Su Re
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Regia: | Columbu Giovanni |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Giovanni Columbu, Michele Columbu; fotografia: Massimo Foletti, Uliano Lucas, Francisco Della Chiesa, Leone Orfeo; montaggio: Giovanni Columbu; scenografia: Sandro Asara; costumi: Stefania Grilli, Elisabetta Montaldo, Teatro Lirico di Cagliari (collaborazione); suono: Marco Fiumara, Enrico Medri, Andrea Sileo,Elvio Melas; interpreti: Fiorenzo Mattu (Gesù), Pietrina Menneas (Maria), Tonino Murgia (Caifa), Paolo Pillonca (Pilato), Antonio Forma (Giuda), Luca Todde (Pietro), Giovanni Frau (Giovanni), Bruno Petretto (Giuseppe di Arimatea), Ignazio Pani (ladrone), Carlo Sannais (ladrone); produzione: Giovanni Columbu per Luches Film in collaborazione con Rai Cinema, con il contributo della Regione Autonoma della Sardegna; distribuzione: Sacher Distribuzione; origine: Italia, 2012; durata: 80’. |
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Trama: | Le ultime dodici ore di Gesù tradito da Giuda, rinnegato da Pietro, processato (e flagellato) dai gaglioffi del Tempio, condannato dal popolo e pianto da Maria, che lo ricompone nel sepolcro. Ultima cena prima della comparizione davanti a Caifa e a Pilato e della Passione che lo "passerà da questo mondo al Padre". Condotto sulle pietre di Supramonte, Gesù verrà impietosamente 'conficcato' alla croce tra il clamore dei suoi avversari e il silenzio compianto delle donne. La sete spenta con aceto cede all'ultimo respiro e al sospiro scosso della terra, che trema prima di ritrovare Cristo e la luce. |
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Critica (1): | E poi arriva come dal nulla un film italiano che dimostra che un altro cinema è possibile.
Un film che arriva da una parte dimenticata del paese. Dove non ci sono angosce sentimentali da liceali. Né famigliole alto-borghesi radical-chic alle prese con le crisi dei primi 40 anni. Dove non si parla il solito italiano omogeneizzato da trent’anni di pessima televisione. Un film che ignora olimpicamente tutte – TUTTE – le convenzioni del cosiddetto cinema “ben fatto” da regime duopolio-generalista che ha devastato immaginario e linguaggio. Un film che opera un violentissimo scavalcamento di campo come non se ne vedeva dai tempi di Ciprì & Maresco.
Su Re di Giovanni Columbu squarcia la banalità del cinema italiano, quello che si vede nelle sale e non solo e che si continua a fare come in un fermo immagine fuori dalla storia.
Una dichiarazione di discontinuità impressionante. Una sorta di supremo urlo primordiale che ci riconcilia violentemente (ossimoro voluto) con le ragioni del fare cinema come strumento privilegiato per indagare le ragioni del nostro esserci.
Un “NO!” bello e necessario, insomma.
Su Re è un film strappato alle viscere di questo paese ambientato fra le pietre della Sardegna che risuona d’una lingua durissima e aspra.
Una contraddizione scioccante in un paese dimentico delle proprie lingue e felice della propria catastrofe borghese.
Senza contare che Giovanni Columbu, invece, osa iniziare Su Re con quella che a tutti gli effetti, stando alla grammatica maggioritaria, è un’inquadratura “sbagliata”.
Un’inquadratura che sembra fatta da un operatore mentre stava per rovinare fra le rocce. Una scelta di campo che, a nostro avviso, avvicina il film di Columbu allo straordinario Leviathan della coppia Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, uno dei film che insieme a Twixt di Francis Ford Coppola, Tabù di Miguel Gomes e Holy Motors di Leos Carax ha riposizionato la barra del cinema contemporaneo verso una modalità di pensiero complessa e aperta.
Nonostante il cinema italiano vanti opere importanti che hanno portato sullo schermo la vita e la passione di Cristo – da Christus di Giulio Antamoro (1916) a Il vangelo Secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini – Su Re si segnala come un lavoro di rara audacia formale attraversato da una commozione vera e altissima.
Columbu decostruisce la linearità narrativa della vicenda cristica. Come un incubo che s’avvolge su stesso, il regista pone al centro del suo film il mistero della crocifissione. Intorno a esso, come in un sogno continuamente interrotto che scorre su un nastro di Escher difettoso, brandelli della vita di Cristo sono posti costantemente in relazione con la morte sulla croce. La croce dunque come interrogativo ineludibile della vicenda terrena di Cristo.
Giovanni Columbu filma con una furia inebriata eppure controllata. La macchina a mano si muove come calata in un vortice di violenza impedendo allo spettatore di darsi qualsiasi punto di riferimento per orientarsi.
Le inquadrature di Su Re sembrano brandelli di spazio conquistati a fatica al resto del mondo e della vita. Come se il cinema non avesse (più) diritto di cittadinanza nel mondo e dovesse riconquistare il proprio posto strappandolo con le unghie.
Rispetto a Totò che visse due volte, opera dal nitore dreyeriano vicina al film di Columbu per la scelta del dialetto, degli interpreti non professionisti e degli ambienti naturali, Su Re spezza qualsiasi riconoscibilità cinefila. Anche i pur evidenti riferimenti pittorici sono come gettati nel mucchio senza alcuna preoccupazione che lo spettatore li possa riconoscere o meno. Anche se ovviamente Bosch e Brughel sono presenti nei lineamenti degli interpreti, nel paesaggio e nella composizione dei corpi in relazione alla profondità di campo.
Ciò che conta nel film di Columbu è il lavoro della macchina da presa, instancabile nella sua violenza dionisiaca, e il montaggio che interviene con ulteriore violenza sul girato già di suo vertiginoso.
Rispetto per esempio a un film importante come Il canto degli uccelli di Albert Serra, Columbu non cerca mai volutamente l’immagine lirica o evocativa. Tutte le inquadrature sono tagliate e montate in spregio a qualsiasi ottica di linearità. Nessun attacco è rispettato e la profondità di campo si gioca sempre contro il più bruciante dei primi piani o dettagli.
Come se il mistero di Cristo non potesse essere detto che da una voce o lingua che rinunci prima di tutto a essere lingua o voce per diventare altro da se e ritrovare così (forse) Cristo nell’esilio e nella distanza dal mondo. Diventare irriconoscibili e inconoscibili a se stessi e al mondo per andare incontro al mistero della Salvazione. Andargli incontro privi di tutto.
Che questo interrogativo sia formulato e detto da Columbu attraverso i soli mezzi del lavoro cinematografico è forse il merito maggiore del film che in questo si apre allo sguardo senza anteporre alla fruizione necessariamente le clausole del discorso confessionale.
Su Re dunque è un film importante e che resterà. L’opera di un regista forte e singolare che ci ricorda tutto ciò che il nostro cinema non è più.
Giona A. Nazzaro, MicroMega, 29/3/2013 |
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Critica (2): | Una terra meravigliosa e profondamente cinematografica, la Sardegna. Che si consegna da sempre, generosa e ostica, alle visioni di registi, e che dà i natali a cineasti regolarmente sottovalutati, e che – si pensi solo alle Isole del Cinema, da La Maddalena con La valigia dell'attore fino a Tavolara – ha molti momenti di riflessione e di diffusione della Settima Arte. Inutile dire che, pur essendo così centrale nell'immaginario cinematografico e così attenta alle sue evoluzioni, viene tenuta ai margini della sua produzione. Eppure da qui vengono spessissimo impulsi interessanti, innovatiti, audaci.
Si pensi, ad esempio, à un lungometraggio che ha trovato il consenso di pubblico e critica al Torino Film Fest e che ora – sia pure in poche sale – trova spazio anche nella distribuzione nei cinema: Su Re. Giovanni Columbu, già autore dell'ottimo Arcipelaghi, ha pensato bene di porre in atto e in scena, nella sua terra, la Passione di Cristo. Un pensiero stupendo e folle, se si pensa alla vigliaccheria del cinema nostrano di questi ultimi anni, un'industria convinta che si debba continuare a produrre prodotti di successo, ma superati, per rimanere in vita. Un ragionamento assurdo: come se la Sony e la Phillips per paura di fallire – ed è successo a entrambe (di fallire una mossa, non di avere paura di farlo) – fossero rimaste al videoregistratore in questi tempi di blu-ray.
Columbu ha capito che dall'apparato quasi ministeriale delle produzioni consolidate poteva trarre poco vantaggio e ancora meno dai modelli di narrazione consunti di questi tempi. Così, senza paura, ha portato l'immortale nella terribile e magnifica aridità di una brulla Sardegna, quella del nuorese e quella di Monte Maccione. Ma Columbu ci porta allo stesso tempo fuori dall'isola, dal tempo e dalle icone, ci riconsegna alle visioni dei pittori fiamminghi, con la brutalità e la barbarie dei vessatori di Cristo, con l'umanissima sofferenza e normalità dell'attore Fiorenzo Mattu, che non ha con sé capelli fluenti e sguardo mistico e perso all'orizzonte, né ha l'avvenenza divina che siamo abituati a riconoscergli. No, Mattu è un Cristo brutto, sporco e incattivito, Columbu strappa dai quattro vangeli tutta la mortalità del racconto religioso e storico, riconsegnando l'immortalità solo al momento del martirio fisico e finale. E non morboso, pornografico, come quello di Mel Gibson, che cercava attenzione con l'ossessività della ferita, della piaga, dello strazio della carne. Qui la frsicità è più complessiva, riguarda tutti e allo stesso tempo il solo protagonista. Il dolore e la sofferenza sembrano pervadere la terra, la folla, il crocifiggendo in un vento di passione e disperazione che spira su quelle rocce, su quei visi scolpiti, crudeli e unici. Non c'è la centralità dell'eletto, ma la comunità dei disperati: tanto che il Gesù di Columbu sembra perdere lui stesso la fiducia nella sua natura divina, sembra volersi ancorare a quella sua umanità che il regista vuole tirare fuori continuamente. C'è molto Pasolini e persino Scorsese (quello de L'ultima tentazione di Cristo), c'è la voglia di trovare un linguaggio artistico e spirituale antico per rompere gli schemi della comunicazione attuale. Come Guido Chiesa in Io sono con te, poi, ci presenta un Cristo diverso, bisognoso degli altri: lui è salvifico per gli altri, quanto gli altri lo sono per lui. Pur in un'ottica e in un'estetica quasi opposte e nella totale inconsapevolezza delle parti.
Columbu gira con rigore ma non senza un ottimo istinto e ci pianta pugni nello stomaco e chiodi ovunque: quella croce pesa su chi guarda, non solo su chi recita, ha il potere di far sentire sullo stesso piano atei e religiosi. I primi non possono non fare i conti con l'elemento trascendente che hanno e spesso negano, i secondi non riusciranno a non intuirne tutta la materialità e la fisicità. Questa doppia natura, mai contraddittoria ma sempre parallela, è ben definita - e in questo pure non si discosta dal film di Chiesa – dalla narrazione circolare, che inizia e si conclude sulla figura di Maria, madre ben prima che Madonna.
Il cineasta sardo non vuole rompere l'affiato spirituale dell'evento, ma il mito che vi è attorno. Vuole sporcarlo di fango, vuole renderlo nostro. Non a caso in tempi così difficili decide di non dare il respiro della redenzione al racconto, ma solo quello del sacrificio. Si focalizza sulle ultime 12 ore del Messia, quelle della deformità del fisico (dove per deformità va intesa anche la sostanza etimologica della parola, "forma di dio"), quelle del tradimento, delle lacrime, dello strazio del corpo e dell'anima. Quelle in cui si trova venduto da Giuda, oggetto dell'opportunismo politico di Pilato, ignorato dal prediletto Pietro e, alla fine, anche abbandonato dal Padre. Fosse solo per quegli attimi in cui Gesù gli chiede perché l'ha abbandonato. Non c'è catarsi, se non quella del travaglio fisico. E Columbu lo mostra con semplicità visiva e narrativa che non negano la complessità dell'universo che coinvolge con una storia così importante, simbolica, seminale per le nostre culture. E lo destruttura nei sentimenti più umani di tutti quelli rappresentati: la rivalsa, la vendetta, l'astio, l'invidia. Ovvero ciò che vediamo negli occhi di chi affolla le tappe di questa Via Crucis e che è ravvisabile persino nella curiosità –coincidenza (o forse no) per cui Mattu era stato scelto per fare l'Iscariota e solo in seguito è divenuto Cristo. Destino inevitabile, perché la spiritualità, che qui sembra assente, si trova proprio nelle più umane bassezze, nel Giuda in ognuno di noi: quel Gesù brutto, isolato, incompreso è visibile, nella sua grandezza e bellezza, solo ai puri di cuore.
Boris Sollazzo, Altri, 29/3/2013 |
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Critica (3): | Il Golgota di Su Re sono le terre di Sardegna, un paesaggio roccioso, quasi accecante, brullo, dove tra il suono del vento, e il rumore delle nuvole vagano figure scure. Uomini e donne quasi immobili, carnefici e spettatori, i volti in attesa davanti alle tre croci issate sulla montagna. È lì che sta morendo Cristo, accusato e condannato al martirio, vilipeso e tradito anche dai suoi discepoli, accarezzato dallo sguardo doloroso della Madre che lo accompagna con le lacrime nella sofferenza. Su di lei si ferma la macchina da presa, quasi a cercare in quegli occhi stanchi la dolcezza possibile del mistero. Nella sua «traduzione» della passione di Cristo, Giovanni Columbu aveva pensato all'inizio di lavorare sui quattro Vangeli, mettendo a confronto un po' come accade in Rashomon di Kurosawa, in diversi punti di vista che esprimono nel racconto dei patimenti di Gesù. Il progetto però non ha funzionato, anche se il film mantiene una narrazione aperta, più vicina all'idea di un sogno collettivo che a un racconto lineare. E in questo sembra guardare a quelle traduzioni popolari che coinvolgono un intero paese, una forma di ritualità codificata e insieme mutevole: nelle facce, nella lingua, il sardo, nel cortocircuito tra una dimensione fuori del tempo e l'attuale.
Il suo Cristo bruno non è quello delle iconografie a cui siamo abituati, non ha i capelli biondi di un Jesus Christ Superstar, così come i soldati romani e la gente intorno non somiglia, no ai personaggi dei peplum. E piuttosto un'immagine «primitiva» che persegue Columbu, vicina ai luoghi e al tempo della Storia ma atemporale, che nell'universalità di questo rito collettivo cerca gli scarti di possibile sentimento contemporaneo. E alla bellezza di una secolare iconografia prova a contrapporre qualcos'altro, quella sacralità appunto che è tutta interiore, che si può solo intuire in chi, come dice la profezia di Isaia, «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi». Filmare l'invisibile, e il sacro, sembra questo il movimento a cui tende la ricerca di Columbu. Eppure c'è qualcosa che stride nel suo paesaggio rispetto alla dichiarazione di poetica del film punteggiata da molti rimandi, da Pasolini a Bresson (la sequenza dell'impiccagione di Giuda fa pensare a Mouchette). Qualcuno ha paragonato i personaggi di Su Re anche alle visioni di Ciprì e Maresco, ma lì nei corpi sgraziati di un tempo dopo l'apocalisse l'essenza «sacra» di uomini svuotati delle loro umanità era messa a nudo con violenza. Qui permane invece l'impressione di un percorso i cui diversi passaggi sembrano rispondere a una certa programmaticità. Se però la sacralità è un sussurro ineffabile più che una dichiarazione di intenti, la bellezza dell'orizzonte di Columbu accompagnata dalla musica di Arvo Pärt rischia di rimanere muta, o troppo «piena» per emozionare.
Cristina Piccino, il manifesto, 4/4/2013 |
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Critica (4): | |
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