Hunger
| | | | | | |
Regia: | McQueen Steve |
|
Cast e credits: |
Sceneggiatura: Steve McQueen, Enda Walsh; fotografia: Sean Bobbitt; musiche: David Holmes, Leo Abrahams; montaggio: Joe Walker; scenografia: Tom McCullagh; costumi: Anushia Nieradzik; effetti: Bob Smoke; suono: Paul Davies; interpreti: Michael Fassbender (Bobby Sands), Liam Cunningham (Padre Dominic Moran), Lalor Roddy (William), Stuart Graham (Raymond Lohan), Brian Milligan (Davey Gillen), Liam McMahon (Gerry Campbell), Laine Megaw (Sig.ra Lohan), Helena Bereen (madre di Ray), Karen Hassan (ragazza di Gerry), Frank McCusker (direttore del carcere), Helen Madden (Sig.ra Sands), Des McAleer (Sig. Sands); produzione: Blast! Films-Channel Four Films-Film4; distribuzione: Bim; origine: Gran Bretagna, 2008; durata: 96’. |
|
Trama: | 1981, Irlanda del Nord. Raymond Lohan è un agente penitenziario nel carcere di Long Kesh, soprannominato The Maze (il labirinto). Lavorare tra le mura di uno dei famigerati H-Blocks, il braccio dove i detenuti repubblicani stanno effettuando la "protesta delle coperte" (Blanket Protest) e la "protesta dello sporco" (No-Wash o Dirty Protest), è come stare all'inferno, sia per i prigionieri, sia per le guardie. Il giovane detenuto Davey Gillen viene introdotto in questo ambiente per la prima volta, è terrorizzato, ma rifiuta categoricamente di indossare l'uniforme carceraria perché non si sente un criminale comune. Si unisce così alla protesta delle coperte e divide una cella sudicia con un altro detenuto repubblicano dissidente, Gerry Campbell, il quale gli insegna a fare entrare di nascosto tutta una serie di oggetti e a scambiare comunicazioni con il mondo esterno, per passarle poi a Bobby Sands, leader del loro raggio, durante la messa domenicale. La direzione del carcere cerca di convincere i detenuti ad accettare l'offerta di abiti civili, una potenziale svolta nella loro lotta per riacquistare lo status speciale di prigionieri politici, ma scoppia una sommossa e i prigionieri distruggono le celle pulite in cui sono stati trasferiti. La rivolta viene sedata nella violenza, con percosse e perquisizioni corporali. In più oltre le mura del carcere nessun agente penitenziario è al sicuro e Raymond viene ucciso. Bobby Sands incontra Padre Dominic Moran e gli rivela che intende guidare un nuovo sciopero della fame in segno di protesta per l'abolizione dello stato giuridico speciale riservato ai detenuti repubblicani. Il prete cerca di fargli cambiare idea, ma Bobby non sente ragioni e dà comunque il via allo sciopero. Qualche tempo dopo, viene trasferito nel reparto ospedaliero del carcere a causa delle sue pessime condizioni di salute... |
|
Critica (1): | McQueen compone le sue immagini con visualità forte, perfetta, mai estetizzante. La violenza del carcere e della polizia è messa in scena in modo astratto, per la sua sostanza che vale in quella situazione e in qualsiasi altro esercizio di sopraffazione. (...) McQueen usa la sua esperienza di artista in modo sottile e discreto, ce lo rivela nel modo di disegnare gli spazi o nell'impasto delle gamme cromatiche. Non siamo davanti al santino anche quando nel finale Sands somiglia a Cristo o ai morti di aids nelle prime fotografie dello stesso periodo. La sintesi però è la stessa violenza, la violenza del potere e della repressione esercitate in democrazia. (...) La scommessa di McQueen è questa, parlare della Storia al presente, senza giudizi scritti a posteriori.
Cristina Piccino, Il Manifesto, 16/5/2008 |
|
Critica (2): | Abbiamo passato anni a chiederci cosa mai avesse fatto Margareth Thatcher per essere definita, con ammirazione, lady di ferro, dopo aver messo in ginocchio gli inglesi. Poi andiamo in sala e ci ricordiamo che è grazie a lei e all'odio sociale che ha suscitato se, da Loach a Frears, la cinematografia inglese ha regalato piccole e grandi perle negli ultimi decenni. Lo conferma Hunger, il primo film di Steve McQueen (solo omonimo del divo) che inaugura il Certain regard e già si candida per la Camera d'Or. Regia matura e mai enfatica per raccontare l'eroe più amato e citato dell'irridentismo nordirlandese, Bobby Sands da Belfast. L'odissea di repressione che subì il terrorismo politico di Ira e dintorni (vedi l'Uda) viene qui raccontata nel suo simbolo. Positivo per i ribelli, che vedono in lui un giovane eroe il cui viso solare e fiducioso compare in graffiti e t-shirt, negativo per gli oppressori, perché la sua morte fu la sconfitta più ignobile subita. Bobby, infatti, nel 1981 si lasciò morire, con la forza sovraumana che solo gli ideali possono darti, di fame, uno sciopero clamoroso che durò 66 giorni e venne dopo 4 anni di sciopero dell'igiene di tutti i detenuti nordirlandesi e «contestatori». Volevano essere riconosciuti come soggetto politico e veder rispettate le loro richieste, incentrate principalmente sui diritti umani. Fu l'apice dello scontro che già aveva prodotto quasi 2.800 morti, fu l'inizio di un lento ma inesorabile declino dell'impero e dell'imperialismo britannico. Bobby, agonizzante, fu eletto in parlamento, altri 9 seguirono il suo esempio, morendo in meno di un anno. La disumana Margaret Thatcher – geniale l'idea di dividere il film in tre parti, con la sua voce fastidiosa e arrogante a far da spartiacque – dovette cominciare a trattare. McQueen all'esordio ha affrontato una montagna, e l'ha scalata con pazienza e senza scorciatoie. Con un'ottica triplice (il carceriere, due prigionieri, l'eroe suicida) ci pone di fronte all'orrore di una guerra civile in cui lo Stato è nemico feroce e sleale. Siamo a Maze, la prigione dedicata all'Ira, e chi ha la divisa non ha alcuna pietà di ragazzi che hanno il solo torto di aver creduto (troppo?) a un mondo migliore. Perquisizioni rettali, pestaggi, umiliazioni non li fiaccano, si ribellano, conservando anche una perfida ironia. Se ogni tanto si cade nell'affettuosa agiografia, è anche vero che il film non (ci) risparmia nulla. Nella seconda parte rallenta come il metabolismo di Sands e ci impone la sua dolorosa e macabra agonia così come un dialogo di una ventina di minuti a camera fissa in cui Bobby (Michael Fassbender, bravo e coraggioso nel mettere alla prova il suo fisico in modo così estremo) spiega al suo prete di strada (e a noi) i motivi del gesto politico che sta per compiere.
McQueen si discosta dallo stile di Nel nome del padre, Michael Collins, Il silenzio dell'allodola. Non cede alla tentazione di regalarci un santino, sapendo mostrare la meschinità umana, da qualsiasi parte arrivi.
Boris Sollazzo, Liberazione, 16/5/2008 |
|
Critica (3): | Il più bel film politico dell'anno, e forse del decennio, è anche il più grande film religioso dell'anno, e forse del decennio. Si tratta di Hunger, cioè Fame, esordio-capolavoro di Steve McQueen (da domani in sala), il regista inglese di Shame. Che aveva già vinto la caméra d'or a Cannes nel 2008 con questo film dedicato al lungo sciopero della fame condotto da Bobby Sands e da un gruppo di altri detenuti irlandesi dell'ira, nel 1981.
Diciamo religioso perché McQueen è un artista prima che un cineasta, e usa i mezzi del cinema senza lasciarsi influenzare dalle sue forme consolidate. Dunque scavalca le convenzioni, sceneggiatura in testa, per mobilitare i nostri sensi e la nostra mente con una potenza, una capacità di penetrazione, paradossalmente una chiarezza ignote ai film di fattura classica. Tanto più che mette in scena un martirio, letteralmente. E lo fa con la forza e la consapevolezza dell'arte religiosa, che interroga la materia (materia inerte e materia vivente, in primis il corpo umano) per rendere intellegibile un'esperienza che è insieme fisica e interiore.
Bobby Sands, dicono le cronache, morì dopo 66 giorni di sciopero della fame nel maggio 1981, seguito da altri 9 prigionieri. Aveva 27 anni. Ma queste sono cifre, astrazioni. Cronaca. A cui Hunger restituisce una presenza, un'urgenza, una concretezza che lasciano senza fiato.
Come una pala d'altare, Hunger è diviso infatti in tre grandi movimenti. Nel primo, quasi muto, scopriamo il carcere di Maze e i suoi abitanti, non solo detenuti ma guardie, secondini, agenti dei corpi speciali che reprimono con estrema durezza lo«sciopero dello sporco» messo in atto dai repubblicani. Decisi a esserconsiderati prigionieri politici, i detenuti imbrattano muri e pavimenti, svuotano tutti alla stessa ora il pitale (immagine
silenziosa e geniale dei rigagnoli che escono in sincrono dalle celle), insomma trasformano la detenzione in un monumento alla resistenza. Testimonianza abietta e imparabile di ciò acui porta la disperazione e la lucidità di chi non ha altre armi per protestare.
È la parte diciamo informativa. Scopriamo le celle, il modo in cui i prigionieri scambiano oggetti e informazioni proibite, vediamo come vengono trattati (con stile impeccabile: a dire la violenza bastano quattro nocche insanguinate, o un gruppo di poliziotti che taglia a forza i capelli di un prigioniero in inquadrature drammatiche come un Caravaggio).
Gli altri due movimenti sono dominati da Bobby Sands, il leader della rivolta (un Michael Fassbender assolutamente prodigioso). Che comunica a un sacerdote (Liam Cunningham, altro attore meraviglioso) la sua decisione terribile, e le ragioni profonde che la sostengono, in un lungo dialogo ripreso in piano sequenza che vale da solo il film. La tensione dei corpi, l'esattezza inesorabile delle parole, la drammaticità dello scontro fra questi due uomini di fede, ognuno a suo modo, rende la scena indimenticabile (dietro la bellezza di Hunger c'è anche il lavoro di un grande drammaturgo, Enda Walsh). ll resto, lo sciopero, l'agonia, insomma il martirio, discende da questa scena quasi per necessità. McQueen non si limita a rievocare la fine di Bobby Sands ma in un certo senso la realizza. Le dà un senso, una pienezza, una verità che le cronache non potevano dargli. Per questo vedere Hunger è un'esperienza religiosa. Come per secoli lo sono stati i dipinti nelle chiese.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 26/4/2012 |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|