Critica (1): | «Non si può eliminare la sofferenza psichica istituzionalmente, cioè settorializzandola nella categoria della malattia mentale. Quella che va affrontata è la sofferenza in generale. Ma l’organizzazione sociale non può operare in questa direzione perché solo se affronta i problemi settorialmente può controllarli, altrimenti si distrugge. Lo Stato può creare un’organizzazione comunitaria, l’istituzione, solo perché dà un plusvalore rappresentato dal controllo che esercita» (Franco Basaglia)
Il direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, fresco di nomina, decide di conoscere senza intermediari la situazione manicomiale. Si traveste da “uomo di fatica” per poter penetrare indisturbato nei vari reparti del manicomio con la scusa di ritirare la biancheria sporca. Assiste così agli orrori dell’internamento. Dopo questa esperienza, l’uomo rientra nel manicomio e si presenta come nuovo direttore, esprimendo la propria volontà di cambiare radicalmente l’assetto dell’ospedale. Elimina la contenzione, le camicie di forza, l’elettroshock, le docce gelate, ecc. Poco a poco tutte le porte si schiudono. Tanto che, una sera d’estate, il direttore convoca i pazienti nel parco dell’Ospedale e propone loro di abbattere il muro di cinta che separa la città dalla realtà manicomiale. Il tutto deve però avvenire in una notte per evitare blocchi burocratici e reazioni istituzionali. Il film narra appunto di questa straordinaria notte, durante la quale non soltanto viene abbattuto il muro, ma avvengono i fatti “strutturali” della vita: nasce un bambino a una paziente, altri due si sposano in un finto matrimonio per rendere possibile un incontro d’amore, ecc.
Un film come La seconda ombra non può essere valutato e considerato al di là della motivazione, molto forte e certamente assai personale, che lo sottende; il desiderio, cioè, di ritornare alla figura di Franco Basaglia a vent’anni dalla morte e tramite essa ad un discorso – il riferimento è a tutta la sua attività, in particolare, naturalmente, a Matti da slegare– vicino alla poetica di Silvano Agosti. È bene tenere presente questa forte intenzione, perché sembra rendere conto della “natura” stessa del film, costituirne forse la sua chiave di lettura più autentica. L’autore si pone, infatti, un obbiettivo pedagogico evidente; fra l’altro esemplificato da un documento che il regista fa circolare in sala, una sorta di introduzione ad uso delle scuole contenente trama, presentazione, un intervento del Dott. Peppe Dell’Acqua, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, la descrizione delle condizioni di vita dei “malati” nelle strutture riformate dall’azione di Basaglia e dei suoi collaboratori, il testo integrale della legge 180 sulla chiusura dei manicomi. Tale programmaticità non si risolve però in un documentarismo didascalico, ma assume i toni, anche formali, di una favola, di un racconto popolare vicini a quel mondo dell’infanzia che Agosti ha toccato in romanzi e film, a sua volta in stretta connessione con l’universo della follia.
La figura dell’uomo di fatica, sotto le cui spoglie si nasconde Basaglia, neo direttore che vuole comprendere la reale situazione dei “malati”, sottolinea, fin dall’incipit, la logica entro cui si muoverà il film. Il mascheramento richiama alla memoria gli espedienti all’opera nelle fiabe dove il principe si traveste da plebeo per conoscere, senza ostacoli derivanti dalla differenziazione di classe, la situazione del popolo. Oltre a inserirsi, come detto, in una struttura quasi favolistica, l’assunzione di un’altra identità apre subito, all’inizio del film, una serie di nodi problematici decisivi: innanzitutto il tentativo di Basaglia di azzerare il proprio potere tecnico ponendosi sullo stesso piano – di classe, quindi di potere – del “malato”, indispensabile presupposto per un dialogo, ma soprattutto per la liberazione dell’internato. Al di là di questo forte nucleo teorico, lo scambio di identità implica, ancor più profondamente, l’assunzione di un diverso punto di vista. Modificando, cioè, il proprio ruolo si viene in contatto con ciò che differisce, l’Altro. Un’esperienza che provoca il disorientamento, lo scandalo della diversità, che è tale in quanto crea ostacolo e proietta in un altro mondo. Un contatto con ciò che oltrepassa pensiero e personalità, rendendo l’io estraneo a se stesso.
Tali considerazioni paiono collegarsi al tentativo operato da Agosti di costruire un film di poesia, tralasciando l’ipotesi della denuncia, fatta propria da giornali e televisioni fondate su scandali costruiti e falsa indignazione. Evitato è anche il rischio di cadere nel film biografico che, spesso nell’illusoria convinzione di poter restituire attraverso l’aneddoto la totalità e il “senso” di un’intera esistenza, assegna a determinati momenti un’importanza integralmente arbitraria. È il classico procedimento dei biopic hollywoodiani che, presentando la storia di una persona realmente vissuta, si sentono autorizzati ad utilizzare qualsiasi marchingegno spettacolare, falsificando la materia trattata sull’altare della spettacolarizzazione. L’operazione di Agosti è opposta: scegliere un episodio preciso e significativo – l’esperienza di Gorizia – e farne il punto di partenza per un percorso che alla fine dovrebbe restituire il “sapore” del percorso di Franco Basaglia.
Se l’esperienza della follia si rivela essenzialmente un’uscita da sé per vedere con Altri occhi, quindi, necessariamente, in altro modo, essa viene a collimare con il problema della creatività, intesa non esclusivamente dal punto di vista estetico, ma, più significativamente, da quello esistenziale. La capacità di uscire da sé costituisce l’unica possibilità di creare – Agosti direbbe “fare” qualcosa, un qualcosa che possiede le caratteristiche del nuovo. Il cinema, fondato sullo sguardo e sullo sfaldamento del soggetto, diventa, nei suoi esiti più coraggiosi, un campo privilegiato per la pratica e l’esperienza, anche da parte dello spettatore, di tale creatività. Estremizzando, questa fluidità dei punti di vista – enfatizzata da una struttura corale e da numerosissimi interpreti; rende il film stesso folle, senza centro, paradossale. Cinema moderno e inattuale.
Agosti ha incominciato a fare cinema negli anni Sessanta e tale formazione sembra emergere oggi in maniera più netta di quella “militante” dei successivi anni Settanta, che comunque lo videro protagonista. Dopo la rivoluzione moderna – da Rosselini a Straub, passando per Godard, Pasolini e tutti gli altri – e la riscossa di Hollywood, il cinema sembra aver preso due strade ben distinte. Risulta chiaro come Agosti sia rimasto fedele alla prima, apparentemente destinata all’invisibilità. Ne La seconda ombra molti procedimenti stilistici si rifanno a questa idea di cinema. Innanzitutto è assente qualsiasi strutturazione “forte” di una trama, di un meccanismo drammaturgico rigido. La “storia” infatti ambisce ad una “verità” diversa da quella rappresentata da un semplice scioglimento: intende restituire sensazioni e inquietudini più che fornire informazioni o presentare fatti. Non ci si preoccupa tanto di riflettere sull’antipsichiatria quanto di fornire un’esperienza della follia. L’uso del primo piano procede appunto secondo quest’ottica; il soffermarsi sui volti dei “malati” mette in contatto direttamente con un mondo radicalmente distante. Il volto possiede questa potenza capace di trasportare in una dimensione Altra. Non a caso le figure compaiono spesso attorniate dal buio o sono parzialmente nascoste dalla vegetazione. del parco dell’istituto, emergono, cioè, da un Altrove, che costituisce lo scarto, la differenza tra il mondo dei “normali” e quello dei “malati”. Solo fissando, immergendosi in tale voragine è possibile uscire da sé e vivere l’esperienza del contatto. L’insistenza del primo piano sui volti impone l’assunzione del “diverso” come individuo, come singolarità. Una delle principali istanze della pratica di Basaglia era proprio quella di avversare una psichiatria che trattava il “malato” come oggetto di studio, come portatore di una devianza che lo rendeva automaticamente “povera cosa”. «Se l’incontro con il malato mentale si attua nel corpo non si può che attuarlo su un corpo se si presume malato, operando un’azione oggettivante di carattere preriflessivo, da cui si deduce la natura dell’approccio da stabilire: in questo caso si impone al malato il ruolo oggettivo su cui verrà a fondarsi l’istituzione che lo tutela. Il tipo di approccio oggettivante finisce quindi per influire sul concetto di sé del malato, il quale – attraverso un tale processo – non può non viversi che come corpo malato, esattamente nel modo in cui è vissuto dallo psichiatra e dall’istituzione stessa». Agosti restituisce quindi un volto a chi era stato segregato, appunto per non essere più visto. Lo sguardo, instaurando un rapporto, è fonte di problematicità, dissolve la divisione tra osservatore ed osservato. Non a caso il mezzo cinematografico è stato precocemente utilizzato dagli antropologi ed ha scatenato, all’interno di questa scienza, controversie – violenza dell’obbiettivo come correlato della violenza dello studioso, questione della messa in scena del rituale sociale – simili a quelle affrontate da Basaglia nella sua pratica e da Agosti nel suo film.
Accentuando tale direzione, il regista tende a fornire continui segni della propria presenza, anzi in una sequenza è addirittura in scena – interpretato da un attore – nascosto dietro una macchina da presa mentre da giovane intervista Basaglia. Agosti si include cioè nella storia che sta raccontando e non solo perché ne ha fatto cronologicamente parte o perché voglia far sentire la propria presenza di autore. Al contrario, sembra porsi sullo stesso piano degli attori che altro poi non sono che i “malati”; vuole fare anch’egli l’esperienza, citandosi o mostrando il dispositivo, di restare sospeso tra soggetto ed oggetto. In questo modo la distanza e la differenza di potere tra chi è forte dell’istituzione, in questo caso cinematografica, e chi la subisce si assottiglia. Fra l’altro, il “matto” è oltre la recitazione, eccede lo psicologismo, non soggiace al ruolo. Lo spettatore stesso non può quindi dirsi sicuro del proprio solipsismo, ma viene provocato, posto al centro del problema, obbligato al confronto.
Emerge quindi il fattore aleatorio del film. Il caso, la leggerezza possono sorgere solo all’interno di una costruzione solida e consapevole, L’abilità sta nel saper cogliere nel materiale a disposizione, in fase di riprese o di montaggio, i momenti che sorgono (magicamente) da un organizzazione preesistente per eccederla, sconfessarla o dotarla di una potenza razionalmente impossibile da ottenere. L’occhio e il dispositivo vengono a contatto con l’inesauribilità del reale. Agosti sembra tener sempre presente questa enorme possibilità e ne fa la caratteristica principale del film. Un volto, un’ombra, un suono si staccano dalle abituali referenze e sondano un al di là del pensiero. Se è vero che in ogni film possono esserci momenti di questo tipo, l’origine e la finalità de La seconda ombra ne amplificano certamente il valore perché sostanziano, senza spiegare, l’esperienza della follia.
Appurato che modalità estetiche e finalità etiche coincidono nella visione del regista, non ci si può esimere dal considerarle alla luce del presente. Infatti essendo La seconda ombra «un film di impegno civile» nelle parole del suo autore, va valutato anche secondo tale modalità. Oggi, rispetto ad un passato prossimo, la considerazione verso le condizioni delle persone affette da “malattia mentale” è andata ad ingrossare il lungo elenco dei consueti discorsi paternalistici di stampa e associazioni varie. E la gente comune è più sensibile solo nel senso del politicamente corretto: si esprime un parere positivo su qualsiasi “apertura” che altro non è che un luogo comune per liberarsi del problema e non affrontarlo come più di vent’anni fa prevedeva Basaglia: «L’organizzazione sociale accetta i nuovi discorsi di liberazione perché è evidente che l’istituzione manicomiale non può più sopravvivere in una società “civile”, perché i campi di concentramento sono stati stigmatizzati, perché Pinochet è cattivo e la tortura non va... Ma deve esserci un altro modo per affrontare queste cose». Cosa vuol dire oggi impegno civile, quando molto della forza che sosteneva determinati ideali solo una ventina d’anni fa sembra del tutto scemata? Si tratta di nostalgia e anacronismo o di un “programma” consapevole ed efficace? Nel film l’abbattimento definitivo del muro viene compiuto, dall’esterno, con un caterpillar che un infermiere è riuscito a procurarsi senz’altro illegalmente. L’immagine del mostro tecnologico che abbatte il simbolo della segregazione compie un rovesciamento di notevole intensità; di solito, le macchine tendono a soffocare, a reprimere le esplosioni di libertà. Anche in molti film ruspe e bulldozer rappresentano il simbolo maggiore della violenza del potere; vengono alla memoria Punto zero dove il protagonista si schianta contro i mezzi pesanti che vorrebbero sbarrargli la strada nella sua folle corsa o le ruspe che distruggono la vecchia casa del protagonista de L’ultimo buscadero. Una brutale arma d’oppressione si può trasformare in strumento di liberazione. Fra l’altro lo stesso Basaglia fa riferimento ad una “lotta” di questo tipo, l’unica in grado di mutare alcune condizioni dell’istituzione: «... abbiamo dovuto agire con una certa cautela in relazione alla logica in cui vivevamo. Dovevamo usare determinati “machiavelli” per portare avanti il nostro discorso. Se non lo avessimo fatto certamente saremmo stati eliminati e, credo, sarebbe stato assurdo buttarsi in mare per annegare. La guerra ha una strategia, ma anche delle tattiche...». Lo scontro frontale, quindi, oltreché illusorio e destinato a sicura sconfitta, sembra anche riprodurre la violenza che si vuole combattere. Solo “lavorando” il Sistema, portandolo alle estreme conseguenze, si può cercare di farlo mutare. Altrimenti sarebbe illusoria e francamente disonesta, oggi, una resistenza di alcun tipo.Un altro segnale che il film sembra lanciare è quello della problematizzazione delle idee e delle conquiste dello stesso Basaglia. Sfondato il muro, le prime persone che incontrano i “malati” sono delle prostitute,ennesimo simbolo dell’emarginazione sociale, allo stesso tempo condannata e consentita. Se gli internati uscendo dal manicomio tentano un reinserimento nella normale vita comunitaria, vengono subito in contatto con una società che è tutt’altro che integrata, ma che, invece, fa della segregazione una propria logica interna. Non solo in casi limite, come appunto quello della restituzione, ma all’interno di tutte le sue istituzioni – come ricordava Basaglia, «...quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere, del non potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società». L’unica possibilità per i “inalati” come anche peri “sani” è entrare in rapporti che non possono che risultare soggiogati dalla violenza perché basati su di un contratto sociale fondato sulla forza ed il denaro. L’autonomia potrebbe rivelarsi un’ arma a doppio taglio, buona per fini strategici per liberarsi della brutalità esteriore, meno efficace se ne si considera l’essenza fondata sul denaro, sul potere d’acquisto e su di un’idea di soggettività che più sottilmente perpetra in sé l’alienazione.
Il manicomio continua a sopravvivere. Fuori. Il film lascia aperto l’interrogativo. La sua natura poetica non consente di fornire risposte precise, ma si concentra sulla problematizzazione, sulle domande. Un modo anche questo per sfuggire alla logica, raffinatissima, del Potere che ha risposte per tutto perché non può lasciar intravedere la propria insicurezza.
Conversazione con Silvano Agosti
Non ho voluto fare un film di denuncia. Mi interessa di più la poesia che permette di cogliere una realtà più profonda, una verità e un’esperienza dell’esistenza. La creatività si può intendere come un confronto con l’Altro, confrontarsi con un esterno, una realtà che permette di uscire da se stessi, unica possibilità di creare qualcosa di nuovo. Un po’ come succede nell’esperienza della follia. Voglio esprimermi con un’immagine paradossale. La figura che la cultura imperante ha sempre fornito del matto è quella di individuo pericoloso a sé e agli altri; anzi, chiunque veniva ricoverato in ospedale psichiatrico aveva questo timbro su di sé. Ma io mi immagino che se esistesse il diavolo, il diavolo probabilmente sarebbe un povero cristo, un bonaccione, un po’ tonto, ma comunque un bravo essere; la demonizzazione che avviene sempre nelle culture, però, come ha colpito il diavolo così ha colpito il matto, che è diventato una figura da sfuggire. In realtà la follia è uno dei patrimoni più grandi che l’umanità abbia a disposizione perché, come dicevi tu è un’indagine, una ricerca nel nuovo. E una fuga dalla logica. Unicità assoluta di sé e quindi diverso dalla propria diversità che è stata descritta da fuori.
Però quello che conta e a me interessa di più non è il problema specifico del matto, ma della follia. Basaglia ha chiuso il manicomio istituzionale, ma è rimasto aperto il grande manicomio della società. La società è organizzata a dire il vero non si capisce neanche chi la stia organizzando, sembra quasi che dietro il palcoscenico non ci sia nessuno in modo tale che la gente invece di aver il tempo per vivere ha solo il tempo per andare a lavorare o per cercare un lavoro e per aspirare ad un lavoro o per curarsi perché il lavoro l’ha distrutta. Una società dove i bambini vengono reclusi in stanzoni costretti a star seduti come i matti sui letti di contenzione, è una società perversa, è una società folle nel senso negativo del termine. Il folle è l’unica speranza di questa società perché con il suo sguardo angelico ti ricorda che la vita è ben altro di quello che le persone credono e ricorda ad ognuno il valore straordinario che un essere umano ha. Quindi il mio film, in un certo senso, contiene in sé il desiderio di guarire le persone dalla paura della follia e di trovare nella follia addirittura conforto, proprio come i matti.
La tua idea di cinema mi sembra molto precisa, coerente. In mano a qualche altro regista una figura come quella di Basaglia sarebbe diventata l’occasione per il solito film biografico, impegnato, strappalacrime. Rispetto a queste tendenza, mi sembri all’opposto.
Certamente, perché ci sono due direzioni. Il cinema di Hollywood è concepito per addormentare le coscienze e per distrarre le persone dall’assenza di un destino. Le persone come dice la parola più drammatica che si usa in questi termini “vanno a evadere al cinema”, cioè evadono da un ergastolo che non si sa per quale delitto gli è stato comminato. Invece il cinema, come lo concepisco io e come, secondo me, lo hanno concepito sempre gli autori veri di cinema, ha la funzione di svegliare le coscienze. Questo film ti lascia solo con te stesso e ti fa fare i conti con la tua dignità. Ti dice «E tu?». Secondo me è l’elemento fondamentale di un cinema di impegno civile.
Nel film mi sembra di aver notato l’intenzione di andare al di là della critica, della semplice constatazione di una negatività che oltre all’indignazione crea solo alibi per non agire. Un desiderio di fare, di creare,
La parola poeta, e ogni essere umano è un poeta all’origine, vuol dire “colui che sa fare” e nel fare c’è il riscatto dalla vanità, dal sopruso, dalla paura, dal dolore. Il fare è sacro e il saper‑fare ancora di più. Io penso che il solo destino che si possa augurare oggi ad ogni essere umano è di conquistare una condizione di autonomia, autonomia nel fare in modo che sia lui a fare e non altri a fare per conto suo. Secondo me ogni essere umano è un universo unico e irripetibile, capace di concepire le cose più straordinarie se lasciato libero di crescere nella propria natura. E quindi sogno un’umanità dove ogni persona è autonoma e dove ogni gruppo di persone è autonomo e dove lo Stato stesso è il frutto di una serie di autonomie. Ma di questo bisogna convincere tutti. Le madri credono di voler bene ai loro figli perché si sostituiscono a loro. È sbagliato, il bambino dopo aver imparato a pulirsi il sedere, deve imparare a pulirsi ciò che sporca, il piatto, il pavimento, deve addestrarsi all’autonomia, in modo che quando ha il senso di quello che è giusto che faccia lo sappia anche fare. E se lo sa fare è libero.
Alberto Zanetti, Cineforum n. 397 |