Amy-The Girl Behind the Name
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Regia: | Kapadia Asif |
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Cast e credits: |
Musiche: Antonio Pinto; montaggio: Chris King; interpreti: Amy Winehouse (immagini di repertorio), Andrew Morris, Blake Fielder, Blake Wood, Chip Somers, Dale Davis, Darcus Beese, Cristina Romete, Guy Moot , Janis Winehouse, Juliette Ashby, Lauren Gilbert, Lucian Grainge, Mark Ronson, Mitchel Winehouse, Monte Lipman, Nick Gatfield, Nick Shymansky, Peter Doherty, Phil Meynell, Raye Cosbert, Salaam Remi, Sam Beste, Shomari Dilon, Tony Bennett, Tyler James, Yasiin Bey; produzione: Krishwerkz Entertainment-Playmaker Films-Universal Music; distribuzione: Nexo Digital e Good Films; origine: Gran Bretagna, 2015; durata: 123’. |
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Trama: | Dedicato alla tormentata voce di "Back To Black", Amy Winehouse, include immagini e filmati d'archivio inediti sull'intensa e carismatica artista, scomparsa nel 2011 a soli 27 anni per cause ancora non completamente accertate. Il film restituisce aspetti meno noti della vita della cantante, tutti raccontati attraverso le sue stesse parole e la sua musica. |
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Critica (1): | "La cosa più incredibile sono i mille fuori scena ripresi nei momenti più disparati che ce la restituiscono in tutta la sua faccia tosta e la sua simpatia, qualsiasi cosa stesse facendo. La più toccante sono quei fogli a quadretti pieni di cancellature e cuoricini su cui scriveva i testi strazianti delle sue canzoni. La scena più sorprendente è quella d'apertura, in cui canta 'Happy Birthday' con mille vocalizzi alla festa per i 14 anni di una sua amica – ed è già lei: Amy, come recita il titolo del bel documentario di Asif Kapadia (...) un piede nel passato e uno nel futuro (...) il film di Kapadia, che oltre a comporre un ritratto davvero complesso e commovente della persona e del suo mondo, costituisce una specie di 'prova generale' di ciò che saranno sempre più spesso i documentari oggi che gli archivi pubblici e privati traboccano di immagini riprese su ogni tipo di supporto, che moltiplicano all'infinito le possibilità di raccontare un personaggio. E volendo di reinventarlo, mistificarlo, tirarlo in una direzione o in un'altra, a piacimento. Difficile non pensare che Amy Winehouse è stata vittima anche di questa accelerazione, che non riguarda solo le star, anche se naturalmente la celebrità centuplica i rischi. (...) Ma la cosa più bella del film di Kapadia, che peraltro non fa sconti a nessuno (il padre di Amy minaccia azioni legali), è anche il rispetto con cui tratta una storia così recente e dolorosa. Limitando al massimo le interviste e usando solo il sonoro, mai le immagini dei testimoni, mentre sullo schermo un montaggio sapiente intreccia filmini di famiglia, dietro le quinte, programmi tv, scherzi con amici e fidanzati ritrovando, dentro questa vita così singolare e insieme così pubblica, un calore e un'intimità davvero incredibili.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 17/5/2015 |
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Critica (2): | Non bisogna vedere Amy, il documentario di Asif Kapadia, perché fa male vedere il fiore della bellezza sgretolarsi, autodistruggersi con tale implacabile determinazione. Non bisogna vederlo perché fa piangere, perché è insostenibile. Perché racconta una vicenda inaccettabile. Non bisogna vederlo perché ci restituisce la vita, l'inferno, il prodigio e i demoni di AmyWinehouse con inaudito e impudente senso della verità. Statene alla larga se volete preservare la vostra tranquillità, trovate una buona scusa per evitare la tentazione di andarlo a vedere quando (distribuito da Nexo e Good Film) sarà proiettato in molte sale italiane per soli tre giorni, il 15, 16 e il l7 di settembre. Questo film va evitato come la peste perché ti ricorda come la musica dovrebbe essere e non è più, perché ti ricorda che può esistere un'artista interessata solo all'arte e aver paura del successo, sdegnarlo, addirittura disprezzarlo. Sono due ore e passa d'incredibile ricchezza, con una quantità insospettabile di filmati privati, sfacciati, sinceri, di amici e collaboratori che descrivono la fragile, tenera, devastata personalità di Amy. Ma soprattutto c'è lei, in tutti i modi, in tutte le situazioni possibili, pubbliche e private. Ci sono le sue emozioni infantili, gli scherzi, le smorfie, i crolli, la droga, l'alcol il suo amore forsennato e distruttivo per Blake Fielder-Civil, l'unico uomo che ha sposato e col quale ha vissuto l'abisso della perdizione. E come se non bastasse c'è la musica, ci sono le sue canzoni e questo film aiuta a capire quanto fossero rigorosamente e tragicamente autobiografiche, verso dopo verso, e allora ovviamente diventano ancora più forti, più intense. Come poter reggere l'emozione straziante di un pezzo meraviglioso come Love is a losing game dopo averlo calato in mezzo ai suoi fantasmi di vita tra dissoluti amori, dipendenze varie, resurrezioni. Come reggere l'ironia di Rehab dopo averla vista sfatta e straziata da abusi di ogni tipo? ll film commette un crimine intollerabile: mostra senza veli il rapporto di Amy Winehouse con la musica, viscerale, autentico, insopprimibile come l'aria che respirava, ma allo stesso tempo fonte di tormento, estasi e frustrazione. Mostra con spietata durezza l'effetto devastante che l'esposizione pubblica, i media, i paparazzi avevano sulla sua innocenza, sul suo smarrimento di fronte a un mondo in cui si sentiva estranea, avulsa, come un'aliena caduta per caso sul pianeta del successo. Lei del resto era un'aliena, un'anima antica sbalzata nella modernità, integra come una sublime opera d'arte, troppo sincera, troppo vera e fragile per reggerne il peso della vita. Imperdibile la scena dei Grammy, quando guarda in collegamento le nomination e poi stralunata sente che a vincere è stata proprio lei, incredula, sgomenta, travolta da chissà quali indicibili emozioni, così come quando legge i suoi versi, scritti su un notebook, con una cadenza che li trasforma in canzoni, o come quando in scena sempre sul punto di commettere qualcosa di sorprendente, un dispetto, una rinuncia, un'infamia, oppure un tocco d'inarrivabile bellezza vocale. A differenza della maggior parte dal documentari che circolano non ci sono esperti a commentare, ad analizzare, a interpretare lo stile. Ci sono le amiche, che per la prima volta, quasi fosse una sorta di terapia riabilitativa, parlano di lei, ci sono i suoi amori, c'è perfino il dissennato Blake Fielder-Civil, ci sono musicisti e manager, bodyguard e discografici che in un modo o nell'altro hanno avuto a che fare con lei, tutti in diversi modi protettivi, ma puntualmente incapaci di salvarla, a cominciare dal padre, che non esce nel migliore dei modi da questo racconto. E infatti all'uscita del film ha trovato la maniera di sottolineare la sua innocenza, nella quale aleggia, e non potrebbe essere altrimenti, un diffuso senso di colpa, anche quello contagioso. In fin dei conti ci si sente tutti in colpa perché un tale fiore di bellezza, un prodigio così irripetibile, sia stato lasciato a sfiorire, peggio distruggersi senza ritegno. Anche per questo non bisogna vedere questo film. Nessuno di noi avrebbe potuto fare alcunché, è ovvio, ma questo non ci impedisce di soffrire, di trovare questa storia sommamente ingiusta, di sentirci responsabili, come lo siamo di fronte ai disastri ambientali, alle guerre, ai soprusi. Asif Kapadia ha avuto il torto di raccontarla troppo bene questa storia, di scavare troppo a fondo, di darci l'impressione, alla fine del film, di conoscerla bene, di godere quasi di una certa intimità col personaggio, e questo allora è davvero insopportabile. Le emozioni che vi aspettano non sono tanto abituali di questi tempi. Non c'è ipocrisia, non c'è finzione, non ci sono vanità di facciata, non c'è nulla di consolatorio e rassicurante. Statevene a casa quando vedrete le locandine della proiezione del film, oppure andateci ma poi non dite che non vi avevamo avvertito. Potreste trovarlo prezioso, imperdibile, bello almeno quanto lo erano le canzoni di Amy Winehouse. E potrebbe essere troppo.
Gino Castaldo, La Repubblica, 27/10/2015 |
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