Così bella, così dolce - Femme douce (Une)
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Regia: | Bresson Robert |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura, adattamento e dialoghi: Robert Bresson, dal racconto di Dostoevskij, La mite; fotografia: Ghislain Cloquet (Eastmancolor); scenografie: Pierre Charbonnier; montaggio: Raymon Lamy (assistito da Geneviève Billon e Christine Gratton); fonici: Jacques Maurnont, Jacques Lebreton e Urbain Loiseau; effetti sonori: Daniel Couteau; musica: Purcell e Jean Wiener; interpreti: Dominique Sanda (Lei), Guy Frangin (Lui), Jane Lobre (la domestica Anna), Jacques Kebadian (il donnaiolo), Claude Ollier (il medico), Dorothée Blank; distribuzione Paramount; produzione: Mag Bodard per Parc Film/Marianne Production; origine: Francia, 1969; durata: 90’ |
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Trama: | Una giovane donna si è suicidata. Accanto al corpo sul quale veglia l’anziana domestica, il marito si interroga sulle responsabilità di ognuno rivivendo il loro passato di coppia. Proprietario di un monte di pietà, ha conosciuto questa ragazza povera che veniva a impegnare degli oggetti. Si è innamorato di lei e ha insistito per sposarla.
In breve tempo, alcuni malintesi, il suo temperamento possessivo e geloso, hanno condizionato i loro rapporti. Il silenzio si è instaurato tra loro, malgrado una vita sessuale riuscita e distrazioni culturali abbastanza numerose. I ricordi del marito sono vivi e tiene conto di ogni cosa. Un giorno, lei ha la tentazione di ucciderlo nel sonno. Cade allora gravemente ammalata. Lui la fa curare e la «perdona». Ma ora lei può solo far la parte della moglie sottomessa e della donna-oggetto. Questo nuovo ruolo viene ricordato con maggiore esitazione, le domande si fanno dolorose e la disapprovazione muta della domestica è ancora più evidente. Arrivata al limite, la donna si getta dalla finestra.
René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini & Castoldi, 1998 |
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Critica (1): | «Dite le vostre battute a fior di labbra, come ve le ho recitate io, se le urlate come fanno tanti nostri attori, preferirei affidare i miei testi al banditore... Nel torrente, nel vortice, nell’uragano delle passioni occorre sempre ottenere persino una certa dolcezza»; sono i consigli di Amleto agli attori nel brano della rappresentazione che si vede nel film. Questa recita «dentro il film» entra nella costruzione come contrappunto interno (per le implicazioni che ha sui personaggi), ma è anche una sorta di sottolineatura formale, l’avversione al teatrale, al di fuori o all’esterno, all’uso recitato della parola. Mettete lucidità più che dolcezza e avrete – in parte – Bresson.
Le parole, appunto: Une femme douce si potrebbe definire un film della parola e della sua negazione; essa è soprattutto momento formale di rapporti. Innanzi tutto, con l’immagine nei confronti della quale essa può avere funzione: a) descrittiva, di reazioni (all’inizio, lei: «non mi aveva colpito in modo speciale») o di situazioni («suo padre e sua madre erano morti, viveva con dei parenti»); b) duplicativa, secondo una tipica tendenza bressoniana, quando la parola descrive l’immagine o la scena che si sta vedendo; c) di contrasto («sai, Anna, cosa significa soffrire, quando si sta con una donna così bella, così dolce», e la macchina da presa è sempre sul corpo inanimato della protagonista); d) gnomica, quando aggiunge considerazioni (che possono anche essere stilisticamente di peso); e) più spesso la parola non è collegata direttamente all’immagine, poiché è detta o su una immagine diversa, o su un fondo neutro, avendo perciò lo scopo di stemperare le «punte» («gettai acqua fredda su quell’ebbrezza», e la macchina da presa è sulla finestra del negozio che si apre). La parola infine si può configurare come fattore ritmico-formale, ponendosi in rapporto o con i vuoti, i silenzi, oppure più chiaramente col dialogo, che continuamente si alterna; in questo caso si ha una continuità tra parola diretta (il dialogo, appunto) e parola indiretta (il «narratage»). Per ultimo, come si è già visto nella parte generale, si viene anche a creare una dialettica con lo spettatore, tra partecipazione e distacco o tra momento soggettivo e oggettivo; anche la parola vi contribuisce.
Attraverso questi procedimenti, dunque, essa diventa sempre più un elemento della temporalizzazione cercata da Bresson; il film è in sostanza tutto un flash-back, quasi una decantazione del perduto, attraverso il quale si articola il ricambio col presente. Lo stesso Dostoevskij, nella breve introduzione alla novella da cui è tratto il film, definisce «racconto fantastico» il suo, e aggiunge «precisamente nella forma»; è l’andamento narrativo cioè a dare questo carattere a un materiale «realistico al più alto grado»; il protagonista cerca di «concentrare i suoi pensieri in un punto», e la forma confusa in cui questo avviene è registrata come «se uno stenografo potesse ascoltarlo di nascosto e notare tutto ciò che egli dice». Lo scrittore cerca quindi il filo psicologico dei pensieri, e di conseguenza un filo narrativo; nel regista prevale invece la dimensione temporale, il flusso complesso, la difficoltà delle intersezioni.
Il passato è reso da Bresson, si direbbe, quasi sensibile rispetto a Dostoevskij: il presente interferisce nei discorsi fatti ad Anna, nel monologo, nel commento fuori campo. Per questo ovviamente è fondamentale l’uso bressoniano del montaggio, e occorre sottolineare come in questo film è usato quasi esclusivamente lo stacco (contro l’uso frequente della dissolvenza fatto in precedenza), come se si volesse avvalorare il contrasto o l’allusione, la totale semplificazione.
Quest’alternanza, e la ricerca che indica, non sono prive di pericoli; perché, ad esempio, vi è una continua depurazione dalle psicologie, ma poi vengono in parte reintrodotte, sì che l’aspetto temporale è tendenzialmente astratto, ma è anche denso di elementi soggettivi, e in questo senso «concretizzati» che lo inquinano. Così la parola è liberata da una letterarietà che per altro verso compare chiaramente. È pur vero però che ciò crea una forma di contrasto, una voluta diversità di tono, tra la discorsività e la secchezza allusiva, tra il quotidiano e il sentenzioso; si arriva così a una duplicità di piani che facilita il salto dalla rappresentazione alla formalizzazione: «Questa è la vera ragione di questo gusto di Bresson per le frasi molto letterarie (nel caso, si tratta di una presa a prestito da Dostoevskij); lo scritto dà una idea di questo intemporale che la macchina da presa è impotente a tradurre, e che non è d’altro canto nei propri compiti tradurre direttamente»; C. Zimmer (in Temps modernes, ottobre 1969) mi pare sottolinei giustamente questo aspetto, anche se per lui poi si tratta di una prova della difficoltà del film, del modo dell’autore di agirvi dall’esterno.
Ma non è tanto su questo che è opportuno soffermarsi; se un dubbio c’è caso mai riguarda l’economicità nell’uso della parola, per alcuni caricamenti che si possono avvertire; a correggere però (forse) la prima impressione sta inoltre la considerazione del fatto che il gioco dei contrasti esige anche i pieni, che possono essere talora una sovrabbondanza di parola.
L’osservazione veniva fuori perché a proposito del complesso del film è proprio il caso di parlare di economicità. Si può cominciare con l’analizzare lo spazio, non naturale ma costruito; la chiusura è data prima dalla casa e dal negozio, dopo dalla stanza da letto nella quale si svolge il monologo di lui; nell’un caso e nell’altro i luoghi non sono mai fatti vedere per intero, analogamente ad altri film. Gli interni sono per la gran parte dei «percorsi» dei personaggi, scale (luogo tipico; infatti alcune inquadrature ricordano assai da vicino Pickpocket), porte, pareti, oggetti: l’iterazione crea ossessione, la ripetizione è chiusura, il movimento si rivela blocco inerziale.
Il contrappunto dato dagli esterni è quasi geometricamente scandito, creando anche alternanze di colore che trovano implicazione interne ai personaggi, tutte mediate. Si possono cogliere allora l’indifferenza della città, l’ostilità (i rumori, subito sotto i titoli di testa, ancora i colori), la possibilità negata di apertura dei rapporti (Jardin des plantes), gli slanci di lei (all’uscita dal cinema) i silenzi pesanti (il Bois). Altre volte osserviamo comportamenti (il supposto tradimento, la gita in campagna, i fiori gettati a terra), raramente i momenti riflessivi (lui, sul ponte della ferrovia: «non era pietà che provavo per lei, era un sentimento ben diverso, era come un entusiasmo indicibile»). Le articolazioni dello spazio sono una riprova anche del processo di dilatazione e di rarefazione, e pur di corposità, che la struttura dell’opera viene a raggiungere. È un processo che parte più indietro, e riguarda prima di tutto la dilatazione dello schema portante, cioè la «storia» della novella di Dostoevskij. Bresson riprende l’andamento del monologo, con tutte le sue «impossibilità» cinematografiche, e si serve del meccanismo interno che sta sotto al racconto (l’amore, la contraddittorietà, la gelosia, il rimpianto) per analizzarne le diramazioni. Eppure sono emarginate le implicazioni di carattere psicologistico, che potevano derivare direttamente dallo scrittore, oppure dal tentativo di attualizzare il racconto: penso alla situazione (la «coppia in crisi»), alle determinazioni ambientali, all’analisi del milieu sociale. L’interesse è invece in direzione diversa, tanto è vero che il regista tende a operare delle riduzioni; si limita a dare per esempio poche note di un fatto, come nei particolari iniziali (lo scialle è un ricordo di Mouchette?), o nel matrimonio; oppure abbassa le punte drammatiche. Il tono generale è quasi di una «tragedia trattenuta». Anche per questo Bresson mira a distendere: sotto questo aspetto si pensi all’atonia delle voci (che si perde, al solito, nel doppiato italiano, nel quale compaiono anche – nei dialoghi – alcune “prouderies” censorie), al rapporto di distanziazione ottenuto attraverso l’apparente neutralità della recitazione o la fredda osservazione di comportamenti e gesti, opachi e significanti .
Questo andamento non porta però quasi mai allo schematismo, perché come sempre il processo è dialettico, l’antinaturalismo e l’antinarratività sono la tendenza, ma permangono a un tempo la presenza delle cose e la scansione dei fatti. Ripercorrere quell’itinerario significa qualificare omogeneamente i vuoti di narrazione come i pieni; l’astrazione quasi emerge dalla messa in situazione dei personaggi e da certi comportamenti quotidiani, dalla loro dimensione concreta e qualificante. Una verità sensibile, si è detto opportunamente.
Questa dialettica riguarda soprattutto i personaggi, che non tendono al simbolo né sono semplici «indicazioni», ma acquistano una loro particolare pluridimensionalità. Attrae Bresson il contrasto a due, con dietro Anna, una presenza del silenzio, ombra di peso e spettatrice; va notato tra l’altro che il personaggio di Luker’ ja, la cameriera, c’è nella novella, ma non come interlocutrice saltuaria delle parole di lui. [...] Il regista lavora forse di più a rinsaldare il personaggio femminile, soprattutto a far emergere il suo grado di consapevolezza; in compenso il «carattere violento e aggressivo» di cui a un certo momento si parla nel libro appare assai mediato, senza toni alti, sì che la «ribellione» è tutta trattenuta.
Queste – e altre – sono modifiche che fanno ancora una volta intendere come il luogo bressoniano non sia quello della psicologia: i personaggi hanno una complessa poliedricità, ma sono nel contempo anche segni di una dimensione che sta prima di loro. Per questo Une femme douce è prima che un film su personaggi, un monologo sul tempo, un film del dopo tutto al presente, un’opera sul tempo per negarne l’apertura.
Giorgio Tinazzi, Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, 1976 |
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