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Honey Boy


Regia: Har'El Alma

Cast e credits:
Soggetto: Shia LaBeouf; sceneggiatura: Shia LaBeouf; fotografia: Natasha Braier; musiche: Alex Somers; montaggio: Dominic Laperriere, Monica Salazar; scenografia: Jc Molina; arredamento: Tatiana van Sauter; costumi: Natalie O'Brien; effetti: Roger Matsuo; suono: Brent Kiser; interpreti: Shia LaBeouf (James Lort), Lucas Hedges (Otis Lort), Maika Monroe (Sandra), Noah Jupe (Otis, giovane), Clifton Collins Jr. (Tom), Dorian Brown Pham (Pam), Craig Stark (Craig), Chala Savino (Twyla); produzione: Automatik, Delirio Movies, Stay Gold Features; distribuzione: Adler Entertainment; origine: Usa, 2019; durata: 93'.

Trama:Otis è un giovane attore che finisce nei guai dopo l'ennesima bravata. Nell'istituto di riabilitazione in cui è stato ricoverato, rivive i suoi 12 anni, trascorsi con un padre ex-clown ed ex-carcerato, tossicodipendente, con il quale, quando non era sul set, trascorreva le giornate in un motel, ai margini della città, sopportandone abusi e prepotenze. Honey Boy segue due fili del tempo, guardando il rapporto conflittuale di padre e figlio e i loro tentativi di riparare al male subito.

Critica (1):Un'esplosione spettacolare, un giovane attore sbalzato via, che rimane sospeso per aria, appeso a una fune. “Cut!”. Il cinema è così semplice, in fondo. Si nutre di questa illusione. Poi, intorno, dietro, c'è tutto il resto. E se la macchina da presa non stacca, vediamo un tizio rimasto mestamente a penzolare. Uno che non è ancora una persona e non è più un personaggio, trascinato faticosamente al punto di partenza, pronto a farsi esplodere di nuovo, magari un po' meglio.
Questa è la storia di un ragazzo speciale, di nome Otis. Questa è la vita di un attore, di nome Shia LaBeouf. Più o meno. Vallo a sapere quanto sia davvero memoria, documento esistenziale, diario personale trasformato in cinema (universale), e quanto invece solo (solo?) messinscena, trasfigurazione spettacolare (affetti speciali). Certo è che ci vuole un bel coraggio a guardare in faccia i propri demoni in quel modo, letteralmente, davanti a una macchina da presa. Tutti sanno dei problemi di Shia LaBeouf (e del suo percorso di riabilitazione), ma pochi potevano immaginare questa storia di un'infanzia negata, quel padre clown (di rodeo), tossico, violento, degno erede di varie generazioni di alcolisti (dice il padre di Otis in una battuta del film).
A 10 anni Shia era un attore professionista, a 14 una star televisiva (Disney Channel), a 22 anni aveva già un Trasformers e un Indiana Jones alle spalle (poi arriveranno anche un Lars von Trier super-hard e un'Andrea Arnold super-indy, perché non è certo uno che ama "vincere facile"). Ecco l'esplosione, e la fune. Una vita vera, dolorosa, eccitante, con i suoi successi e con la sua disperazione invincibile, che diventa una sceneggiatura e un film. La finzione come una corda che ti tiene appeso, quando tutto salta per aria, per non rischiare di farsi troppo male. Tutto vero ma tutto finto, tutta una finzione realistica, la sua intima verità, che qui passa attraverso la memoria cinematografica, il topos narrativo, il luogo comune di genere (storia di formazione, di perdizione e riscatto) e là è quasi naturalistica, cruda, dura, emozionante.
Una straordinaria rappresentazione del concetto di catarsi. Anzi, una specie di esorcismo, in forma di autobiografia (poco) romanzata. Otis fa un incidente, dopo l'ennesimo eccesso, e finisce in un istituto, dove una psicoterapeuta gli chiede di scrivere un diario. Una sceneggiatura. La fune. Con quel “problema” irrisolto: papà. Un reduce stempiato che sembra uscito dagli anni '70-'80, un fallito impulsivo che spinge il figlio talentuoso verso il successo. Che lo ama, ed è amato, di un amore assoluto. Assolutamente incapace di trasformare quel sentimento in azioni coerenti, in sentimenti e discorsi adeguati a un ragazzino di 12 anni. Che è una specie di Pinocchio - così lo vede la regista - una marionetta che vorrebbe essere un vero bambino.
Un melodramma, quindi? Anche. Se non fosse che Shia LaBoeuf si trova a interpretare proprio il padre, in quella che diventa (per usare le parole della regista Alma Ha'rel) “un'esperienza psico-magico-catartica”. Honey Boy non sarebbe il film notevole che è diventato, se non fosse inscritto dentro questa trasparente ambiguità, con quel modo di parlare cinema (e di chi fa cinema) mentre il cinema si fa, e lo si usa come terapia; quel genere di film che non usa la vita ma prova a fartela vedere e sentire per davvero. Shia fa una cosa difficilissima con una facilità commovente, guarda suo padre da dentro, non per esporlo al pubblico ludibrio, e neppure per provare a “capirlo” e così “liberarsi” di lui, ma per incarnare le sue contraddizioni, per mostrarlo ironico e feroce, odioso e a suo modo affascinante, dolce e furioso, follemente innamorato di suo figlio (che sfrutta), ma innamorato anche di più delle propria ossessioni, delle proprie dipendenze. Lo aiuta un ragazzino prodigioso, Noah Jupe, che ha proprio quella maturità prematura, e insieme un bisogno d'amore e una tenerezza acerba, che si incarna nell'incontro con una vicina di casa (di motel), una ragazza più grande di lui vittima della stessa solitudine.
No, non è una storia originale, e non vuole neppure esserlo. Anzi, sembra quasi che lo Shia sceneggiatore cerchi quella esemplarità, quella fune che c'è ma non si vede (non così tanto), mentre come uomo e figlio cerca di capire, attraverso il cinema, ciò che è diventato. Alma Ha'rel ha il merito di limitarsi ad accompagnare questo percorso, senza farsi troppo notare, con la fondamentale collaborazione di Natasha Braier (che pure aveva disegnato la perfezione plastica e stilizzata di Neon Demon, tutt'altro cinema), dentro inquadrature che sembrano spesso trovate più che pensate e progettate: la costruzione di uno spazio cinematografico in cui persone e personaggi possono muoversi con naturalezza, assecondando le emozioni, la realtà di cui si nutre il cinema, tra un'esplosione e l'altra.
Fabrizio Tassi, cineforum.it, 27/5/2020

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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