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Frontiera (La) - Frontera (La)


Regia:Larraín Ricardo Pinedo

Cast e credits:
Sceneggiatura: Ricardo Larraìn Pinedo, Jeorge Goldemberg; fotografia: Hèctor Rìos; montaggio: Claudio Martinèz; scenografia: Juan Carlos Castillo; musica: Jaime de Aguirre; interpreti: Patricio Contreras (Ramiro Rellana), Gloria Laso (Maite), Alonso Venegas (burocrate), Hèctor Noguera (Pater Patricio); produzione: Ricardo Larraìn Pinedo per Cine XXI Ltda., in collabo­razione con TVE (Madrid), ION Producciones/Filmocentro Cine (San­tiago), TVN (Santiago); distribuzione: Ventana; origine: Cile/Spagna, 1991; durata: 115'.

Trama:Durante la dittatura di Pinochet in Cile un inoffensivo professore di matematica, Ramiro Orellana, viene improvvisamente arrestato e condotto da Santiago al confino. Lo scortano due beffardi agenti della polizia politica, i quali, alla sua ferma protesta di non aver commesso alcun crimine, oppongono un trattamento villanamente confidenziale, senza risparmio di epiteti e grossolane irrisioni. La destinazione è un'isola piovosa al largo della Patagonia. Vento pungente, piogge alluvionali, pozze grandi come laghi: è in questo paesaggio da dopostoria che sbarca il matematico Ramiro Orellana. Il regime l'ha spedito al confino per attività sindacale, ma le scalcinate autorità locali non sanno come regolarsi, e per non sbagliarsi lo trattano con brutalità.

Critica (1):«Mi chiamo Ramiro Orellana, professore di matematica. Sono stato confi­nato per aver firmato una dichiarazione pubblica sulla sparizione del mio collega Oscar Aguirre. Dichiarazione che confermo pienamente». Cile, ultima fase della dittatura di Pinochet. Le parole del protagonista concludono il film. Il suo volto è visto attraverso la telecamera di una troupe giornalistica, che lo intervista in virtù della duplice emarginazione causata dall'esilio poli­tico e da un violento maremoto. Su questa duplicità si struttura la vicenda umana del professore, specularmente riflessa nel personaggio di Maite, la donna a cui si lega. Fuggita dalla Spagna di Franco, approda al regime mi­litare cileno e alla devastazione del precedente maremoto, incubo che aleggia tra le pareti diroccate della sua vecchia casa. Rovine dell'edificio, de­finiscono la topografia sentimentale del racconto, filtrata attraverso la persisten­za della memoria: è la metà della pri­ma escursione della coppia fuori dal villaggio, il luogo del primo contatto carnale, che viene bruscamente inter­rotto. La condizione di sospensione segna la vita dell'intera comunità, de­finita dagli estremi che la rappresenta­no. Le miserie terrestri e i favolosi mondi sommersi vagheggiati dal pa­lombaro; l'eccitazione alcoolica susci­tata dalla musica e la mestizia delle danze fra soli uomini; il delirio di potenza dei due funzionari della delegaciòn e la loro grottesca realtà di microburocrati: L'oceano e i sogni del padre di Maite che, fissandolo a lungo, immagina di tornare alla terra natale. Lo spazio temporale è delimitato dal maremoto passato e da quello in arrivo, momenti catartici che segnano la discontinuità del ciclo vitale. Al suo interno, la comunicazione è assente. Nell'unico locale del villaggio, luogo deputato agli incontri, l'ostessa non apre bocca, mentre il palombaro parla di respirazione subacquea con il socio morente, non accorgendosi che è im­possibile ottenere risposte. Nella delegacion, i dialoghi tra i due funzionari si esauriscono nel balbettamento della fraseologia codificata dai regola­menti. Mentre la rabbiosa nostalgia del padre Maite passa dalla contemplazio­ne delle vecchie fotografie stese ad asciugare a scoppi di incontrollata verbalità. Le possibilità di stabilire contatti umani provengono dal mondo esterno: il curato anglosassone garan­tisce l'aggregazione sociale della comunità, il confinato riesce a costruire rapporti significativi con Maite e con il palombaro. Ma quelli con il resto del mondo gli vengono negati dall'ottusi­tà, dei suoi controllori: il dialogo con moglie e figlio avviene dalle opposte sponde del braccio d'acqua che separa la "frontera" dal resto del Paese, a sot­tolineare una precarietà che è anche di ordine familiare (la separazione dalla consorte, il figlio da anni in Europa). Difficile sottrarsi alla sorveglianza dei burocrati, che si concretizza nel rito grottesco delle firme di presenza, ma è ancor più arduo fuggire da una con­dizione comunque emarginata. Orellana può quindi trovare nel luogo del con­fino motivi sufficienti per rimanervi anche dopo l'ottenimento della libertà. Al padre di Maite, che lo incita a scap­pare, risponde: "per andare dove ?". Il film scava nella dimensione esisten­ziale dell'esperienza politica sudamericana. Siamo lontani dalla rabbia mi­litante dei primi exploit internazionali della cinematografia continentale, dal "Cinema ndvo" brasiliano ai lungometraggi d'esordio dell'argentino Solanas, del boliviano Sanjinès e dei cileni Littin, Francia, Elsesser e Soto. Il film di Larraìn, opera prima che ha ottenuto il Leone d'argento nella Berlinale dello scorso anno, si mostra più vicino alla vena intimistica-surreale che caratte­rizza una tra le migliori pellicole viste a Venezia nel '90, La luna en el espejo del connazionale Silvio Caiozzi. La vicenda umana del professore è trattata in una chiave metaforica che privilegia l'elemento acquatico, come in altri autori latino-americani quali Fernando Birri, ne Los inundados, o Solanas, nel recente El viaje. "In questo maledetto paese c'è solo umidità", lamenta il padre di Maite. Il film vi penetra con attenta gradualità. In una delle prime immagini, si scorge il volto Orellana, nell'auto che lo conduce al confino, attraverso un finestrino che riflette un cielo azzurro, ma denso di nubi. Poco dopo, durante il traghettamento, lo stes­so vetro è così umido che un ubriaco può tracciarvi, col dito, le onde del mare. All'arrivo sull'isola, la terra si trasforma in fango, come ribadisce un camera-car sulle praterie allagate, piog­gia violenta nella prima notte d'esilio; proprio l'offerta di un ombrello apre la strada all'amicizia tra Maite e il pro­fessore: anche il desiderio sessuale passa attraverso un vetro bagnato, quan­do Orellana scopre oltre una finestra il corpo nudo di una donna. Il maremoto che conclude il film fa esplodere le acque all'interno delle abitazioni in un ralenti che rappresenta l'unica concessione spettacolare di un'opera stilisticamente molto controllata. Sulla collina del cimitero, raggiunta dalle famiglie in fuga, un lungo carrello scorre su volti in cui l'orrore si unisce alla rassegnazione, fino a chiudersi su un primo piano di Orellana, inchiodato alla sua nuova, definitiva solitudine. In sottofmale, ampie panoramiche aeree sulle campagne allagate: solo acqua, ovunque, come nelle sequenze che de­scrivono l'arrivo sull'isola: Il cerchio si è chiuso.
Stefano Corone, Cineforum, n. 325 giugno 1993

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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