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Critica (1): | L'alfabeto di Peter Greenaway
(The Greenaway Alphabet)
Saskia Boddeke
Soggetto: Saskia Boddeke; sceneggiatura: Saskia Boddeke; fotografia: Ruzbeh Babol, Saskia Boddeke, Ander Snoep; musiche: Luca D'Alberto, Borut Krzisnik; montaggio: Gys Zevenbergen; suono: Mark Wessner, Gaby de Haan; interpreti: Peter Greenaway, Pip Greenaway, Saskia Boddeke; produzione: Julia Emmering per Beeld; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Olanda, 2017; durata: 68'.
Le fascinazioni del regista Peter Greenaway, il cui motto è "l'arte è la vita e la vita è arte", vengono catturate come farfalle e disposte in un alfabeto, come se 'autore fosse un enciclopedista. Nelle conversazioni con la perspicace figlia, la sedicenne Zoë, si scopre tutto ciò che Greenaway è, cosa ha fatto e perché.
"La vita è arte e l'arte è vita". Questo il motto di Peter Greenaway, filmmaker fra i più eclettici del cinema contemporaneo. Partendo da questa premessa Saskia Boddeke, artista multimediale nonché moglie del regista, fa incursione nella mente del marito. La creatività di Greenaway è incorniciata in una conversazione con la figlia adolescente Pip, che in un dialogo ricco d'ironia mette in ordine alfabetico i punti salienti della vita del padre. "A come Amsterdam", dice Mister Greenaway, ma anche "A come Autismo", lo incalza Pip. Le domande della figlia lo colpiscono dritte al cuore, permettendo alla moglie di trarne un ritratto unico nel suo genere: quello di un visionario, sì, ma soprattutto di un uomo e della sua battaglia contro il tempo.
cinematografo.it
(…) Non un documentario, ma la “testimonianza poetica” sul lavoro di un artista e sul rapporto con sua figlia. Così Saskia Boddeke definisce il suo film presentato (...) al Biografilm di Bologna e dedicato al marito Peter Greenaway, artista d’avanguardia, pittore e regista tra i più eclettici e provocatori del cinema contemporaneo. Un ritratto pieno d’amore e ammirazione, ma anche ironia, dal titolo The Greenaway Alphabet, che a partire da una ossessione di Peter, quella per le catalogazioni enciclopediche, utilizza le lettere per affrontare alcuni tra i temi più cari all’autore, ma anche più comprensibili per la figlia della coppia, Pip, coinvolta in questo progetto dai 13 ai 17 anni. A come Amsterdam, dunque, la città in cui Greenaway vive dopo oltre 30 anni spesi a Londra, ma anche come « autismo » , dice Pip, che ha ormai imparato a fare i conti con quel padre di certo affettuoso, ma decisamente fuori dal comune. B come “ birds”, uccelli, la passione del padre dell’artista con il quale Peter aveva rapporti piuttosto conflittuali. C come “children”, figli, un tema che mette visibilmente in crisi Greenaway.
Pip lo incalza fino a metterlo a disagio: perché dopo la fine del primo matrimonio non ha più avuto rapporti con i suoi figli? Non ha voglia di conoscere i suoi nipotini? Accadrà la stessa cosa anche a lei, sarà abbandonata dal padre? D’altra parte Greenaway aveva provocatoriamente annunciato, durante un’intervista, la sua voglia di togliersi la vita a 80 anni. «Farò in modo che arrivato quel momento lui sia ancora in circolazione» dice la ragazza, che di certo sa come interpretare le provocazioni del padre 75enne. D come “death”, morte, che nel film è collegata all’acqua, la cosa di cui Greenaway ha più paura. E via così, fino alla G come Greenaway, dopo la quale la struttura compilatoria del film si spezza per lasciare spazio a una maggiore libertà di racconto. Le domande di Pip sembrano le uniche capaci di perforare la corazza di un intellettuale che non abbiamo mai visto così da vicino e di far emergere, dietro l’artista, l’anima di un uomo messo a nudo, che fa i conti con la paternità, la propria eredità artistica e il tempo che passa. Il confronto tra generazioni che diventa il confronto tra due artisti.
«Non lasciare che la verità ostacoli una buona storia» ammonisce Greenaway. E infatti la regista chiarisce: «Non si tratta di un documentario, anche perché il montaggio per definizione richiede un intervento sulla realtà e quindi manipolazione». «Ho realizzato il film – continua – per rendere omaggio al legame speciale tra Peter e Pip e per esprimere l’amore che ho per mio marito e per mia figlia. Sarà un regalo per il futuro, quando Pip potrà finalmente capire appieno l’opera di suo padre. Non avevo poi alcuna intenzione di realizzare un film su un addio, anche se così sembrerebbe».
Si commuove, Saskia, ricordando l’insana intenzione provocatoriamente adombrata da Peter scoccati gli 80 anni. Ma il marito, intenerito, le sorride e le dice: «Non preoccuparti, non ti lascerò sola». I temi scelti sono quelli più adatti a un’adolescente come Pip che ha già dato prova del suo talento nel mondo dell’arte – ad esempio il ruolo del drammaturgo, l’esistenza degli storici, ma non della Storia – ma è la ragazza stessa ad elaborare le proprie domande al padre. «L’acqua ad esempio – dice la Boddeke – è un elemento che li accomuna: Peter la teme, Pip la adora e nel film diventa anche la metafora dell’arte che passando di padre in figlia assumerà una forma diversa. Per il momento lei è l’unica persona in grado di scalfire le certezze di Peter. Coinvolgerla in questo progetto durato tre anni è stato come costringerla ad amarci ancora una volta, ma ora lei è pronta a lasciare la nostra casa e a spiccare il volo».
E a proposito del metodo di lavoro aggiunge: «Ho scelto di abbandonare il sistema chiuso dell’alfabeto perché il mio modo di creare è più associativo che compilativo e volevo essere libera di raccontare la mia storia».(…)
Alessandra De Luca, avvenire.it, 17/6/2019 |
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