No Man's Land - No Man's Land
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Regia: | Tanovic Danis |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Danis Tanovic; fotografia: Walther Vanden Ende; musica: Danis Tanovic; montaggio: Francesca Calvelli; interpreti: Katrin Cartlidge (Jane), Rene Bitorajac (Nino), Branko Djuric (Cik), Georges Siatidis (sergente Marchand, Filip Sovagovic (Tzera); produzione: Marc Baschet, Frédérique Dumas, Marion Hänsel, Dunja Klemenc, Cédomir Kolar; distribuzione: O1; origine: Belgio/Bosnia-Erzegovina/ Francia/Slovenia/Italia/Gran Bretagna, 2001; durata: 98'. |
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Trama: | Due soldati, il bosniaco Čiki (Branko Đurić) e il serbo Nino (Rene Bitorajac), si ritrovano in una trincea tra le due linee nemiche, nella terra di nessuno. |
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Critica (1): | L’altra faccia di Apocalypse Now: un war-film non americano ma europeo, che racconta una guerra che si svolge non dall’altra parte del mondo e in territori sconosciuti ma dietro casa, quasi in un cortile, nella quale la tragedia universale si mescola alla farsa paesana e il cuore della tenebra non è da andare a cercare sprofondando nell’abisso del viaggio senza fine ma ognuno se lo porta dentro, come uno strumento della dotazione standard.È la guerra in Jugoslavia naturalmente, serbatoio ricco di ogni contraddizione per molto cinema bellico a venire, e No man’s land, già titolo di un leggero film di Alain Tanner degli anni ottanta, è ora una produzione internazionale con regista bosniaco (Danis Tanovic), capitali francesi, belgi e italiani (la Fabrica benettoniana), partecipazioni britanniche e elvetiche, girato sul Carso sloveno. L’inizio è quello di un classico film di guerra: una pattuglia bosniaca sperduta nella notte e nella nebbia, che al mattino si sveglia proprio sotto una postazione serba – il territorio è limitato e non ci vuol niente a trovarsi dall’altra parte – e si fa sterminare. Se ne salva uno solo, ma quando quelli mandano qualcuno a vedere cosa è successo l’imboscata si capovolge e alla fine in una trincea abbandonata, a metà fra le due linee nemiche, si ritrovano un serbo e un bosniaco, entrambi feriti, entrambi per qualche motivo costretti a lasciar sopravvivere l’avversario. La situazione si fa poi più delicata quando un altro soldato, che sembrava morto e che era stato adagiato su una mina per una perfida trappola, si riprende ma non può più muoversi senza farla esplodere. Un concentrato di tutta la assurda guerra: parlano la stessa lingua, avevano persino un’amica comune, ma si detestano. Chi l’ha cominciata, questa guerra senza ragione? La risposta è semplice: il colpevole è chi, in quel momento, non ha il fucile in mano. Perché accade che di volta in volta sia l’uno o l’altro a dominare la situazione, ma senza mai riuscire a risolverla. Anche dalle opposte trincee i due eserciti non sanno che fare e alla fine i rispettivi comandanti decidono entrambi di chiamare l’Unprofor, la forza di interdizione dell’Onu dislocata nelle vicinanze. Arriva un’autoblindo bianca con dei francesi, seguita a ruota (basta ascoltare le frequenze radio per conoscere i movimenti delle truppe) da una troupe televisiva inglese con una giornalista d’assalto pronta ad ogni scoop. Bisogna salvare il ferito. Missione umanitaria sotto gli occhi delle telecamere. Alla fine arriverà anche un artificiere tedesco: è la vera guerra europea. Il teatrino dell’assurdo scivola sempre di più verso il grottesco: quel soldato immobile sulla bomba è come uno di quei cadaveri sempre in scena in certi film di Hitchcock, solo che qui il cadavere è vivo. E lo resterà, chissà per quanto, vittima di una cinica finzione che servirà a qualcuno a salvare almeno la faccia. Il soggetto, per quanto attuale e vivissimo, non è cinematograficamente molto nuovo: vari film hanno già raccontato la guerra con i toni della tragicommedia o della farsa, e anche la satira sull’invadenza e il cinismo dei media non è certo inedita, anche se produce sempre delle situazioni divertenti. Più sincero e severo è il film quando accusa, anche pesantemente, il comportamento dell’Onu nel conflitto, guidato da un’idea di neutralità giudicata inaccettabile, e che si risolveva in ogni caso nel cercare soprattutto l’incolumità per le proprie truppe e una buona immagine mediatica internazionale. Bosniaco, ma comunque e prima di tutto (jugo)slavo, il film rivendica l’asprezza, i risentimenti, la forza sanguigna, la “cattiveria” e la sporcizia dei combattenti nei confronti del pacifismo umanitario internazionalista, simboleggiato dalle sue inutili e asettiche autoblindo bianche: meglio uccidersi da nemici che lasciar morire gli altri da amici. La contraddizione continua, da quella guerra non potranno forse mai uscire film “puliti”.
Alberto Farassino, Kwcinema |
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Critica (2): | Prima metafora dei conflitti balcanici: se il regista debuttante Danis Tanovic, nato in Bosnia Erzegovina, ha doppia nazionalità bosniaca serba, i personaggi serbi croati e bosniaci si capiscono benissimo tra loro, parlano la stessa lingua che gli uni chiamano serbo, gli altri croato o bosniaco. Seconda metafora, nel film ambientato nel 1993 della guerra in Bosnia: un soldato ferito è stato crocifisso a una bomba, se appena si muovesse l’ordigno bloccato soltanto dal suo peso esploderebbe facendo saltare in aria lui e tutto il resto nel raggio di cinquanta chilometri. No Man’s Land prende alle lettera l’espressione “assurdità della guerra” raccontando di tre soldati, due bosniaci e uno serbo, che vengono a trovarsi in una trincea abbandonata, una terra di nessuno tra gli opposti schieramenti militari. Uno di loro, ferito, è prigioniero della bomba. Gli altri due, serbo e bosniaco, feriti entrambi continuano a insultarsi, a litigare su questioni politiche e belliche e a cercare d’uccidersi a vicenda. Sopravviene una pattuglia di truppe dell’ONU (detti Puffi per via dei caschi blu) ma non sanno come intervenire, nella proibizione di sparare. Arrivano a gruppi i giornalisti, televisivi e no, che al solito trasformano la situazione in un’epopea retorica e risibile. Intervengono gli alti ufficiali. L’artificiere dice di non poter fare nulla per disinnescare la bomba: il crocefisso rimane lì inchiodato, aspettando di morire. La conclusione della commedia-verità, recitata da attori d’una bravura naturale davvero notevole, mette in luce tutto l’orrore, tutta la vacuità di una guerra che ciascuno dei contendenti rimprovera all’altro, in un paesaggio campestre illuminato da un sole radioso indifferente alla stupidità umana. La indomabile lotta tra ex jugoslavi, la funzione futile e dannosa dei media, la presenza negativa delle truppe di pace dell’ONU, il finale di morte: molto efficace, il film di coproduzione europea (Belgio, Inghilterra, Slovenia e soprattutto l’italiana Fabbrica) lascia capire meglio le cose, ogni tanto fa ridere; spezza il cuore. Ma quanto sembra remota e obsoleta, adesso, una grottesca crudele guerra tradizionale come questa.
Lietta Tornabuoni, La Stampa, 27/9/2001 |
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| Danis Tanovic |
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