Play Time - Playtime
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Regia: | Tati Jacques |
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Cast e credits: |
Soggetto: Jacques Tati; sceneggiatura: Jacques Tati, Jacques Lagrange; fotografia: Andréas Winding, Jean Badal; musiche: Francis Lemarque, James Campbell - Il tema "Take My Hand" è di David Stein; montaggio: Gérard Pollicand; scenografia: Eugène Roman; costumi: Jacques Cottin; interpreti: Jacques Tati (Monsieur Hulot), Barbara Dennek (Barbara), Rita Maiden (amica di Schultz), France Rumilly (venditrice di occhiali), France Delahalle (compratrice), Valerie Camille (segretaria di M. Luce), Erika Dentzler (Madame Giffard), Nicole Ray (cantante9, Yvette Ducreux (ragazza), Jacqueline Lecomte (amica di Barbara), Billy Kearns (Monsieur Schultz), Tony Andal (ragazzo), Yves Barsacq (amico di Hulot), André Fouché (direttore ristorante), Georges Montant (Monsieur Giffard), John Abbey (Monsieur Lacs), Léon Doyen (il portiere), Jack Gauthier (la guida), Reinhard Kolldehoff (direttore tedesco), Henri Piccoli (signore importante), Gilbert Reeb (cameriere sfortunato); produzione: Specta Films-Jolly Film; distribuzione: Ripley's Film in collaborazione con Viggo; origine: Francia, 1967; durata: 129'. Riedizione: 2016. |
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Trama: | Monsieur Hulot, dopo aver invano tentato di farsi ricevere da uno zelante funzionario, che appare e scompare all'interno di un modernissimo palazzo, visita una piccola mostra campionaria colma di ridicoli oggetti. Incontra, quindi, un ex-commilitone che lo conduce prima a casa propria e, dopo, in un night appena inaugurato dove giunge, contemporaneamente, una comitiva di turiste americane. Nel night accade una serie di piccoli incidenti, accolti da tutti con molta allegria. All'alba, terminata la festa, Hulot ed altri si ritrovano al vicino drugstore per uno spuntino, al termine del quale Hulot regala alla più giovane delle americane un fazzoletto di seta con le più celebri vedute di Parigi. |
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Critica (1): | “Prima di girare film ero un mimo: dovevo riprodurre per la gioia degli spettatori quello che osservavo nella vita. Nel cinema ho portato la stessa tecnica di osservazione del prossimo, copiando la vita, mostrando le piccole assurdità e i tratti tipici dei singoli individui.“
Jacques Tati
"PlayTime non assomiglia a nulla che già esista al cinema. È un film che viene da un altro pianeta, dove i film si girano in maniera diversa. Forse PlayTime è l’Europa del 1968 filmata dal primo cineasta marziano, dal “loro” Louis Lumière? Lui vede quello che noi non vediamo più, sente quello che noi non sentiamo più, gira come noi non facciamo."
François Truffaut |
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Critica (2): | Se c’è un film che esplora il concetto di spazio e di tempo in maniera astratta questo è sicuramente Playtime di Jacques Tati. Una opera sperimentale apparentemente travestita da comica muta, girata in 70 mm e in campi lunghi con più azioni che si svolgono simultaneamente, quasi mai al centro dell’inquadratura. Senza un protagonista, senza una trama, con rari dialoghi alternati a fonemi e borbottii incomprensibili.
Una provocazione da video artista, un quadro di Mondrian dove è facile perdersi seguendo linee e porte di un labirinto perfettamente squadrato. Uno dei più grossi flop della storia del cinema (il tracollo finanziario che ne derivò costrinse il regista francese a vendere persino la propria casa) con un budget di circa 17 milioni di franchi quasi tutti spesi nel ricreare a sud di Parigi la immaginaria cittadina di Tativille. Eppure è proprio questa ambiziosa opera di Tati a rompere tutti i canoni tradizionali e ad essere ponte tra il classico e il moderno. Evidenti i richiami a Chaplin e Keaton ma ancora prima al nume tutelare Max Linder citato apertamente nella scena della rottura della porta a vetri e la conseguente pantomima con maniglia. Non è un caso che Tati abbia ispirato Jerry Lewis e Blake Edwards (Hollywood Party è un omaggio alla seconda parte di Playtime) e in tempi più recenti Wes Anderson (il full frontal surreale), Roy Andersson (il campo lungo che esalta la profondità dell’inquadratura), Aki Kaurismäki (la comicità esaltata dalla geometria degli spazi), David Lynch (il teatro dell’assurdo di Rabbits) e Maurizio Nichetti (Ratataplan).
È vero quello che dice Noel Burch: “Playtime è il primo film nella storia del cinema che non solo deve essere visto parecchie volte, ma deve essere guardato da diverse distanze dallo schermo per potere essere meglio apprezzato”. Insomma una cartina di tornasole che riflette i diversi punti di vista dello spettatore: la prima volta ti annoi, la seconda ti incuriosisci, la terza ti sorprendi, la quarta inizi ad entusiasmarti. Tati è convinto che la bellezza sia lì davanti ai nostri occhi ma noi continuiamo a guardare da un’altra parte, incastrati da ritmi frenetici e dalla convenzioni sociali. La modernità porta al suo interno il germe della solitudine e della disumanizzazione: per tutta la prima parte del film notiamo persone che non si incontrano, non si parlano, non si ascoltano, non riescono nemmeno a vedersi. La sala di un aeroporto sembra un ospedale e Parigi si nota solo in rapidi riflessi sulle vetrate, pochi secondi di Tour Eiffel, di Arco di Trionfo,di Place de la Concorde, di Cattedrale del Sacro Cuore.
Tati prende le distanze da questo mondo automatizzato, fatto di spie luminose, scritte al neon, vetri trasparenti, pavimenti sdrucciolevoli, scale mobili, piante di plastica, ritratti che pendono dalle pareti come in un incubo. Playtime diventa un film di fantascienza antropologica in cui il personaggio di Monsieur Hulot perde tutti i riferimenti spaziali e temporali, fino a diventare elemento disarticolato e lateralizzato, figura di contorno, comparsa insignificante. Proprio nella seconda parte, quella che si svolge al ristorante Royal Garden, Hulot abbandona la propria centralità volatilizzandosi nella folla danzante al ritmo swing-jazz anni 60, fino a quando crollano i pezzi dell’architettura modernista. Rivoluzionario è anche l’uso del colore, prevalentemente algido e uniforme a richiamare l’estetica cromatica anonima di luoghi pubblici alienanti: unica eccezione è il negozio della fioraia il cui angolo retrò variopinto si erge solitario contro l’acciaio e il vetro della modernità. Il rumore di fondo copre ogni altro significato e i personaggi perdono il senso delle loro azioni, ora automatiche, ora ripetitive, quasi ipnotizzanti. Le macchine girano in tondo come in una giostra infinita, gli appartamenti sono set cinematografici in cui tutto è manifesto in maniera così palese da risultare falso. Il suono si fa immagine e ogni rumore in scena sembra provenire da questa asincronia tra il soggetto e l’ambiente che lo circonda.
Tati ridisegna i confini dell’immaginario urbano e si inventa una “persona cinematica” che vaga in maniera entropicamente svantaggiosa alimentando il caos e la confusione. Intervistato su questo vagare peripatetico di Hulot, Tati rispose che i suoi movimenti ricordavano quelli dei cani, che spesso esplorano l’ambiente con direzioni non finalizzate: davvero la freccia del tempo si è spezzata e non esistono più traiettorie definite. La risposta all’architettura ottimista modernista di Le Corbusier e Bauhaus è la creazione di una figura comica sovversiva che lascia alla macchina da presa la coscienza giudicante. Il comico diventa di per sé una critica alla modernità, una accusa all’utile come grande idolo del tempo, uno sberleffo alla maniera d’essere di un’epoca.
Fabio Fulfaro, sentieriselvaggi.it, 13/6/2016 |
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Critica (3): | Diceva Tati, in una bellissima intervista di Jean-André Fieschi e Jean Narboni, «Cahiers du cinéma» n. 199, marzo 1968: «Playtime è il contrario di un film letterario, è piuttosto scritto come un balletto. È scritto in immagini. Lo disegno (maluccio), mi racconto la storia per immagini, la costruzione narrativa deriva da questa visione. Conosco il film a memoria e sul set non guardo mai la sceneggiatura». Regia come direzione d’orchestra. Riprese come esecuzione di una partitura già scritta, anzi disegnata. Partitura in minore per figurine, apparizioni, gesti, suoni, rumori. Soprattutto rumori. Tantissimi: di scarpe e tacchi, poltrone (sscciaff), porte, automobili, pulsanti. Rumori di ogni cosa che fa rumore. E silenzi: dialoghi non sentiti dietro i vetri, porte insonorizzate che non sbattono, una severa signora in abito lungo che scivola nello spazio senza un fruscio.
Playtime è una partitura dodecafonica dove ogni nota e ogni silenzio hanno lo stesso valore. Un’immagine in trasparenza di là di un vetro, un vuoto o una presenza, suoni, schiocchi, bisbigli, scalpiccii: tutto allo stesso livello, niente privilegi, nessuna componente messa in rilievo, neppure la figura di Hulot. Un film dodecacomico, dove la comicità non ha una intonazione prevalente e le gag, non organizzate su una scala melodica, vengono fatte scivolar via, come svanissero senza lasciare tracce evidenti, per magari riaffacciarsi più in là, riscomparire, tornare.
Di film in film, Tati è andato progredendo verso rappresentazioni sempre più geometriche e astratte: senza mai abbandonare la naturale vocazione a conservarsi pur perdendosi e naufragando nel mondo, senza mai rinunciare alla voglia di turbolenze salvifiche, come nella liberatoria baraonda al Royal Garden, dove tutti possono ritrovare, dice Tati, «il gusto della vita». Esilissimo il filo narrativo, fondamentale il ruolo dello spazio globale e di ogni spazio particolare, popolati tutti gli spazi da una folla di personaggi ognuno con un compito, fosse anche soltanto quello di passare di lì, Playtime diventa un iperbolico meccanismo di accordi e raccordi, notazioni e note che si richiamano da lontano, da una zona a un’altra o all’interno di una stessa inquadratura.
Playtime si fonda sulla fisica dell’entanglement, sul misterioso rapporto che lega una particella atomica a un’altra gemella ma distante anni luce. Cose e persone si influenzano secondo regole misteriose e leggi sconosciute. La comicità del film è dispersa: sorge da ogni dove; è compatta: occupa ogni spazio; è molto discreta: nel senso comune della parola, cioè cauta, misurata, spesso invisibile, e nel senso con cui i fisici usano l’aggettivo discreto, cioè a indicare una serie composta da un insieme di elementi isolati, non contigui fra loro. Playtime è esperimento di perfezione costruttiva e maniacalità miniaturistica. È caparbiamente solido e felicemente fragile proprio come Tati che si muove sulle punte dei piedi tra vetri che ci sono e non si vedono e vetri che non ci sono e sembrano esserci.
In questo organismo troppo perfetto e troppo insolito, troppo pieno e troppo vuoto, ognuno può affezionarsi a un dettaglio, dieci minuzie, cento sfumature. E ogni particolare sta a indicare il tutto, come in quella mirabile inquadratura in cui il gesto del cameriere, in secondo piano, che spalma la colla sul pavimento del ristorante per rimettere a posto una piastrella, corrisponde esattamente al gesto di un altro cameriere, in primo piano, che sta spalmando la salsa sul rombo, pesce che continuerà a essere spalmato da un cameriere dopo l’altro senza mai essere servito e mangiato.
E l’aereo che si squaglia per il caldo, e il bidone a forma di colonna dorica, e l’asta dell’abat-jour in autobus? Un film inesauribile.
Bruno Fornara, cineforum.it. 13/6/2016 |
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Critica (4): | |
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