorrebbe diventasse la sua sposa manouche. Un giorno, proprio mentre gli rimprovera lo scarso impegno chilarristico, Miraldo abbandona Max per versarsi del caffè. Il ragazzino ha appena ascoltato gli ultimi insegnamenti del suo maestro. Miraldo, colto da un improvviso malore, è infatti caduto a terra fuori dalla roulotte, privo di vita. Come da tradizione, tutti gli averi dell’uomo vengono bruciati. Solo il manico della sua chitarra si salva e viene raccolto da Max e Swing che, insieme, lo abbandonano alle correnti di un ruscello. È l’ultimo giorno di vacanza per Max; sua madre lo aspetta già in macchina per partire. Il ragazzino e Swing si salutano. Lui le regala il suo diario, lei, che lo prega di rimanere, non sa che farsene. Ma Max entra nell’auto e se ne va. La camera, fin che può, segue la solitudine della giovane manouche. |
|
Critica (1): | Tony Gatlif è ancora alle calcagna dei gitani, del loro universo parallelo (al nostro), delle loro musiche e della loro anima. Come il musicologo di Gadjo Dilo, li raggiunge arrivando da chissà dove alla ricerca di qualcosa (o qualcuno) e alla fine, inevitabilmente ubriaco del loro mondo, sembra non volersene più allontanare. E dopo il demone flamenco di Vengo, eccolo capitare dalle parti dello swing gitano, quello doc, marcato Django Reinhardt. Gatlif a proposito: «È una musica aerea, una musica dello spazio. La mano di Tchavolo-Schmitt (l’attore che interpreta Miraldo, nonché vero erede artistico di Reinhardt e autore di quasi tutte le musiche del film, nda) che corre lungo la sua chitarra sembra un uccello che sta per spiccare il volo. Questa musica, che dovrebbe essere piena di dolore e di collera, è in realtà allegra e comunicativa. C’è della nostalgia, ma non c’è alcuna gravità (...) È arrogante, perché osa passare da una nota all’altra spezzando il ritmo (...) nasce dal cuore e dall’orecchio». Spezzare il ritmo, orecchio (occhio), cuore: sembra che Gatlif oltre che di una musica da possedere «sulla punta delle dita» stia parlando del suo film. Ancora: «Ben Zimet, che interpreta il dottore, è un cantante yiddish molto famoso a Parigi. In lui c’è una giusta miscela di gioia e tristezza».
Poco oltre, il regista si metterà addirittura a discorrere di identità tra musica e anima – il che, peraltro, suggerirebbe anche una chiave interpretativa di un percorso registico che sembra non poter prescindere, facendola diventare oggetto di attenzione privilegiato, dalla musica o dalle musiche dei mondi che ritrae. Fine dell’intervista e riflessione veloce: cuore, anima, musica/identità aerea. Parole grosse, indubbiamente. In Swing, Gatlif non si limiterà a queste, ne tirerà in ballo altre ancora, pure più importanti. E il tutto semplicemente limitandosi ad arrivare in un luogo (s)conosciuto per piazzare la sua cinepresa E mettersi a guardare, svuotato di qualsiasi pregiudizio, si direbbe, svuotato di se stesso – proprio come auspicato nel brano che una solitaria voce manouche intonerà più tardi.
Gatlif è piuttosto chiaro in questo senso, fin dall’inizio: guardare, nulla di più – come se fosse poco. Incipit: plan in campo lungo, camera ad altezza d’occhio e nessuna musica di fondo. Un uomo – che fra poco scopriremo essere Miraldo – cammina tranquillo lungo una stradina sterrata (periferica, ai margini), che costeggia una catasta di tronchi dell’adiacente segheria. Porta con sé una chitarra: fa qualche passo, poi si ferma e si accende una sigaretta. Riparte e la cinepresa lo segue lentamente fino a quando, appena prima di perderlo, ne scorge il volto sereno, forse un sorriso accennato. Stacco: un volantino reclamizza un imminente concerto. Piano ravvicinato del manifesto – un altro, con tanto di mano che entra in campo per farlo aderire bene al muro/schermo. Ora che la locandina occupa tutta l’inquadratura, si può partire con la sovrimpressione dei titoli di testa e, extradiegeticamente, con la musica della colonna sonora. Swing ovviamente, proprio come ci dice il cartello con il titolo della pellicola. Nuovo e rapidissimo stacco: la scritta, «Swing» al contrario, come fosse vista allo specchio, o meglio, ripresa dall’altra parte del campo. Eccolo Gatlif che, ancora prima di iniziare a raccontarci una storia – invero ridotta all’osso, visto che non sembra essere questo il suo scopo – o appena dopo averci presentato qualcuno (perché Miraldo è già tutto in quella prima inquadratura anche se non possiamo ancora saperlo), vuole suggerirci qualcos’altro. Niente folklore, nessun ritratto pittoresco per etno-turisti in gita. Il regista nomade ci invita semplicemente a guardare e ad ascoltare in silenzio. Da tutte le prospettive possibili, però, perché questo sembra essere l’unico modo per riuscire a scoprire un universo nuovo fatto di persone, caratteri ed emozioni – proseguiamo con le parole grosse – ancora puri, veri. Ovvio che una scoperta del genere potrà accompagnarsi al rischio di coinvolgerci, magari pesantemente.
Un passo indietro: se avessimo fatto attenzione alla locandina del concerto, appena prima che questa avesse occupato la totalità dello schermo, avremmo potuto scorgere dell’altro. Altre parole grosse per la precisione; da manifesto.
Swing arrogante si diceva, che passa da una nota all’altra spezzando il ritmo. Incedere frammentato, dunque, forse distintivo di una brusca vivacità, di una insopprimibile libertà. Come brusca e vitale è la giustapposizione (quasi sempre attuata tramite stacchi) di piani piuttosto lunghi e sequenze decisamente più montate che Gatlif usa durante tutta la sua pellicola. Il regista impiega questo escamotage discorsivo facendone quasi una peculiare marca espressiva del mondo di cui il suo guardare è esemplare conservazione di memoria. Fin da principio, il ritmo swing che introduce la pellicola viene repentinamente arrestato dall’abbaiare feroce di un cane. Di fronte all’animale troviamo Max, piccolo gadjo – straniero in lingua Rom – che abbiamo visto arrivare a piedi, da chissà dove, fino al quartiere povero, quello delle roulotte dei gitani stanziali, sistemate ai margini della strada borghese maestra. Max ha dodici anni, non sa nulla del mondo, ma vuole incontrare Swing per acquistare un chitarra e conoscere le vie del jazz gitano. È, al contrario di noi, portatore di uno sguardo puro in una terra di (conoscenza) conquista e, nel contempo, terra di conquista egli stesso. La sua “nudità” – inizialmente imprevista anche per Swing, che lo imbroglia e sulle prime nasconde pure la propria giovane femminilità, e per Miraldo, che anzitutto lo usa per superare la propria incapacità di scrivere una lettera – gli permetterà di tuffarsi in un territorio nuovo e sconosciuto, di farne parte e, forse, di rimanere intriso per sempre del suo spirito (della sua anima).
Nel rispetto aprioristico ma avido di conoscenza dell’avvicinarsi a un altro mondo da parte di un gadjo dodicenne c’è tutta la maturità del regista algerino. C’è un cinema che, progressivamente depurato da ciò che distrae la vista (quand’anche si tratti di un intreccio un po’ più complesso del verosimile incedere quotidiano), è sempre più vicino, addirittura dentro, l’universo che osserva. Il cinema di Gatlif è – o vorrebbe essere – uno sguardo puro, (d)epurato anche da quella superficiale benevolenza che costituisce «l’altra faccia del pregiudizio nei confronti di chi ci sia straniero» (R. Escobar). Tanto che, nelle sequenze in cui la camera sorvola i paesaggi trasformandoli in una sorta di quadro puntiforme, torna addirittura alla mente il cine–riprendere zenitale dello Snow di Seated Figures, 1988. Semplice atto di fermarsi (o muoversi) a guardare, quindi, che però, essendo di sé svuotato e avendo come oggetto un’umanità tanto comunicativa, non può esimersi dal rimanere emotivamente coinvolto.
Ed è proprio grazie a ciò che guarda, qui e adesso – e non tanto alla storia che gli si sviluppa davanti – che l’occhiata di Gatlif diventa pregna di passione e il suo sguardo immobile diviene tremante, intriso di un sentire che gli permette di allontanarsi dai primissimi piani di un volto, di una mano o di uno strumento solo per andare a posarsi su altri volti, altre mani, altri strumenti. La cinepresa, fin qui piuttosto statica e tranquilla, a questo punto non può che mettersi danzare. Magari all’interno di una roulotte in cui si prova un concerto, che è anzitutto manifestazione esemplare di un mondo vivo, le cui radici sono diverse e lontanissime seppur dimenticate o, meglio, estirpate. Un’azione corale che, verrebbe da dire, pare scaturire d’istinto e per la quale si sono interrotte tutte le altre attività e si è ignorata pure la possibilità di una visita dei tutori dell’ordine – «l’ultima volta è arrivata la polizia», spiega la moglie di Miraldo in un tentativo di dissuadere l’orchestra dalle prove e, dopo un secondo, lasciato il coltello per affettar patate, la ritroviamo al violino.
In tutto questo Max è ideale strumento del guardare, non a caso abbagliato, forse innamorato, di Swing, giovane manouche a lui così lontana e così vicina: lei che non sa scrivere ed è una gitana mai uscita dal quartiere – in apparenza un ossimoro; lui, un borghese figlio di un ex-punk – ossimoro più sostanziale – che deve fissare la sua memoria su un diario ed è costretto a seguire la madre nei suoi continui viaggi. Eppure la loro natura è così egualmente pura da combaciare armonicamente in un tutt’uno – come in un accordo – con l’infinito e semplice fluire della vita. Uno scorrere che è nel quartiere e pure lo circonda, appena più in là, dove lo sguardo può dimenticarsi di seguire i protagonisti per soffermarsi su un coleottero a spasso nell’erba, su una coppia di rane o su un riccio che attraversa la carreggiata stradale. Se a noi, spettatori del «Nord che si accontenta» (...), non venissero in mente immagini da spot di merendine, potremmo anche pensare a un mondo di “pace” guardando quello di libertà trasmessoci da Gatlif.
Ma alla fine di cosa parla il regista algerino? Nel suo guardare diventato passione, non fa altro, direbbe Welles, che “registrare pensieri”, velando e rivelando identità che raramente sono state così vive e misteriose (dove rivelare, per dirla come Bruno Fornara, sta appunto per “indicare” e “ri-velare”, nascondere di nuovo, per l’impossibilità reale di svelare). Gatlif è testimone di un universo fatto di persone – e non di personaggi – in cui si ribadiscono con orgoglio la propria identità collettiva – quand’anche privata di memoria – e, singolarmente, «unicità di essere unici». Il regista evoca tutta la tragicità della Storia – nella sequenza in cui la nonna di Swing, fino ad allora silenziosa, ricorda in lacrime il genocidio gitano di marca nazista – per esaltare un attimo dopo la carica vitale di un popolo che ha smesso solo fisicamente di muoversi e che trasforma una recinzione in un improbabile strumento musicale – nonostante, dice il dottor Liberman, di fronte al filo spinato venga ancora il mal di stomaco.
Swng parla di un universo in cui le componenti etniche – araba, gitana e yiddish – si intrecciano in una commistione indissolubile; in cui la complessa religiosità e il profondo rapporto con la morte – laddove una statua della Vergine campeggia in ogni roulotte e gli effetti di un defunto si devono necessariamente bruciare – si traducono in un’esaltazione di tolleranza, in un legame tra Uomo e Natura che celebra “l’ubriacarsi d’amore” quale discriminante per «scoprire i segreti dell’aldilà». E forse, anche da questo punto di vista, ribadisce la propria natura essenzialmente “musicale”, alla perenne ricerca di armonia, di pace.
Ma per chi non è manouche, anche se ha pensato di rimanere, può giungere il momento di allontanarsi. Max, alla fine dell’estate, è “tutto bagnato” – era finito in una pozzanghera a inizio film. Glielo rimprovera la madre che, presa da una conversazione al cellulare, non può notare il manico della chitarra di Miraldo galleggiare lungo il vicino ruscello. Il piccolo gadjo deve andare via, fisicamente. Miraldo lo ha preceduto per muoversi, proprio come aveva sempre desiderato fare, verso destinazioni che «nemmeno lui sapeva» grazie a un movimento di macchina che dal suo occhio e dal suo corpo esamine aveva preso il volo facendogli sorvolare tutto il sorvolabile. Max deve invece salire sull’auto della madre. Prima di farlo, lascia il suo diario a Swing, che non sa leggere. Tutta la nostalgia di un universo (l’improvvisa incomunicabilità?) ritorna in pochi secondi; la musica è un ricordo lontano, la mdp si sposta sulla ragazzina, la isola e poi stacca. La ritrova nei pressi di un edificio del quartiere e le si avvicina fino a scorgerne il volto piangente e gli stivali con l’asso di cuori. Swing, questa volta, sembra accorgersene; si alza, entra nell’edificio e, dopo qualche secondo, chiude la porta dietro di sé. Gentilmente invitati – o impossibilitati dall’incapacità anche morale di svelarne il “pensiero” – a non seguire la manouche, ripensiamo a Max che è lontano e fradicio. Chissà se, prima o poi, i suoi abiti si asciugheranno o se, come Miraldo, lui e noi saremo in grado di non aver paura, lasciando i nostri corpi per «andare verso i fiori e le piante»? Occorrerà bruciare d’amore. È ciò che ci invita a fare il canto manouche.
Emilio Cozzi, Cineforum n. 418, 10/2002 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| Tony Gatlif |
| |
|