Rabbia di Pasolini (La)
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Regia: | Bertolucci Giuseppe |
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Cast e credits: |
Soggetto: Pier Paolo Pisolini, Tatti Sanguineti; sceneggiatura: Pier Paolo Pisolini, Tatti Sanguineti, Giuseppe Bertolucci; montaggio: Nino Baragli, Mario Serandrei, Pier Paolo Pisolini, Fabio Bianchini; voci e letture: Giorgio Bassani (voce in poesia), Renato Guttuso (voce in prosa), Valerio Magrelli (letture della parte ricostruita), Giuseppe Bertolucci (letture della parte ricostruita); produzione:Cineteca del Comune di Bologna- Istituto Luce- Gruppo Editoriale Minerva Rarovideo; distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia, 2008; durata: 76’. |
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Trama: | 1963. Pier Paolo Pisolini, attraverso i cinegiornali 'Mondo libero' di Gastone Ferranti e i materiali reperiti in Cecoslovacchia, Unione Sovietica e Inghilterra, realizza un film di montaggio che analizza polemicamente i fenomeni e i conflitti sociali e politici del mondo moderno. Durante la fase di montaggio, Pasolini cede alla richiesta del produttore di trasformare il film in un'opera a quattro mani con Giovannino Guareschi, secondo lo schema giornalistico del "visto da destra visto da sinistra". Pasolini deve quindi rinunciare a parte del film per lasciare spazio all'episodio di Guareschi.
2008. Partendo dal testo del poeta e dalla collezione di 'Mondo libero', Giuseppe Bertolucci e Tatti Sanguineti provano a restituire all'opera di Pasolini i connotati dell'originale. La ricostruzione comprende: Introduzione di Giuseppe Bertolucci (2'), materiale inedito dell'archivio dell'Istituto Luce (cinegiornali di 'Mondo Libero', Settimana Incom, Opus Film; 16'), "La Rabbia" (edizione del 1963) (53') del Gruppo Editoriale Minerva RaroVideo, e l'appendice "L'aria del tempo" (12'). |
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Critica (1): | Giuseppe Bertolucci ricostruisce i primi 16 minuti della Rabbia che nell'originale del 1963 il regista di origini friulane fu costretto a tagliare per fare spazio alla parte di Guareschi.
«I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica», scrive Pier Paolo Pasolini nel settembre del 1962 su «Vie nuove», a proposito del film cui sta lavorando. Si tratta di «un'opera giornalistica,più che creativa », spiega. Ma così non sarà poi La rabbia (1963). Dai 90mila metri di pellicola messi a sua disposizione da Gastone Ferranti, direttore del cinegiornale «Mondo libero», l'autore di Accattone (1961) trarrà un film creativo e anche poetico. Quel film, però, non sarà lo stesso che ipotizza nell'articolo di «Vie nuove ». Preoccupato delle reazioni politiche, il suo committente – lo stesso Ferranti – gli affianca Giovannino Guareschi. Il film verrà così diviso in due parti: nella prima la rabbia sarà di sinistra, nella seconda di destra. A malincuore, Pasolini accetta, rinunciando ai primi 16 minuti già abbozzati. E sono proprio quei minuti che ora, insieme con Tatti Sanguineti, Giuseppe Bertolucci tenta di ricostruire all'inizio di La rabbia di Pier Paolo Pasolini (Italia, 2008, 83').
Non c'è più la metà di Guareschi, nel film. Già questo è un buon risultato per così dire filologico. Chi ha visto la versione del 1963 sa quanto le due parti siano incompatibili, non solo dal punto di vista politico, ma anche e soprattutto da quello umano e intellettuale. Purtroppo lontano dall'intelligenza e dall'ironia sarcastica della saga di Peppone e Don Camillo, Guareschi è reazionario in senso letterale: di fronte ai fatti del mondo, la sua rabbia è appunto solo reattiva, qua e là astiosa e volgare. Al contrario, quella di Pasolini è addolorata e tenera, angosciata dal presente e dal futuro, eppure colma di disperata passione. È creativa e poetica, appunto.
C'è una sorta di confine temporale, in La rabbia. C'è un prima – la guerra, il fascismo, la distruzione – e c'è un poi. Anzi, non un poi ma un'ora che minaccia di uccidere il futuro, riducendolo a una mostruosa persistenza cadaverica del presente. Più tardi, soprattutto negli anni della Trilogia della vita e di Salò, Pasolini la chiamerà dopo storia, questa sopravvivenza senza vita del tempo. Ora invece la descrive come trionfo della normalità. «Cos'è successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalità», scrive appunto in «Vie nuove». Per l'Italia la normalità comincia dopo i funerali di Alcide De Gasperi. Sepolto lo statista «antifascista e ricostruttore», il Paese si immerge nella «normalità dei tempi di pace, di vera, immemore pace». E questo, peraltro, sembra fare tutta la parte ricca del Mondo, mentre quella povera inizia a muoversi e a premere ai confini del senso comune e delle sue pigrizie.
Si chiama colore la nuova, grande questione del Pianeta. E colore significa rivolte, guerre di liberazione, morti, e poi di nuovo normalità. Ma significa anche razzismo, cancro morale dell'umanità, «che come il cancro ha infinite forme ». Così scrive Pasolini nel '62, e così ripete e mostra nel '63,quarant'anni prima che le nostre coscienze tornassero a soffrire di quella stessa malattia multiforme e sempre pronta a camuffarsi.
D'altra parte, anche i poeti vivono nel tempo,e dunque ne respirano l'aria,buona o cattiva che sia. Capita così che Pasolini sia tentato di addolcire la sua rabbia immaginando o forse sognando un luogo sottratto al male, e alla sua fatalità. È l'Unione Sovietica quel luogo mitizzato e popolato di una nuova umanità, o almeno della sua promessa. Certo, i fatti d'Ungheria la smentiscono, quella promessa. E Pasolini li mostra, nella loro crudeltà. Tuttavia il sogno resta, e resta l'illusione. Eppure non è in questo bisogno residuo e illusorio di fede il cuore di La rabbia, ma nel sospetto dell'avvicinarsi di un tempo in cui i pochi che decidono dei molti si nasconderanno dietro la menzogna di una cultura che si dice di massa, ma che rende il mondo sempre più irrea-le, prigioniero dell'ideologia per cui consumare è lo stesso che esser liberi.
È la televisione lo strumento e la dimensione privilegiata di questa costruzione d'una normalità senza più storia, prigioniera di idee piccole e tutte uguali. Così sospetta il filosofo-poeta già all'inizio degli anni Sessanta del secolo scorso.
E insieme però suggerisce una via d'uscita dal disastro, almeno ipotetica. Questa via d'uscita è la rabbia, appunto: la capacità di indignarsi e dire no. Ma nel nostro Paese – osserva Pasolini nell'intervista con cui Bertolucci chiude il film – la rabbia è piccola e meschina. Lo è perché ama percorrere vie sicure, vie garantite da un nuovo (o vecchio) potere e una nuova (o vecchia) chiesa. È una rabbia senza furia poetica, una rabbia reattiva, più d'una volta reazionaria.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 14/9/2008 |
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