Violette
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Regia: | Provost Martin |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Martin Provost, Marc Abdelnour, René de Ceccatty; fotografia: Yves Cape; musiche: Hugues Tabar-Nouval; montaggio: Ludo Troch; scenografia: Thierry François; arredamento: Catherine Jarrier-Prieur; costumi: Madeline Fontaine; interpreti: Emmanuelle Devos (Violette Leduc), Sandrine Kiberlain (Simone de Beauvoir), Olivier Gourmet (Jacques Guérin), Catherine Hiegel (Berthe), Jacques Bonnaffé (Jean Genet), Olivier Py (Maurice Sachs), Nathalie Richard /(Hermine), Stanley Weber (René), Pierre Gribling (Jacques, marito di Violette), Marc Faure (Gaston Gallimard), Alexandre Massonet (Sig. Chantelauze), Jean-Paul Dubois (Ernest), Pierre-Alain Chapuis (Jacques Lemarchand), Richard Chevallier (Louis Jouvet); produzione:
Ts Productions-France 3 Cinéma-Climax Films; distribuzione : Movies Inspired; origine: belguio-Francia, 2013; durata: 139’. |
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Trama: | L'intenso rapporto tra Violette Leduc e Simone de Beauvoir, nato a St Germain des Prés negli anni dopo la guerra e durato per tutta la loro vita. La loro relazione sarà contraddistinta dalla ricerca da parte di Violette della libertà attraverso la scrittura e la convinzione di Simone di avere tra le mani il destino di una straordinaria autrice. |
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Critica (1): | Sette capitoli, titolati coi nomi di chi ha attraversato la sua vita, a scandire un'esistenza solitaria e poco conosciuta. A raccontare tormenti, ispirazione e passioni della scrittrice Violette Leduc, ci sono numerose ellissi, tagli alla vita come fossero amputazioni, quelle subite dalla sua opera che, trattando auto-biograficamente aborto e amori saffici, non trovava spazio nella società dell'epoca.
Pur attorniata da personalità come Genet, Sartre, il profumiere-mecenate Jacques Guérin e Simone de Beauvoir, che credette in lei e che in qualche modo le fece ombra, Violette non ebbe la fortuna letteraria che meritava: il suo essere figlia illegittima, l'asfissia generata dalla madre detestata eppure cercata, colpevole di averla messa al mondo e di averla fatta brutta, e la sensazione di soffocamento che la Leduc stessa per la sua fame d'amore provocava nelle persone a cui si legava morbosamente, che fossero uomini o donne – L'asfissia (1946), L'affamata (1948), La bastarda (1964) sono i titoli di tre delle sue opere – l'hanno auto-emarginata e chiusa in una solitudine che il regista Provost rende dolorosamente tangibile.
La sensazione di essere “un monologo in un deserto”, come Violette stessa scrive, è assoluta e stringe in una morsa anche lo spettatore, chiudendolo insieme alla protagonista in ambienti asfittici come l'appartamento fra le cui misere quinte la superba Devos si muove, prima ladra per il mercato nero, poi scrittrice dimessa e infine depressa. Persino la Parigi di intellettuali e fermenti femministi, coi suoi caffè, le case degli artisti e i teatri, è plumbea, fredda come chi la abita, costantemente color antracite, il colore di una guerra che sembra non essere mai davvero finita per Violette.
Non si empatizza con nessuno nel film di Provost, nemmeno, paradossalmente, con la tormentata protagonista, la cui dolorosissima solitudine, resa sgradevole dal suo aspetto e dalla sua morbosità, sembra a tratti essere estranea anche a se stessa. Forse è questa la vera solitudine, pare suggerire il film: quella nei confronti di tutti e infine anche di se stessi; quella della scrittrice le cui parole sembrano essere a volte inaccessibili persino a lei; quella per cui le parole su carta escono a fiotti come fossero sangue, come fossero i pezzi del bambino non voluto e abortito che Violette portava in grembo, come fossero scatti di rabbia perché non si capacita, non accetta il proprio essere brutta, bastarda, pedante, sola. La solitudine è allora il silenzio della scrittrice, squarciato da parole che in realtà sono urla e che il film ci fa ascoltare come se fossimo gli unici a poterle sentire.
Brutta, eppure sensuale, Violette. Tanta è la passione che la anima; è carne percorsa più volte dalla macchina da presa e dalle sue stesse mani che, nella propria mente, si fingono quelle delle persone amate: la Beauvoir, la madre, il padre che non l'ha riconosciuta, la compagna di collegio, il marito gay sposato per scampare alla guerra.
Un altro movimento di macchina a seguire lo sguardo della donna verso l'alto, verso i rami che segnano il cielo di nere trame, torna più volte nella pellicola, fino a trovare spazio in una Provenza finalmente aperta, lontana e, ancora una volta, deserta di affetti.
Manuela Russo, cineforum.it, 28/6/2015 |
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Critica (2): | Così prolifico da aver dato origine a festival (vedi il Biografilm, che si è svolto proprio questo mese a Bologna), il film biografico non è materia facile da trattare. Spesso dà origine – per rispetto, deferenza o semplice conformismo - a pellicole noiose e prevedibili. Però ci sono eccezioni: straordinarie, come il film di Martone su Giacomo Leopardi o (in tono minore) questo Violette: opera di un regista, Martin Provost, già autore di una bella biografia della pittrice Séraphine de Senlis.
Adesso Provost si concentra su Violette Leduc, scrittrice di razza dalla fama al di sotto dei suoi effettivi meriti; seguendola in quel difficile itinerario che è sempre lo sboccio di un artista ma anche, e soprattutto, nella sua travagliata vicenda umana e psicologica. Niente allori accademici, dunque, ma la storia di una donna appassionata e piena di ossessioni, portatrice di un’imbarazzante tendenza a rendersi insopportabile per troppo bisogno d’amore. Il film copre un arco temporale che va dalla guerra (quando Violette viveva assieme al presunto marito, lo scrittore omosessuale Maurice Sachs, poi campava col mercato nero) agli anni Sessanta, al tempo dell’amicizia tra lei e Simone de Beauvoir, dell’emergente questione femminista e delle lotte combattute dal “secondo sesso”. Violette riesce a ottenere che il suo idolo, la già affermata Simone, legga il manoscritto del suo romanzo “L’asfissia”. Beauvoir lo fa pubblicare da Gallimard, ma il libro esce malamente e non serve a trarre dall’oscurità la neo-scrittrice, che cade in una depressione esaltata dal fatto che, mentre lei è innamorata dell’altra, Simone non intende superare i confini dell’amicizia. Malgrado le delusioni iniziali, la scrittrice famosa riuscirà a convincere la neofita a misurarsi ancora con la pagina scritta, confidandovi anche le proprie esperienze più personali e dolorose. Oltre a quella, centrale, che la lega alla carismatica Beauvoir, il film percorre le altre relazioni di Violette – con la madre adorata e detestata, con amici perlopiù omosessuali, con amanti di entrambi i sessi – senza che la pena alla solitudine e alla (auto)esclusione le sia condonata.
(...) Più tardi, sempre col sostegno di Beauvoir, Leduc può pubblicare il suo “La bastarda” (l’altra ferita di Violette era la condizione di illegittima), dove racconta vicende molto intime della propria vita come l’amore saffico in collegio o l’aborto. Costruito per capitoli, con larghe ellissi temporali e molti momenti “sospesi”, il film si muove sul delicato confine tra arte e vita (particolarmente sottile in Leduc) senza scivolare mai nell’agiografia o nella celebrazione; nemmeno nel finale, particolarmente pudico e sommesso per un “biopic”. Va da sé che, di un film del genere, i pilastri sono le performance degli attori.
E qui Provost gioca le sue carte migliori affidando le due scrittrici di personalità opposta, ma accomunate dalla convinzione e sincerità della stima reciproca, a Emmanuelle Devos e Sandrine Kiberlain. L’una accetta di rendersi sgradevole (“Non mi amate perché sono brutta!” dice a Beauvoir), petulante, auto commiserante; l’altra è una maschera giapponese per impenetrabilità e per stile, un mostro sacro della letteratura dell’epoca osannato e rispettato. Oltre le apparenze, però, si tratta di due donne sole. E che cercano, in modi diversi, di combattere le costrizioni del ruolo femminile che le ha chiuse nelle rispettive solitudini.
Roberto Nepoti, repubblica.it |
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