Capricci - Capricci
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Regia: | Bene Carmelo |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Carmelo Bene dal suo adattamento teatrale di "Arden of Feversham" di anonimo del 600; fotografia: Maurizio Centini; musica: Puccini ("La Bohème"), Ciaikovskij ("Capriccio Italiano"), Verdi ("Macbeth" e "La Traviata"); montaggio: Maurizio Contini; interpreti: Carmelo Bene (il poeta), Anne Wiazemsky (la puttana), Tonino Caputo (Clarke, il pittore), Giovanni Davoli (Arden), Ornella Ferrari (Alice), Giancarlo Fusco (un assassino), Poldo Bendandi (un assassino), Francesco Gulà (Moshie), Manlio Nevrasti (Franklin), Piero Vida (il poliziotto), Michèle Lagneau (la cameriera); produzione: BBB cinematografica (Barcelloni, Bene, Brunet); origine: Italia, 1969; durata: 89'. |
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Trama: | Volendo liberarsi del vecchio marito per un amante altrettanto vecchio, Alice assolda un pittore che dipinge quadri avvelenati, ma si scontra con un pittore che cerca di darsi la morte con la propria amante in incidenti d'auto. Opera dove surreale, e sperimentale si fondono, giocando con tracce dalla “Manon”, e recitando anche pagine da Roland Barthes. |
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Critica (1): | Con Capricci prosegue il processo sistematico di distruzione istituzionale iniziato a tambur battente con Nostra signora dei turchi. In questo caso, trasponendo e rifacendo per lo schermo il Macbeth shakespeariano che già Bene aveva riscritto per il teatro, viene presa di mira la famiglia, luogo primo dell'iniziazione all'oppressione e al potere. La sete di potere di Macbeth è qui ridotta grottescamente alla sete di potere sulla propria giovane moglie da parte di un vecchio laido e ricco che un amico altrettanto vecchio e laido consiglia malignamente pur di conquistare i favori della donna (che ha già per conto suo un amante nei panni di un vecchissimo servitore).
La storia di questo straordinario mènage si svolge parallelamente alle ansie di un poeta che "cerca una sua collocazione". Il denominatore comune è, come detto, il disfacimento, che è materiale, fisico, a specchio di un disfacimento comportamentistico. La vecchiezza dei protagonisti è vecchiezza morale (con quel loro attaccarsi continuo a melense e letterarie espressioni miste a volgarità istintive) che vorrebbe nonostante tutto far sua una giovinezza interiore che non possiede e che verosimilmente non ha mai posseduto. D'altra parte che significa giovinezza interiore? Qualcosa di meglio? In questo caso non è altro che la possibilità di guadagnare situazioni con più facilità e il circolo inesorabilmente si chiude. Il microuniverso familiare, esclusivo, egocentrico è il modello fedele e primo del macrouniverso delle relazioni.
Il senso rabbioso della proprietà nasce e si sviluppa qui, nella famiglia, dalla nascita alla morte, acquista una corazza imperforabile con le pezze ideologiche più retrive, insegna all'uomo a difendere con i denti "ciò che è suo" e a tentare
di conquistare con ogni mezzo ciò che è degli altri. L'amicizia è il veicolo di queste splendide relazioni. L'ottuagenario marito difende la proprietà-moglie con l'ottusa grettezza del massaro arricchito, diffidente e sospettoso di tutti. Il bello è che ha proprio ragione di essere diffidente e sospettoso di tutti, di vedere tradimenti e tranelli ovunque, ma questa è la logica della competitività; non le si può sfuggire; è la logica che porta al disfacimento e al superamento nei fatti di istituzioni obsolete.
Che può fare un poeta in questa situazione? Che può fare un poeta "oggi"? La sua posizione è talmente anacronistica nella divorante società a capitalismo avanzato da far pensare non all'intelletto coltivato, ma alla suprema incoscienza. Certo: può cantare più o meno sommessamente il dolore, può credersi artista e come tale una sorta di profeta del nostro tempo, ma Bene lo mostra soltanto per ciò che è: un istrione, incerto tra la torre d'avorio e il furore iconoclasta. Allora che fa? Va a puttane e cerca la "bella morte".
Chi giudica Carmelo Bene un reazionario intelligente ma pur sempre reazionario, dovrebbe meditare su tutta la sequenza della ricerca della "posa" per la morte dell'eroe, con quella musica melodrammatica che continuamente si interrompe ad ogni cambio di posa per riprendere di nuovo, alternativamente; né tantomeno si legge aspirazione o nostalgia dell'ordine, dell'evidenza, piange di commozione, trascina la sua abissale ignoranza in un pedinamento
farsesco.
Quanto vi era di sarcastico in Nostra signora dei turchi si trasforma spesso in Capricci in humour nero, ma senza che sia perso di vista il controllo sulfureo dell'autoironia, dell'ironia sull'ironia, del recedere continuamente dal "credere troppo" nelle citazioni. Ad un certo punto la moglie del vecchione serve una pantagruelica e macabra cena agli ospiti mentre si ode la lettura di un brano di Roland Barthes (tratto dal libro "Mythologies", dello stesso Barthes) sulla rubrica di cucina di "Elle". Nello stesso istante in cui la frecciata colpisce la raffinata e vuota stampa femminile della media borghesia si ritorce immediatamente su chi l'ha lanciata, sullo stesso Barthes che semiologizza la "cucina d'idee", gli occhi della Garbo e la crociera dei re nel Mediterraneo con la disinvoltura un po' mondana e "nonchalante" dell'intellettuale di grido. Non sono d'accordo neppure con chi giudica i film di Bene "contro" il pubblico. Credo semplicemente che alcune macroscopiche contraddizioni dell'esistenza alle quali la ricorrenza quotidiana ci ha ottusamente assuefatti ci siano altrettanto indigeste, se crudamente presentateci, che le ipercromatiche mense simbolicamente serviteci da Bene. Di questo ci si rende conto con chiarezza al termine del film quando una spettrale e silenziosa caccia alla volpe racchiude il disfacimento sotto costumi inappuntabili e "ordinati", sotto l'apparenza del prestigio sociale più tradizionale.
Mario Abati, Cineforum, n. 104, giugno 1971 |
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Critica (2): | Rispetto a Nostra signora dei turchi, il primo film di Carmelo Bene, Capricci si propone come un’opera di più facile lettura, nonostante vi si continuino ad infrangere, per un fine provocatorio, le consuetudini narrative dello spettacolo di normale consumo. Diminuita è anche la presenza in scena del regista-attore. Resta, tuttavia, come una matrice centrale, l’idea del doppio, che qui si manifesta più vistosamente nella scelta della doppia vicenda (Carmelo Bene, anche in senso culturale, si sente, insieme, cristiano e arabo: e più arabo che cristiano: ciò che spiega, per una certa parte, lo sdoppiamento).
Dopo l’inizio, che intende mandare al diavolo con furia romantica varie correnti artistiche contemporanee (per dire, dalla pittura metafisica al realismo socialista), Capricci prosegue il suo discorso continuando a colpire, più che particolari aspetti del reale, certi modelli di formalizzazione del reale stesso. E, infatti, la prima vicenda (una sorta di non più casta Susanna si destreggia delittuosamente tra ripugnanti vecchioni innamorati, in una situazione da triangolo borghese svergognato) conduce alla dissoluzione un dramma elisabettiano, recitato secondo lo stile di un carrozzone di guitti. La seconda vicenda (due giovani cercano la morte in un clima sanguinolento di incidenti stradali), al contrario, prende le mosse dall’inizio del film Weekend di Godard, per esasperarne il gusto, togliendogli, in pari tempo, il significato di troppo razionale denuncia. In tal modo, l’autore intende mandare a gambe levate sia il teatro vecchio, sia il cinema nuovo, perseguendo l’immagine di una totalità di forme che esige un totale rifiuto, in vista di un’apocalisse barocca autodistruttiva (i cavalieri rossi del finale sono i cavalieri poco eroici, quindi anch’essi ironizzati, di una partita di caccia). L’insistenza con la quale Carmelo Bene, in Nostra signora dei turchi come in Capricci, mette in scena torte, intingoli, mangiari, nella loro condizione sporca o troppo lustra (le fotografie di Elle), può indurre a parlare di una poetica del vomito. Tutta la rappresentazione, infatti, possiede i caratteri del disgusto e, insieme, del senso di liberazione che si accompagnano all’atto della restituzione del cibo, dopo un pasto indigesto o sovrabbondante. Allora, con gesto neroniano, l’autore si caccia un dito in gola e compie l’operazione a dispetto degli ospiti. (A questo punto, si potrebbe porre maliziosamente una domanda: poi, ricomincerà a mangiare in quel modo oppure vedrà di seguire una dieta?)
Intanto, il mescolamento di minestra, pietanza e dolce in un caos dei sapori, presentato per tale, è certamente il prodotto di un rifiuto anarchico. In nome di che cosa? La rappresentazione trova un altro dei suoi modi (un altro doppio) nella mescolanza di immagini ripugnanti e di musiche soavi, in contrasto dissonante. Così, la musica diventa sdolcinatura e l’immagine vede aumentare la propria carica disgustosa (il procedimento fece subito incontrare Carmelo Bene con Kenneth Anger e il cinema sotterraneo americano).
Ma, di fronte ai dissacratori, bisogna sempre pensare che per loro esiste, evidentemente, qualcosa di sacro. A volte lo si trova nel loro discorso stesso, essendo mossa, la dissacrazione, dalla nostalgia di un valore sciupato. Per Carmelo Bene si può dire che a fare le spese di una corruzione intervenuta sono proprio le musiche da melodramma, guastate dall’accostamento con quelle immagini profanatrici. Seguendo un modo di ragionare dell’autore, si potrebbe dire che ci sono cretini a cui piace il melodramma e cretini a cui non piace. A Carmelo Bene il melodramma, in sostanza, piace: perché anche lui, come Fellini, tende a mordersi la coda. Il suo è, quindi, un tipo di dissacrazione tendenzialmente a marcia indietro: il melodramma dell’apocalisse universale a torte in faccia. Infatti, Carmelo Bene, da individualista qual è, parla, infine, di sé in se stesso, restituendoci l’immagine di un uguale, nonostante il doppio che lo lacera: perché, poi, è lo stesso doppio a ricomporlo. Ma noi, senza scomporci, siamo in grado di raccogliere ciò che Carmelo Bene maledice, poiché, spesso, è giustamente maledetto.
Renzo Renzi, in Vent’anni al cinema d’essai, Grafis, Bologna, 1988 |
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