Come pietra paziente - Syngué Sabour
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Regia: | Rahimi Atiq |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Jean-Claude Carrière; fotografia: Hervé de Luze; musiche: Thierry Arbogast; scenografia: Erwin Prib; montaggio: Hervé de Luze; interpreti: Golshifteh Farahani (Donna), Hamidreza Djavdan (Uomo), Massi Mrowat (Soldato giovane); Hassina Burgan (Zia); produzione: The Film-Studio 37-Razor Film-Corniche-Arte France Cinema-Jahan-E-Honar Productions; distribuzione: Parthénos; origine: Francia-Germania-Afghanistan, 2012; durata: 103’. |
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Trama: | Ai piedi delle montagne attorno a Kabul, una giovane moglie accudisce il marito, eroe di guerra, in coma. La guerra fratricida lacera la città, i combattenti sono alla loro porta. Costretta all'amore da un giovane soldato, contro ogni aspettativa la donna si apre, prende coscienza del suo corpo, libera la sua parola per confidare al marito ricordi e segreti inconfessabili. A poco a poco in un fiume liberatorio tutti i suoi pensieri diventano voce: incanta, prega, grida e infine ritrova se stessa. L'uomo privo di conoscenza al suo fianco diventa dunque, suo malgrado, la sua "syngué sabour", la sua pietra paziente, la pietra magica che poniamo davanti a noi stessi per sussurrarle tutti i nostri segreti, le nostre sofferenze... finché non va in frantumi. |
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Critica (1): | In una stanza spoglia un uomo è disteso a terra, nell’immobilità assente del coma, la giovane moglie inginocchiata accanto a lui amorevolmente lo assiste e sempre più crudelmente gli parla: fuori le cannonate, le macerie, la polvere, i carri armati, i morti, di Kabul. La meraviglia sconvolgente di Come pietra paziente, nasce da queste immagini dolenti e miserabili, dal lungo monologo angosciato e feroce della donna che raccontando se stessa racconta tutta la sofferenza, l’umiliazione, la ribellione di milioni di donne; dal viso di emozionante bellezza dell’attrice iraniana Goldhifeth Farahani, che l’impenetrabile burka cancella, ogni volta che con gesti antichi di rabbia e sottomissione lei ci si imprigiona. Il film diretto dall’afgano Atiq Rahimi, che vive in Francia da 30 anni (sceneggiato con Jean-Claude Carrière), è tratto dal suo romanzo Pietra di pazienza vincitore del Goncourt nel 2008 (Einaudi), ed è una di quelle opere straordinarie che ogni tanto il cinema sa dare, incantandoci e costringendoci a pensare al dolore del mondo, e in questo caso all’oppressione delle donne cui tutto viene negato in società patriarcali, dominate dalla frustrazione sessuale e dalla tirannia religiosa. «Chi non sa fare l’amore fa la guerra», dice la sapiente padrona di un bordello che con quel lavoro si è liberata, imparando a conoscere la fragilità maschile. Lo dice alla nipote, la moglie dell’uomo in coma, che le ha affidato le sue due bambine. E la vita va avanti, va avanti la guerra che dopo 25 anni nessuno sa più di chi contro chi: la guerra entra in casa, ed è un mujahid feroce e armato che non violenta la giovane donna solo perché lei si dichiara prostituta, cioè indegna di un buon musulmano, ed è un mujahid giovane e timido che si lascia travolgere da un impensabile sentimento d’amore. Si dice che esista una pietra così paziente da ascoltare tutto ciò che le donne debbono tacere, sino a quando, piena di quelle disperate rivelazioni, scoppia in mille pezzi, liberando le sue confidenti. Ecco, per la giovane moglie, il marito vivo e senza vita, diventa la sua pietra paziente. A cui confida i ricordi di un’infanzia dolente, con un padre che amava solo le sue quaglie da combattimento e pagava i debiti vendendo le figlie, dell’arida prima notte di nozze, senza una parola, senza un gesto, lei vergine, ma con la paura di non poterlo dimostrare; della terribile suocera che non restando lei incinta, voleva cacciarla condannandola al disprezzo e all’abbandono di tutta la comunità. E se i gesti della donna verso quel corpo inanimato continuano a essere soccorrevoli, a poco a poco la parola che le è stata tolta in quanto donna, diventa un fiume liberatorio e vendicativo; e quel suo corpo maledetto e sempre occultato perché peccaminoso, perché impuro, prende la sua rivincita, si dichiara, sboccia, rivendica i suoi diritti. Le è sempre stato proibito, ma adesso lei si sente libera di baciare il marito sulla bocca, di accarezzare il suo corpo che, come pietra paziente, accoglie inerte quei gesti negati quando potevano essere condivisi nella reciproca gioia. Sì, grida la giovane donna a se stessa, a quell’uomo che da sedici giorni è in coma, al mondo, anche lei ha un corpo, anche lei ha desiderato, anche lei si è data piacere: e soprattutto può finalmente rivelargli il suo terribile segreto, la colpa che l’ha salvata. Fino a quel momento.
Natalia Aspesi, La Repubblica.it |
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Critica (2): | Sta quasi tutto nello spazio chiuso d'una piccola stanza, Come pietra paziente (...). La macchina da presa non smette di inquadrare la protagonista (Golshifteh Farahani). La donna non ha un nome, e non ce l’ha il marito (Hamid Djavadan), l’altra presenza quasi continua del film. In coma per una pallottola penetrata nel collo, l'uomo, un combattente, un eroe, è steso sul letto dove lei lo accudisce. Siamo in Afghanistan, probabilmente a Kabul. Per le strade non ci sono che la violenza e la morte di una guerra fatta per la gloria di dio. Ma ad Atiq Rahimi e al cosceneggiatore Jean-Claude Carrière interessa soprattutto quel che accade all’interno della casa, e ancora più quel che accade nella mente, nel cuore e nel corpo della donna. In Come pietra paziente le parole si fanno cinema. La parole sono quelle che la donna può finalmente rivolgere al marito, immobile e incosciente. Cinema sono le immagini che il suo monologo ci fa nascere negli occhi, più che se la macchina da presa mostrasse direttamente le situazioni, le prevaricazioni e il disamore narrati. Questa è per lei la prima occasione d'essere se stessa, dopo dieci anni di matrimonio. La sua nuova libertà è quella che viene dalla syngué sabour della tradizione popolare afghana, cioè dalla “pietra paziente” cui si raccontino i propri dolori fino a che il loro peso non la sbricioli. È il marito, è il suo corpo inerte quasi fosse pietra, la sua syngué sabour. Non c’è alcun dialogo fra i due. Non c’è, come non c'è mai stato. Tutto avviene in lei, che ritrova memoria della propria dignità, delle proprie speranze, del proprio desiderio. Per lui il suo corpo è sempre stato solo occasione d’un piacere concitato e solitario, al pari di un atto onanistico. «Gli uomini che non sanno fare l'amore, fanno la guerra», le dice la zia (Hassina Burgan), che fa con orgoglio la prostituta (e che forse per questo è libera e irridente rispetto all’immaginario dei “valori” maschili). E intende: fanno la guerra per dimenticarsi d’aver paura dell’amore. Tutto questo accade in Afghanistan, in un tristo medio evo in cui dominano e uccidono le armi più sofisticate. Ma basta allontanarsi solo un po’ con la mente dal suo paesaggio che ci sembra lontano, per avere il sospetto che Rahimi non parli solo del suo Paese e della sua cultura d’origine. E certo non è un caso che la protagonista di Come pietra paziente non abbia nome, e non sia che una donna.
Roberto Escobar, L’espresso |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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