Sorpasso (Il)
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Regia: | Risi Dino |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Dino Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari, da una storia di Rodolfo Sonego; fotografia: Alfio Contini; musiche: Riz Ortolani; montaggio: Maurizio Lucidi; scenografia: Ugo Pericoli; arredamento: Enrico Fiorentini; costumi:Ugo Pericoli; interpreti: Vittorio Gassman (Bruno Cortona), Jean-Louis Trintignant (Roberto Mariani), Catherine Spaak (Lilly, figlia di Bruno), Claudio Gora (Bibi, fidanzato di Lilly), Luciana Angiolillo (moglie di Bruno), Luigi Zerbinati (commendatore); produzione: Mario Cecchi Gori per Fair Film-Incei Film-Sancro Film; distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1962; : 106’. |
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Trama: | Bruno, un presuntuoso giovanotto motorizzato, incontra casualmente un giovane universitario, timido e inibito, e lo trascina con sé durante un lungo ferragosto. L'aggressività, il volgare e dirompente saper vivere di Bruno respingono ed insieme affascinano lo studente. Bruno vive di espedienti, è separato dalla moglie, sua figlia è una ragazza che si appresta a sposare un anziano industriale. Vicende e incontri vanno e vengono, legati dal lungo filo della mania automobilistica di Bruno. E dietro l'ultima curva c'è nascosta la morte. |
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Critica (1): | La cauta demistificazione della storia patria, la riscossa postresistenziale simboleggiata dal gesto di coraggio di Magnozzi-Sordi, trovano logico sbocco e completamento nella fenomenologia, e insieme nella metafora, de Il sorpasso. Potremmo iniziare dicendo che il film di Risi è non soltanto il risultato più importante di tutta la "commedia di costume", ma in assoluto uno dei maggiori film italiani di tutti i tempi, uno di quegli ipotetici "flm da salvare", da portare sull'isola deserta del "cinéphile". Ma non è una glorificazione (di cui peraltro il film non ha bisogno) il fine di questo lavoro. Saremmo tentati piuttosto, in via preliminare, da alcune annotazioni sulla struttura dell'opera, che crediamo significative anche per determinarne la rilevanza sociologica.
Il sorpasso è infatti, innanzitutto, il resoconto di un viaggio.
È questa una costante che attraversa, con significati diversi, letteratura e cinema, dai "reisebilder" ai tropici di Stevenson, dalle fughe dei sognanti personaggi di Anderson alla "strada" di Kerouac, da Il fiume rosso ai road movies, giù giù fino alle sintesi di Wenders, nelle quali si incontrano e si sovrappongono Goethe e Hawks, Easy Rider e il film noir, l'andersoniana voglia di raccontarsi e la fordiana esaltazione dell'amicizia virile, in una continua reinvenzione in cui cinema e letteratura fungono da strumenti di lettura di sè stessi. L'uso di uno dei tòpoi più frequenti, sia da un punto di vista cinematografico che letterario, è da ricollegare ad una duplice funzione. La prima riguarda la volontà dei regista (e dei suoi collaboratori) di dare uno spaccato il più possibile completo dell'Italia del "boom", colta nella celebrazione di uno dei suoi riti più tipici, la pigra estate balneare. La seconda trova la sua ragione nella psicologia dei due protagonisti e nell'evoluzione del loro rapporto. Cominciamo da qui. Per definire il carattere di quello che è il vero "mattatore" del film, il Bruno Cortona di Vittorio Gassman, ci serviremo, almeno fino ad un certo punto, di un ottimo saggio di Giovanni Cesareo. Con Bruno, afferma Cesareo, pubblico e autori stabiliscono un rapporto che è critico, ma anche di complicità. Questo deriva dall'inusitata complessità che il personaggio ha acquistato rispetto ai suoi più immediati predecessori degli anni '50. Infatti, se la derivazione sordiana è indubitabile ('"la romanità, l'infantilismo, la buffoneria, il velleitarismo, una fondamentale insicurezza, l'inclinazione ad arrangiarsi, il candido cinismo che lo porta a violare alcuni tabù piccoloborghesi"), ben altro spessore e significato vengono ad assumere il suo disincantato e "profondo" modo di vedere le cose, la sua ambigua posizione di marginale, il suo essere, in ultima analisi, dentro, fuori e contro la logica della società del "boom". Incapace, per una sorta di spensieratezza adolescenziale che s si protrae pervicacemente oltre la soglia dei quaranta, di rispettare le "regole del gioco" pur conoscendole benissimo, Bruno è uno sconfitto sia sul piano sociale che su quello degli affetti familiari (è separato dalla moglie, e la figlia, pur amandolo ed incitandolo a non cambiare - "almeno tu!' - cerca un sicuro ancoraggio nel maturo e ricco Bibì, interpretato, ovviamente, da un ormai emblematico Claudio Gora). Ma il suo vitalismo, la sua capacità di farsi sfiorare dalle cose senza rimanerne segnato, gli fanno prendere delle rivincite, effimere ma "vendicative", per sè e per il pubblico che irresistibilmente vi si identifica, sul piano sociale (l'eccellenza che aspetta davanti alla toilette del distributore), sessuale (le "lodi" - l'ormai celeberrimo "hoholalà!" - e la disponibilità della donna del commendatore), simbolico-sportivo (la partita a pingo-pong). Tuttavia anche la sua aggressività non è univocamente orientata, trasformandosi in gratuita cialtroneria laddove si rivolge, non senza viltà, contro chi gli è pari o inferiore nella scala sociale.
Ma la sua lucidità, pur senza arrivare mai alla coscienza, gli fa vedere le cose, lo porta a lacerare quasi pedagogicamente, per il suo giovane compagno di viaggio e per lo spettatore, il velo di tutti quei falsi miti, di cui pure condivide il fascino, che si accavallano nel caotico baraccone dell'Italia miracolata. Questa funzione strumentale trova logica (…) nella presenza del personaggio di Mario: un nevrotico, grigissimo piccoloborghese, emarginato per difetto di quel vitalismo e di quella incosciente sfrontatezza che è l'unico patrimonio di Bruno. Corollario necessario al "viaggio", anche quello dell'apprendistato virile costituisce uno dei punti fermi di tanto cinema americano, western e non. Ma qui il rapporto pedagogico non si basa sulla trasmissione di una professionalità, bensì su una generica quanto disincantata "introduzione" ad una vita che peraltro sembra sfuggire al protagonista quanto più egli si applica ad approfondirne i meccanismi di funzionamento e a renderli palesi, nella loro crudezza, al giovane amico. La complementarità dei due viaggiatori, quindi è tale soltanto in negativo, e il modello americano viene smentito, assieme all'ideologia di cui si fa veicolo. Il progressivo passaggio di Mario dall'imbarazzo alla simpatia, fino alla totale adesione nei confronti dell'occasionale amico-padre costruisce un itinerario necessario alla distruzione di una serie di falsi miti - l'infanzia felice (Occhio Fino!), l'amore "pulito", la professione e la carriera - con un radicalismo che pochissime volte è dato riscontrare nel cinema italiano. Poco importa poi che il personaggio di Bruno non sia realmente "alternativo", - per fortuna, oseremmo dire - che la sua non sia una opposizione cosciente, ma una marginalità insieme sofferta e goduta (…).
E anzi proprio l'effimera natura di "outcast" su cui il sistema proietta irresistibilmente il proprio fascinoso richiamo che preclude, in definitiva, al personaggio una funzione consolatoria, che contraddice, in un pessimismo totale, quelle forzate speranze di palingenesi morale e sociale che il gesto simbolico di Magnozzi-Sordi aveva interpretato. Gli alibi storici non funzionano più, l'Italia del "boom" e del centrosinistra è lì, passa rapidamente sotto gli occhi disincantati e miseramente partecipi di Bruno, e, al sole della Versilia, mostra le scottature di un'evoluzione caotica sulla quale sedimentano persistenze arcaiche, in una commistione che deve essere ancora sistemata-razionalizzata, ma che comunque presenta già chiaramente il suo volto sinistro. Certo, il protrarsi indefinito dell'adolescenza di Bruno dovrebbe essere il segno di una mobilità sociale in atto, di una situazione non bloccata, capace di offrire a chi è dotato di iniziativa illimitate possibilità. Ma è altrettanto evidente l'illusorietà di questa promessa. Il lancinante e ingordo "vivere alla giornata" di Bruno si rivela così strettamente connesso all’ “air du temps” e insieme legato ad un passato di frustrazioni che in esso vorrebbero riscattarsi. L'Aurelia Sport ("supercompressa"), effimero strumento di affermazione di una virilità, sessuale e sociale, era la macchina di lusso per eccellenza nei film degli anni '50, da La provinciale a Guendalina: qui appare come "status symbol" invecchiato e per di più materialmente decrepito (l'ammaccatura), letteralmente "di "seconda mano", feticcio obsoleto per un consumo secondario.
Il suo viaggio, con un carico di emarginazione e fantasia, di conformismo e rabbia, è orientato, vettorialmente e simbolicamente determinabile (da una Roma sonnolenta e pastasciuttara, la Roma dei "poveri ma belli" e del sottosviluppo, al Nord industrializzato e "progressivo"), ma, dietro le apparenze del divertimento sboccato, è ben presto avvertibile la sua natura di trasporto funebre: la "scuola di vita" diventa "scuola di morte". Nella rabbiosa aggressione fenomenologica ad un presente in cui confusamente vede smentite le illusioni della "svolta", Risi accompagna ad un tragico epilogo non solo i suoi personaggi e le situazioni di diversa marginalità che essi rappresentano, ma anche le speranze che una categoria di intellettuali, in un periodo storico breve e convulso, aveva nutrito. (...)
Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Cineforum n. 181, 1-2/1979 |
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