Anno in cui i miei genitori andarono in vacanza (L') - O ano em que meus pais saíram de férias
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Regia: | Hamburger Cao |
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Cast e credits: |
Soggetto: Cláudio Galperin, Cao Hamburger; sceneggiatura: Cláudio Galperin, Bráulio Mantovani, Anna Muylaert, Cao Hamburger; fotografia: Adriano Goldman; musiche: Beto Villares; montaggio: Daniel Rezende; scenografia: Cássio Amarante; costumi: Cristina Camargo; interpreti: Michel Joelsas (Mauro), Germano Haiut (Shlomo), Paulo Autran (Nonno Mótel), Daniela Piepszyk (Hanna), Simone Spoladore (Bia), Caio Blat (Ítalo), Liliana Castro (Irene), Eduardo Moreira (Daniel), Gabriel Eric Bursztein (Bóris), Felipe Hanna Braun (Caco), Haim Fridman (Duda), Hugueta Sendacz (Eidel Schwestern), Silvio Boraks (Rabbino Samuel), David Kullock (Hazã), Einat Falbel (madre di Hanna), Abrahão Farc (Anatol), Fábio Ferreira Dias (Robson), Rodrigo dos Santos (Edgar), Sérgio Siviero (Carlão), Edu Guimaraes (Alfredo), Fredy Delatolas (Ianis); produzione: Gullane Filmes, Caos Produções, Miravista, Globo Filmes, Lereby, Teleimage, Locall; distribuzione: Lucky Red; origine: Brasile, 2006; durata: 104’. |
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Trama: | Brasile, 1970. Il mondo è in subbuglio per la guerra in Vietnam e la crescente ondata dittatoriale nei paesi del Sud America, ma per il dodicenne Mauro l’unica preoccupazione è la nazionale di calcio brasiliana che sta per affrontare la finale dei mondiali di calcio in Messico contro l’Italia che le varrebbe la terza stella sulla maglia. Tuttavia, gli avvenimenti del suo paese influenzeranno prepotentemente la vita del ragazzo, costretto a lasciare la tranquilla cittadina di Minas Gerais per trasferirsi nel quartiere Bom Retiro di San Paolo, a casa di suo nonno, dopo che i suoi genitori, militanti di sinistra, abbandonano il Brasile per motivi politici. Quando anche il nonno lo lascia solo, Mauro, che non sa come rintracciare la sua famiglia, viene affidato alle cure di Shlomo, il responsabile della sinagoga, ed entra così in contatto con il variopinto e multiculturale universo del quartiere composto da ebrei, italiani, greci e arabi insieme ai quali condividerà anche la sua passione calcistica e sperimenterà le gioie e i dolori dell’ingresso nell’età adulta... |
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Critica (1): | Prendi i singoli ingredienti della ricetta, mescolali centellinando con cura le dosi e il patto che vien fuori è uno di quelli che può piacere molto alle cucine berlinesi. Sì, perché nel film The year my parents went on vacation (L’anno in cui i miei genitori sono andati in vacanza) del regista brasiliano Cao Hamburger, c’è la spruzzata "popular" dei mondiali di calcio del 1970, il fondale a ragnatela della dittatura militare e l’avventura di un ragazzino di dodici anni, figlio di dissidenti, che si ritrova da un giorno all’altro sbalestrato in uno dei quartieri più multietnici di Sao Paolo. Il Bom Retiro, là dove convivono gomito a gomito i discendenti delle varie immigrazioni greche, italiane e arabe, ma soprattutto storico centro di raccolta di quella comunità ebraica del posto in cui appartiene il nonno del ragazzo. È, infatti, al vecchio barbiere del quartiere che Mauro viene affidato dai genitori costretti a nascondere con la «bugia» di una vacanza la loro fuga-lampo dovuta a motivi politici. Il destino, però, gira su ruote differenti e l’ictus improvviso che colpisce il nonno toglie al bambino ogni bussola di riferimento, ancor prima di metter piede nel quartiere. Tanto più che il giovane Mauro, cresciuto dalla madre cattolica, non può capire rituali e convenzioni di quell’ambiente religioso che sembra votarsi alla sua adozione. Parte così, attraverso una narrazione rarefatta che interagisce con lo sfondo politico attraverso minime situazioni quotidiane, la lenta iniziazione del ragazzo a un nuovo contesto urbano, collocato in territori ben lontani da agi e abitudini del passato. Un mondo colorato e al tempo stesso laconico, sparpagliato nei tic della varie culture presenti sul territorio, ma unito nella stessa passione per la nazionale di Pelè e Tostao che intanto sugli schermi dei televisori macina vittorie su vittorie fino ad approdare alla finalissima con l’Italia. Ma è proprio mentre si dispiegano i preparativi per i festeggiamenti da conquista della coppa che la chiusura politica del paese farà sentire i suoi morsi più drammatici. Dal vecchio rabbino che aveva accudito il ragazzo fin da principio al giovane comunista d’origine italiana, il sottobosco dell’opposizione alla dittatura viene smosso con violenza dalle retate dei militari, tanto da spingere il finale verso una vittoria umanamente dimezzata. Approdo lineare di un film che, senza voler strafare a livello visivo, mantiene sobrietà e ironie (...).
Lorenzo Buccella, L’Unità, 10/2/2007 |
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Critica (2): | C’è una sequenza altamente esplicativa degli intenti, e persino della natura “filosofica” del viaggio iniziatico intrapreso dal regista brasiliano Cao Hamburger (una carriera consumatasi soprattutto fra TV, documentari e videoinstallazioni) nel suo O ano em que meus pais saíram de férias, che tradotto letteralmente significa “l’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza”, presentato in concorso alla 57ª Berlinale. La sequenza è quella in cui il piccolo protagonista Mauro entra nella stanza del nonno defunto e inizia a esaminarne gli oggetti, a “provare” indosso al suo fisico minuto gli abiti caratterizzanti l’identità del parente scomparso, compreso il classico copricapo kosher. Si tratta di un passaggio che sancisce l’avvio di un faticoso processo di riappropriazione di un’identità culturale, ottenuto tramite un forzato allontanamento dal nucleo-guscio familiare. Nel finale del film, la stessa voice-over di Mauro espliciterà il concetto di “esilio”, pur se declinato in un’accezione del tutto personale. Separato dai genitori, perseguitati politici, privato della compagnia del nonno, cui era stato dato in affidamento, morto improvvisamente di infarto proprio un attimo prima di accingersi ad accoglierlo, Mauro viene adottato dalla comunità ebraica del quartiere di Bom Retiro, a San Paolo del Brasile. Qui convivono da generazioni brasiliani-ebrei di plurima estrazione nazionale, ed è qui che Mauro, goy di padre ebreo e madre cattolica, prende coscienza della propria appartenenza a una “forma” culturale che preesiste persino ai pur inscindibili legami di sangue.
È il 1970, e da sei anni il Brasile vive sotto il giogo di una feroce dittatura militare, uguale nei modi a tante che hanno devastato il Sudamerica nella seconda metà del XX secolo, ma diversa per via del silenzio cui è stata condannata dall’induzione al subordine determinata dalla cassa di risonanza dedicate alle tragiche “consorelle” che affollavano, quasi in contemporanea, il continente. Ma il dodicenne Mauro, malgrado la partenza improvvisa dei genitori, non possiede la percezione “storica” di ciò che sta accadendo a lui e alla sua gente: lui crede che i suoi genitori siano veramente partiti per una vacanza, e concentra tutta la sua attenzione su altri “oggetti d’amore”, feticci simbolici o materiali sui quali riversare la propria affettività inevasa.
In primis, i Mondiali di Calcio del Messico, che vedono tra i grandi favorite proprio il Brasile, con il trentenne Pelé star indiscussa insieme a Jairzinho, Rivelino, Tostão e al comprimario Everaldo, l’unico vero oggetto del desiderio di Mauro, giacché è proprio la figurina di costui l’ultima a latitare dal suo album. In secondo luogo, le attenzioni spesso interessate del nuovo milieu entro cui Mauro, una volta occupata la casa del nonno, si trova ad abitare, grazie anche alla mediazione dell’anziano vicino di casa Shlomo; in particolare, Mauro subisce ben volentieri le “cure” di Hanna, sua (più o meno) coetanea che si innamora silenziosamente di lui. La sequenza in cui Hanna “nega” per gelosia a Mauro l’accesso al rudimentale peep-show che aggetta su un negozio di abbigliamento e di cui detiene il controllo (e che lascia visitare agli altri ragazzi previo pagamento di una gabella), impedendogli di ammirare le grazie della bella Irene, che lavora nei paraggi, è al tempo stesso un momento di tenerezza e un passaggio dal forte valore simbolico: Mauro sperimenta i primi turbamenti amorosi, e la sua peculiare “educazione sentimentale” non esclude dal proprio dominio la rivalità, il sospetto, l’assurzione a “oggetto” sessuale (pur se metaforizzato attraverso un “gioco” sospeso fra malizia e innocenza).
Dal suo non conoscere iniziale/inerziale, Mauro impara a comprendere la vita adulta, nei suoi aspetti più seduttivi, ma anche in quelli più tragici; alla fine, proprio mentre il Brasile rade al suolo l’Italia di Valcareggi laurendosi tricampeón e aggiudicandosi definitivamente la Coppa Rimet, senza neanche avere il tempo esultare ai gol di Jaizinho e Carlos Alberto che completano il 4-1 definitivo in quel di Città del Messico, Mauro impara anche che cos’è la morte: solo uno dei due genitori farà ritorno dalla lunga “vacanza”...
Il merito principale che va ascritto a Cao Hamburger è la delicatezza: senza mai calcare la mano, lavorando soprattutto sui mezzi toni, conferisce profondità a un tutto sommato ordinario Bildungsroman. Il processo di maturazione di Mauro è forse scandito con una “esattezza” che sfiora l’inconcussa monoliticità, ma possiede comunque i crismi di una scrittura attenta anche ai più impercettibili scarti emozionali, arricchita da uno stile capace di “inventare” cinema – le succitate sequenze del peep-show sono in tal senso esplicative – senza rimanere prigioniero di uno sterile accademismo.
Non cambierà la storia della rappresentazione della pubertà al cinema (peraltro, forse, l’età più irrappresentabile), ma O ano em que meus pais saíram de férias rimane un bell’esempio di cinema umanista ad altezza di quasi-adolescente.
Sergio Di Lino, cinemavvenire.it, 9/2/2007 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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