Sogno della farfalla (Il)
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Regia: | Bellocchio Marco |
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Cast e credits: |
Soggetto: Massimo Fagioli; sceneggiatura: Massimo Fagioli; fotografia: Yorgos Arvanitis; musiche: Carlo Crivelli; montaggio: Francesca Calvelli; scenografia: Amedeo Fago; interpreti: Bibi Andersson (la madre), Henry Arnold (Carlo), Thierry Blanc (Massimo), Nathalie Boutefeu (Anna), Carla Cassola (la seconda vecchia), Simona Cavallari (la ragazzina), Consuelo Ciatti (l’attrice Natalia), Giusi Frallonardo (attrice), Ketty Fusco (la terza vecchia), Sergio Graziani (vecchio giardiniere), Roberto Herlitzka (il padre), Anita Laurenzi (la prima vecchia), Viviana Natale (l’autostoppista), Aleka Paisi (la pastora), Antonio Pennarella (lo zingaro), Patrizia Punzo (attrice elettrice), Michael Seyfried (il regista); coproduzione: Filmalbatros (Italia) - Waka Film (Suisse) - Pierre Grise Productions (Francia) distribuzione: Istituto Luce; origine: Francia/Italia/Svizzera, 1994; durata: 100’. |
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Trama: | Massimo dall'età di 14 anni ha deciso di interrompere la comunicazione verbale con i suoi simili, non parla. Ora, ventenne, è attore di professione, recita con una splendida voce, ma, fuori dal palcoscenico continua ad arroccarsi nel silenzio. Ci provano in molti, in famiglia e in altri contesti, a distorglierlo dal suo proposito, ma senza risultato... |
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Critica (1): | Il sogno della farfalla è la storia di Massimo, un ragazzo che non parla. A quattordici anni ha rinunciato al linguaggio normale. In realtà Massimo, che al momento della storia ha poco più di vent’anni, non è affatto muto, parla soltanto quando recita, ha una splendida voce, ma fuori dal teatro vive e si rappresenta nel silenzio. Un giorno, un regista lo vede interpretare il Principe di Homburg e ne rimane affascinato. Il regista vuole proporre a Massimo un grande ruolo. Non ottenendo risposta si rivolge al padre di Massimo, professore universitario e insigne archeologo che lo informa della scelta del figlio e gli offre anche una possibile spiegazione: una delusione d’amore... Il regista cambia idea: ora vuol fare uno spettacolo su Massimo, farne un grande personaggio, interpretato da lui stesso. Chiede alla madre di Massimo di scrivere il testo. Dapprima lei esita, poi accetta. Massimo, pur interpretando un personaggio che è lui stesso, è restio a farne un’esperienza autobiografica in senso aneddotico-realistico, come se il personaggio recitante fosse sempre un altro dall’uomo che ha scelto il silenzio. Tutti i personaggi de Il sogno della farfalla tentano in modo diverso di far parlare Massimo per renderlo normale e riportarlo all’eguaglianza del linguaggio verbale, comprensibile a tutti. La "persecuzione" dei normali esplode alla fine del film in un terribile terremoto nell’isola di Creta, dove tutta la famiglia si è riunita attorno al padre, sotto la sua tenda di archeologo. Ma, pur se terribile, il terremoto lascia tutti vivi, come una violenta crisi di follia che passa e apre un varco alla speranza, al cambiamento.
Non si può dire che non abbia idee precise il regista del Sogno della farfalla: il realismo italiano, genuino alle sue origini, è ormai languente o peggio ancora decrepito, ma al forte tessuto emozionale e storico che presiedeva alla sua nascita si è sostituito un pensiero debole, che ha puntualmente servito tutte le banalità e il microminimalismo degli ultimi lustri. Nessuno ha più il coraggio di volare alto, ha scritto Moravia. La medicina sarebbe così per Bellocchio un pensiero. in grado di elaborare anche una nuova immaginazione. Ma in assenza di una cosa che il nostro quadro culturale non può per sua natura produrre, meglio vale allora scegliere il silenzio, o l’inseguimento intenso e musicale di una dimensione concreta e insieme misteriosa, fatta di scaglie oniriche ma anche di una corporeità avvertibile e sessuata.
"Il sogno della farfalla", insomma: entro la cui metafora un giovane che si è trincerato in un’oscura taciturnità sin dall’adolescenza imposta la comunicazione con il solo linguaggio dell’arte. Scelta simbolica, la sua: in conflitto con il bla-bla quotidiano e con l’infinito talk-show edoni-stico-televisivo da cui si è tutti sommersi, ma anche oggettivamente (e per Bellocchio esplicitamente) annientatrice di ogni istanza razionale. Però, scelta fondata sull’apriori di una salvezza individuale che passi per la spinta di una esistenza precaria quanto si vuole, ma anche intimamente vissuta.
L’intuizione bellocchiana, nel mentre che rigetta ogni schiavitù verso uno schema di discorso pratico-concreto, si muove in direzione di una libertà le cui diverse occorrenze vengono elargite accidentalmente. La proclamazione della non validità delle meccaniche freudiane e marxiste, ma anche razionaliste in genere, e di ogni loro sostituzione in termini di fatto speculari (tipo il pensare debole), si affida dunque in fatto ad un mutismo espressivo. Ma un mutismo che pretende di confliggere con l’inespressività attraverso belle immagini e un saltuario albeggiare di moduli stilistici; e che presume di elaborare il simbolico ed il concreto dell’atto estetico sulle suggestioni e in questo caso sulle tendenze normative del neuropsichiatra Massimo Fagioli, che ha sciorinato un soggetto e una sceneggiatura in cui sembra prevalere il luogo comune, il già visto, un fiorire di espressioni flautate e poeticistiche che nella propria perentorietà vorrebbero inglobare quasi l’essenza ritentiva della vita. "Da quando gli uomini hanno iniziato a parlare, è iniziata la fine del mondo", dicono le vecchie attorno al tavolo.
Ne Il sogno della farfalla, non solo la sceneggiatura è fragile, e le parole che in essa sono scritte risibili, talché già restano imbrigliati gli approdi successivi e possibili: ma anche la stessa messinscena, sciolta da una struttura narrativa seguibile, affonda in un terreno indefinibile e gratuito, che al massimo declina il rapporto con se stesso con movimenti di eleganza e quasi di rarefazione danzante, che non avendo un punto di riferimento in termini formali oltreché di contenuto, si impagliano in legature minute e in sedule e leziose dinamiche gestuali (tipo gli inchini graziosi del protagonista e in genere il suo minuettare).
L’esito è arbitrario e sfuggente; affidato più alle intenzioni del regista che non ai risultati. Non c’è un raccordo precisato in termini formali tra l’eterea indistinzione del figurare e raccontare bellocchiano e l’apriori estetico-psicanalitico in cui stanno i personaggi. Né l’accuratezza (comunque relativa) delle immagini filtra per un attimo non si dice le emozioni e i sentimenti, ma il trasalire misterioso di qualcosa che trascende il quotidiano e l’occasionale.
Può essere che l’aver Bellocchio sposato la strada di una estetica non ovvia, indagante nell’inconscio sull’abbrivo di una teoria in sé opinabile ma con la pretesa di una assolutezza quasi ontologica, abbia in sé tali motivi di novità da lasciare spiazzati i molti incolti e sprovveduti. Ma doveva essere appunto il lavoro di scrittura del film, il libero e irregolare avvicendarsi di strofe visive, a farcene edotti. Che così non sia, pare evidente. Da molti anni, Bellocchio scrive in fondo una sorta di diario privato, in cui le ragioni individuali restano legate a una specificità, che s’accontenta di semplicemente darsi e nominarsi, clamidandosi in eleganze criptiche che poco o nulla riescono a comunicare.
L’errore – lo si è detto sino allo spasimo – è nella simbiosi con il partner psicanalitico. Ma esso è anche nella tautologia che il mondo sia così e nulla lo possa cambiare. "Noi siamo vecchie, e sappiamo come va il mondo. Domani sarà come oggi". Onde la generale indistinzione e vanificazione e, in assenza di un pensiero estetico e di un pensiero del mondo, il mero appagamento di una visione i cui tratti consapevoli vengono dati di per sé, apoditticamente e oracolarmente.
L’obiezione avanzata da Bellocchio ai pregiudizi di un modo di sentire ancora freudiano e deterministico ha un suo fondamento, ancorché – sia detto per precisione – dalle rivelazioni e dallo svelamento del viennese il nostro secolo non si sia ancora sciolto. E tuttavia il lavoro della cinepresa, in quel suo tentativo di recare il balsamo del sogno, o almeno di avvicinarlo, pare quasi disegnare una maniera, appena scrostata nella propria opacità da una certa accuratezza formale. Solo a tratti emerge un senso di dolorosa compunzione (grazie al contributo della grande Bìbi Andersson); e solo in parte la levità segnica e ritmica allude a quell’altrove verso cui ci si volge.
La tensione formale si protende invece verso un apriori pacificato, che la lingua del film non dice e che solo le parole dichiarano. Con un didascalismo estetizzante assai compiaciuto di sé e la perdita di forma di quel mondo, in cui pure Bellocchio colloca i suoi personaggi e le loro trame. Insomma, anche il regista resta prigioniero in senso formale (nell’assenza di una voce poetica davvero alternativa) dell’apriori realista. Per questo, invece di essere disvanenti e immateriali, o fatte di materia onirica, le sue immagini sembrano modellare il nulla, o almeno una realtà di sogni e pulsioni i cui confini rimangono negati e coperti.
Gualtiero De Santi, Cineforum n. 335, giugno 1994 |
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| Marco Bellocchio |
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