Aguirre, furore di Dio - Aguirre, Der Zorn Gottes
| | | | | | |
Regia: | Herzog Werner |
|
Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Francisco Joan, Orlando Macchiavello, Thomas Mauch; musiche: Popol Vuh; montaggio: Beate Jellinghaus Mainka; interpreti: Peter Berling (Guzman), Daniel Ades (Perucho), Ruy Guerra (Ursua), Klaus Kinski (Don Lope de Aguirre), Armando Polanah (Armando), Cecilia Rivera (Flores), Helena Rojo (Inez de Atienza), Helena Rojo Del Negro (Carvajal), Edward Roland (Ocello); produzione: Warner Herzog, Filmproduktion (Monaco)-Hessischer Rundfunk (Francoforte); distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Germania, 1972; durata: 90'. |
|
Trama: | La notizia di un territorio ricchissimo d'oro per conseguenza battezzato anticipatamente con il nome di El Dorado – induce Gonzalo Pizarro, fratello di Francisco, ad inviare una spedizione di conquista oltre le Ande. Il comando viene affidato a Don Pedro de Ursua; suo vice è Don Lope de Aguirre. Partita alla fine del 1560, la spedizione si trova ben presto in difficoltà dovute alla ostilità della natura e alla guerriglia feroce condotta da invisibili indios. Approfittando dei momenti di demoralizzazione, Aguirre fa destituire e poi uccidere Don Pedro e ottiene una dichiarazione collegiale di ribellione a Filippo II di Castiglia. Pazzo, senza più un uomo o una donna, il sedicente Furore di Dio muore alla fine del febbraio 1561, chiudendo tragicamente l'assurda conquista. |
|
Critica (1): | È il tema della rivolta del singolo in Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes, 1971/72) prende nuovo vigore dalla storia della follia di don Lope de Aguirre e della sua spedizione alla ricerca dell'Eldorado. La non-normalità di Aguirre viene subito presentata come tale, senza nessun "ma" che ne sminuisca la folle virulenza, e soprattutto perchè messa a confronto fin dall'inizio con la razionalità di Pedro de Ursua: una scelta perdente, ma che all'interno di un universo dove per affermare la propria individualità si può solo autoesaltare il proprio io, ci sembra dotata di una sua ragione. Perchè Aguirre non fa altro che vivere fino in fondo la propria figura di conquistador che, spogliata dei riferimenti storiografici, è una delle tante incarnazioni possibili del desiderio umano di sentirsi vivere. Vitalismo destinato ad autodistruggersi senza alternative (la suggestiva "carrellata" circolare finale) davanti al silenzio di un mondo ostile, ma che è anche l'unica tragica possibilità di sapersi vivo di chi non vuol ridursi immobilismo dei discorsi prudenti o rinunciatari.
(Ci sembra fuori luogo qualsiasi apprezzamento sulla mancanza di un possibile portatore di alternative a questa opposizione mortifera singolo/gruppo che Herzog non vede nè nel passato nè nella Germania di oggi: esistono gli indios, i vari Hombrecito di ogni tempo, ma a loro non resta che sopportare in silenzio la situazione di esclusi o forse gioire sulle rovine fatte della loro distruzione, come i nani). La tensione che unifica il film è proprio questa negatività, questo rifiuto cosciente da parte del regista di vedere una possibile via d'uscita tra l'azione del ribelle individuale o la certezza narcotizzante del gruppo, e l'aver dichiarato Fernando de Guzman imperatore in alternativa a quello di Spagna è la dimostrazione di questa spirale senza inizio che lega indissolubilmente il ribelle all'oggetto della sua ribellione per trascinarlo verso la morte.
In Aguirre esiste un personaggio ideologizzante, il frate, ma dare eccessivo peso al suo ruolo non ci sembra giusto: il film non è metafora dell'imperialismo (anche se a Herzog non sfugge questo lato) ma il racconto dell'avventura di un uomo che si pone in modo contraddittorio con la realtà: il film è su Aguirre e Klaus Kinski lo riempie splendidamente, perchè è lui il polo intorno a cui gravitano e vengono attirati tutti gli altri fattori. Naturalmente non è senza ragione che Werner Herzog abbia situato la storia durante la conquista spagnola dell'America e che il protagonista sia un conquistador perchè in quel periodo il fascino dell'azione attraverso cui si era tentati di dar vigore al proprio io aveva maggiori possibilità di affermazione, ma tutta la parte strettamente storica del film (quella appunto che dovrebbe permettere di parlare di critica o illustrazione dell'imperialismo) è completamente falsa: è inventata da Herzog la cronaca di padre Gaspar de Carvajal che scandisce cronologicamente la spedizione (per altro unico riferimento temporale in un film che sembra svolgersi fuori dal tempo) come frutto della fantasia del regista è la suggestiva ipotesi che Eldorado fosse una inesistente chimera inventata dagli indios per spingere verso la morte gli europei. Aguirre diventa così esclusivamente un itinerario di violenza che vuole essere riflessione sulla realtà dell'individuo. Se in tutto il film può esistere una alternativa, più immaginata che possibile, quella è la natura, come fatto reale che circonda e avviluppa la spedizione: il verde della foresta, l'azzurro del cielo e del fiume riempiono lo schermo con la loro bellezza (i paesaggi nel cinema di Herzog non sono mai sfondo ma veri e propri termini di riferimento per gli uomini) a mostrare un mondo dove non esistono contraddizioni, ma che forse è chiuso per sempre alle persone.
È dalla foresta che escono misteriosamente le frecce che uccidono, ed è sempre nella foresta che sparisce Inez de Atienza (le donne qui come nel mondo di Kaspar Hauser hanno sempre un posto privilegiato, di grazia e bontà) perchè è la natura la vera antagonista di Aguirre, che distrugge la sua energia, e lo porta alla morte. (…)
A questo punto mi sembra chiara la germanicità delle opere di Werner Herzog, che in altre parole è il suo modo di porsi di fronte alla realtà contemporanea del suo paese: non è certo nel troppo fragile segno di uguaglianza messo da alcuni tra la spedizione dei conquistadores e il nazismo, ma molto più profondamente nella ricerca delle coordinate di una cultura che opprime e da cui non si sa liberare. Da una parte cultura come eccitazione vitale dello spirito, fascino dell'azione che porta Aguirre ad identificarsi con la collera di Dio, segni di vita che spingono le persone ad agire per trovare una loro ragione di esistenza (…). Solo che la disillusione di Werner Herzog non riesce ad immaginare la ribellione finale, ma solo la morte di tutti coloro che hanno potuto solo considerare "gli uomini come dei lupi e la loro apparizione nel mondo come una caduta brutale".
Paolo Mereghetti, Cineforum n. 155, 6/1976 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|