Gangor
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Regia: | Spinelli Italo |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal racconto "Choli Ke Pichhe" (Dietro Il Corsetto) di Mahasweta Devi; sceneggiatura: Antonio Falduto, Italo Spinelli; fotografia: Marco Onorato; musiche: Iqbal Darbar; montaggio: Jacopo Quadri; scenografia: Gautam Bose; costumi: Suchismita Dasgupta; interpreti: Adil Hussain (Upin), Samrat Chakrabarti (Ujan), Priyanka Bose (Gangor), Seema Rehmani (Shital), Tillotama Shome (Medha); produzione: Angelo Barbagallo, Vinod Kumar e Isabella Spinelli per Bìbì Film-Isaria Productions- Nirvana Motion Pictures in collaborazione con Rai Cinema; distribuzione: Cinecittà Luce (2011); origine: Italia-India, 2010; durata: 91’. |
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Trama: | Purulia, India. Il fotoreporter indiano Upin viene mandato nel villaggio per raccontare con le sue immagini lo sfruttamento delle tribù. Durante la sua escursione, l'uomo resta incantato di fronte a Gangor, una donna che sta allattando il figlio, e al suo enorme seno. Upin decide di immortalarla con la sua macchina fotografica ma l'immagine di Gangor pubblicata sul giornale desta nel villaggio un enorme scandalo e lei si troverà sola e indifesa contro le violenze dei suoi conterranei. |
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Critica (1): | Il punto di partenza è un romanzo di Mahasweta Devi, la grande scrittrice indiana tra le più combattive attiviste per i diritti delle donne nel suo paese. In particolare per quelle comunità emarginate a cui la protagonista del film, Gangor, appartiene. Ma nella scelta di girare un film in India, e su un soggetto complesso come la violenza sulle donne, che si traduce anche nella violenza sulle parti più deboli della società indiana, e sulla differenza astrale tra le molteplici identità che compongono quel continente, c'è come prima cosa la personale relazione del regista Italo Spinelli con l'India, costruita nel tempo e profondamente, anni di viaggi, studio, contatti, lavoro di diffusione culturale. Spinelli nel 2000 ha fondato a Roma il bel festival Asiatica film mediale, che permette al pubblico italiano di conoscere quanto accade nel cinema indiano. E solo un' intimità di questo tipo, pure nella sua difficoltà, poteva permettere a un cineasta occidentale di avvicinarsi al testo di Dewi, Spinelli è autore della sceneggiatura insieme a Antonio Falduto, e ai luoghi narrati con un occhio rosselliniano e pasoliniano, i riferimenti dichiarati dallo stesso regista, di «verità». L'altrove di Spinelli non è un luogo in cui immergersi per soddisfare la pulsione egotica di «compensazione» dell'Occidente, al contrario è spazio di confronto che porta a mettersi in discussione. Senza dimenticare l'eccentricità del cineasta Spinelli che debuttò molti anni fa – era il 1989 – con Roma-Paris-Barcellona (il protagonista era un giovanissimo Giulio Scarpati), uno dei pochissimi film italiani capaci di guardare l'esperienza della lotta armata in modo diretto, nei paradossi e nelle radici.
«Cos'hai dietro al corsetto, che hai?» è una canzone popolare di un film bollywoodiano, il corsetto fa parte dell'abbigliamento delle donne tribali che portano il busto lasciando scoperta la pancia. È così che si veste anche Gangor, occhi neri di brace – Priyanka Bose, che la interpreta con potenza, è un’attrice e una danzatrice molto nota. Il fotografo Upin, Adil Hussain, inviato nel Bengala occidentale per un reportage sulle donne tribali, ne è subito attratto. La fotografa mentre allatta il suo bambino, seduta insieme alle altre donne, turbato dalla sensualità quasi inconsapevole della ragazza. Gangor appartiene a un'antica etnia tribale, come molte altre è una lavoratrice itinerante: sfruttate, mal pagate, senza conoscenza del bengalese né istruzione, queste donne trasportano mattoni dalla fornace alle strade e ai palazzi in costruzione. La violenza sessuale contro di loro è una pratica costante.
Upin fa parte delle classi alte, metropolitane, occidentalizzate, estranee a quelle realtà. Pubblicare la fotografia della donna e del suo seno è per lui una scelta esteticamente funzionale al suo lavoro. Per Gangor significa invece una condanna mortale. Agli occhi di tutti diviene una prostituta, la insultano, l'aggrediscono, il marito la picchia, il villaggio la caccia. La canzone è l'arma per aggredirla, ripetuta sino a renderla folle. Il suo corpo è merce, ferito, abusato, quando osa denunciare dei poliziotti per stupro inizia l'inferno. L'uomo pian piano è assalito dal senso di colpa, vorrebbe rimediare commettendo soltanto altri errori. Anche se la sua storia e quella di Gangor danno forza al movimento delle altre donne per continuare a combattere.
La parabola dell'intellettuale che nonostante gli strumenti in suo possesso, dimostra di non sapere controllare in alcun modo il rapporto con la realtà, ricorda la condizione di alcuni protagonisti del cinema indiano classico, e militante, come quello di Ghatak. Anche lui, partendo da sé, narrava personaggi di intellettuali che avevano creduto nella rivoluzione, in un cambiamento dell'India, sopraffatti poi dalla sconfitta. E la scelta di lasciarsi andare, di confondersi nella parte più misera della società era quasi un modo per sopportare il fallimento. Non è il caso di Upin, in lui non c'è la fine di un'utopia collettiva, ma la presa di coscienza di una inadeguatezza personale e morale. Che diventa anche, vista la sua professione, una riflessione sui media, sulle immagini, sulla distanza rispetto al soggetto «reale« con cui vengono utilizzate, sulla loro manipolazione in un sistema che le svuota di senso.
Come Upin anche Spinelli lavora con le immagini, ed è occidentale, altrettanto distante dal mondo di Gangor. C'è una sovrapposizione di sguardi, nel senso che Upin è forse il personaggio con cui il regista misura la propria esperienza, nella conflittualità di una relazione con una realtà così distante. Spinelli però a differenza di Upin è consapevole della sua «estraneità», l'assume e la dichiara. Filma dove si ambienta il racconto, nel distretto di Purulia, a sette ore da Calcutta, zona di scontri e di repressione. Ed è raro vedere l'India da tante e inedite angolazioni come qui, ma anche laddove l'essenza della realtà diviene più forte, sappiamo che nessuna immagine è rubata, che tutto è messo in scena. Con rispetto e con passione.
Cristina Piccino, Il Manifesto, 11/3/2011 |
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