Illégal - Illégal
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Regia: | Masset-Depasse Olivier |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Olivier Masset-Depasse; fotografia: Tommaso Fiorilli; musiche: Lingo, André Dziezuk, Marc Mergen; montaggio: Damien Keyeux; scenografia: Patrick Dechesne, Alain-Pascal Housiaux; costumi: Magdalena Labuz; interpreti: Anne Coesens (Tania), Essé Lawson (Aïssa), Gabriela Perez (Maria), Alexandre Gontcharov (Ivan), Christelle Cornil (Lieve), Olga Zhdanova (Zina), Tomasz Bialkowski (Sig. Nowak); produzione: Versus Production-Iris Productions- Dharamsala-Prime Time-Rtbf; distribuzione: Archibald Film; origine: Belgio-Lussemburgo-Francia, 2010; durata: 90’. |
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Trama: | Tania e suo figlio di 14 anni Ivan sono arrivati illegalmente in Belgio dalla Russia e per otto anni hanno vissuto in clandestinità, sempre in fuga dalla polizia per evitare di essere arrestati o espulsi. Tuttavia, sfuggire alle autorità non è semplice e infatti, un giorno, madre e figlio vengono scoperti e separati l'uno dall'altra: Tania viene arrestata mentre Ivan riesce a fuggire. Durante la sua detenzione la donna cercherà di avere notizie di suo figlio e nel frattempo di trovare il modo per evitare l'espulsione. |
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Critica (1): | Olivier Masset-Depasse parla del suo film, Illegal, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del 63esimo festival di Cannes: il regista belga parla delle ricerche effettuate per scrivere la storia e le scioccanti verità che ha scoperto in corso di preparazione e del perchè ha scelto di usare la finzione anche se si è avvicinato al film col fervore del documentarista.
Olivier Masset-Depasse: È la storia di una madre e di suo figlio originari della Russia e arrivati clandestinamente in Belgio una decina di anni fa. Tania, la protagonista, ha fatto domanda di asilo, ma è stata respinta. Perciò sceglie, per il futuro di suo figlio e perché non può tornare in Russia, di restare in clandestinità. Li ritroviamo dieci anni più tardi. La sua vita è più o meno normale: lei lavora, suo figlio va a scuola. Tutto va bene fino al giorno in cui Tania viene arrestata dalla polizia. Viene così rinchiusa in un centro di detenzione per clandestini, mentre suo figlio, che è riuscito a fuggire, trova rifugio presso un'amica. Di qui, la lotta di questa madre contro la macchina dello Stato per ritrovare suo figlio e tornare in libertà.
Come è arrivato a questa storia?
Inizialmente, ho appreso dal telegiornale che a quindici chilometri da casa mia c'era uno di questi centri. E ho sentito parole come prigione per innocenti, ho visto bambini dietro le sbarre. Ho provato disagio e ho cominciato ad approfondire. Più scavavo, più rimanevo atterrito da quello che scoprivo, e presto è nata l'idea di un film. Ho indagato per un anno con un giornalista del quotidiano belga Le Soir e con un giurista della Lega dei Diritti dell'Uomo belga. Questo mi ha permesso di andare sul campo, cosa che volevo assolutamente. Le testimonianze delle persone passate per questi centri e soprattutto la possibilità di entrare più volte in un centro specifico (il 127 bis, vicino a Bruxelles) mi hanno consentito di farmi un'idea precisa di come funzionava, di avere informazioni più dettagliate. In base a ciò, ho deciso di fare un film di finzione, di partire dalla storia della lotta di una madre, che era il mezzo per veicolare le emozioni, toccare lo spettatore e poter parlare, denunciare in ogni modo quello che si faceva subire ai clandestini in questi centri.
Quella che ha condotto assomiglia all'inchiesta per un documentario. Perché ha scelto la finzione?
Innanzitutto, non so fare documentari, anche se li adoro. Sono due mestieri differenti. Sono piuttosto legato alla finzione, che ha il vantaggio, rispetto al documentario, di poter lavorare più approfonditamente sulla soggettività di un personaggio, quindi essere un po' più emozionale, e di avere un approccio più universale. La cosa più importante per me era che il film rendesse la gente consapevole, ma che questa presa di coscienza partisse dal cuore, non dalla testa. E questo mi rimandava per forza di cose alla finzione.
Che cosa l'ha colpita di più durante le sue ricerche?
Molte cose. Ma l'elemento scatenante è stata la mia prima visita al centro di detenzione, nell'ala delle donne e delle famiglie, perché vi era una specie di disperazione, un'atmosfera un po' dolciastra che era molto aggressiva per me che sono padre. Vedere bambini in pigiama alle quattro del pomeriggio, sapendo bene che possono uscire soltanto un'ora al giorno, e vedere le loro madri lobotomizzate dai calmanti: ho trovato tutto questo di un'aggressività enorme. È questa prima visita che mi ha scioccato maggiormente, perché ero più ingenuo. Poi, inevitabilmente, ci si abitua alla durezza delle cose. In seguito, ho potuto vedere, in via confidenziale, un'espulsione filmata con un cellulare: non vi era la violenza che si ritrova nel film, una violenza diretta che si svolge dopo che il telefonino si rompe... Guardavo qualcuno che si faceva espellere, che cercavano di espellere, sapendo che due giorni più tardi questa persona si sarebbe impiccata in quel centro.
Voleva che queste fossero le scene più scioccanti del film?
Le più scioccanti, non lo so. Ci voleva drammaturgia. In un film, bisogna necessariamente andare verso un punto di massima intensità e sapevo fin dall'inizio che questo punto ci sarebbe stato all'aeroporto. Non dico altro per non svelare la fine del film. (...)
Intervista al regista, in Cineuropa.org |
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