Toby Dammit (ep.)
| | | | | | |
Regia: | Fellini Federico |
|
Cast e credits: |
Soggetto: libera riduzione dal racconto "Non scommettere la testa con il diavolo" di Edgard Allan Poe; sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi; fotografia: Giuseppe Rotunno; musica: Nino Rota; montaggio: Ruggero Mastroianni; scenografia e costumi:: Pietro Tosi; interpreti: Terence Stamp (Toby Dammit), Salvo Randone (Padre Spagna), Antonia Pietrosi (l'attrice), Polidor (un vecchio attore), Anne Tonietti (commentatrice televisiva), Fabrizio Angeli (primo regista), Ernesto Colli (il secondo regista), Aleardo Ward (primo intervistatore), Paul Cooper (il secondo intervistatore), Marisa Traversi, Rick Boyd, Mimmo Poli (partecipanti alla festa), Marina Yaru (la bambina), Brigitte (la ragazza alta due metri); produzione: PEA - Les Films Marceau; origine: Italia, 1967; durata: 37'. |
|
Trama: | Un giovane attore inglese, Toby Dammit, alterato da droga e alcool, arriva a Romaper girare il primo western cattolico. Tutto è pronto per celebrare l'avvenimento, ma lui appare apatico e insensibile a quanto lo circonda: feste, sfilate di moda, premiazioni. Durante l'ennesimo ricevimento insulta i presenti e fugge via sull'automobile regalatagli dai produttori. Comincia una corsa sfrenata a folle velocità per il centro e la periferia di Roma...
Episodio da "Tre passi nel delirio". Gli altri episodi del film sono: Metzengerstein di Roger Vadim e William Wilson di Louis Malle. |
|
Critica (1): | Prima delle colossale "messa in scena" del Satyricon, Fellini realizza il suo terzo film "breve": dopo Agenzia matrimoniale e Le tentazioni del dottor Antonio, Toby Dammit. Si tratta di una produzione italo-francese per un film "a episodi", costruiti sulla base dei Racconti straordinari di E. A. Poe e in cui trovano posto, insieme a quello di Fellini, altri due brevi lavori di Vadim (Metzengerstein) e di Malle (William Wilson).
La presenza dei due registi francesi induce qualche critico ad accomunare in un unico giudizio poco lusinghiero anche Fellini: un film sostanzialmente calligrafico ed estetizzante, in chiave surrealistica. Ci sembra, invece, che Fellini abbia saputo trarre dalla novella di Poe ("Non bisogna scommettere la testa col diavolo") una delle sue opere relativamente più convincenti. E tutto sommato, nella liberissima rielaborazione, l'"offesa" allo scrittore "nero" non è più tanto grave. Toby Dammit è un attore inglese sull'orlo della follia. Questa volta Fellini non sembra voler cogliere le immagini interiori di una psiche, quanto piuttosto darci attraverso uno sguardo "espressivo" la realtà e l'ambiente in cui il soggetto è inserito. E con essi, le ragioni del suo "disadattamento". Ciò non significa che Fellini sia diventato di colpo un Rosi o un Petri. Toby Dammit è un film perfettamente coerente con i risultati e anche con la poetica di Otto e mezzo. E anzi, crediamo di poterlo collocare come esito finale (per ora) di una linea interna che attraversa l'opera felliniana legando fra loro tre punti fondamentali: I vitelloni, Il bidone, Otto e mezzo.
In Toby Dammit è risolta la frattura tipicamente felliniana tra il piano della mitologia individuale e il piano dell'oggettualizzazione artistica. Tra la "memoria" dell'autore e i materiali della semiosi si realizza un'omogeneità che tropppo spesso era mancata prima d'ora. Non solo, ma Fellini può anche utilizzare ormai come veri e propri "materiali" certi moduli espressivi che fanno parte del suo repertorio, trasferendoli sul piano spettacolare senza che questa operazione assuma caratteri di arbitrarietà e incoerenza rispetto al piano dei contenuti. Il personaggio è un "pazzo" e tutto ciò che di anomalo e deformante vediamo muoversi intorno a lui non è solo la proiezione della sua follia bensì è precisamente il piano referenziale, reperibile in termini di funzionalità intersoggettiva, ineccepibilmente pertinente rispetto al taglio della situazione socioculturale. Sbagliato sarebbe, quindi, individuare nel film parti più riuscite per liquidarne invece gli elementi più chiaramente riferibili alla mitologia felliniana come cascami di opere precedenti. Soprattutto quell'immagine di "diavolo in abiti bianchi", che gioca a palla col mondo e silenziosamente consuma la propria esistenza in una tragica correlazione di morte e di buio, di spazi e persino di colori (si pensi alla predominanza del rosso, specie all'inizio), non è affatto una intrusione simbolica e ridondante, né è la "spiegazione" meccanica del piano narrativo. E' lo "spettacolo", afasico e schizofrenico, di una condizione espressiva, non più riflessa da Fellini al personaggio, ma sostanziata autonomamente in questo e liberata così da un "dovere" autobiografico riduttivo e quasi sempre autoritario.
Si sviluppa in tal modo un discorso compatto che nell'essere dell'attore straniato e stravolto dalla mitologia dello spettacolo coglie i meccanismi alienanti dell'industria culturale in forme inscritte entro i limiti stessi del rappresentato. Nel rituale della consegna della "Lupa d'oro" ai "mostri" del cinema, del teatro e della TV, il torpore di Toby Dammit, la sua "assenza", quel suo mantenersi nella zona d'ombra, abbandonato su una sedia e preda di tentazioni non sufficientemente suasive, è il contraltare della sua violenta confessione che sgorgherà di lì a poco, quasi al richiamo della luce dei riflettori e dei lampi dei "paparazzi": "Non è vero che sono un grande attore... Perché mi avete chiamato qui, cosa volete da me?". Ma non è la voce di una coscienza, è ancora un grido al microfono, un'amplificazione scenica di un interrogativo che in origine sarà stato umano, forse, ma che di umano ora conserva la traccia di un'eco metallica perduta nel buio. La Ferrari che attende Toby Dammit dietro le quinte è il mortale giocattolo che servirà da tramite fisico per il suo viaggio nel buio. E anche qui, non sarà un percorso interiore, un raccogliersi intimo nel proprio trapasso, ma uno scorrere di superfici frenetiche, lo spettacolo di una velocità senza spazio e senza direzione. Non c'è posto per la riflessione nel patetico scenario di solitudine della piazzetta notturna, col suo orologio. La vita di Toby Dammit non ha dimensione e non può essere "pensata"; s'incarna nella dinamica di una fuga tangente per perdersi nel buio dove la ragione non serve. La palla bianca del diavolo e la testa dell'attore s'incontrano sul limite di una strada interrotta e non aspettano albe. E ci ricordiamo, allora, della vocazione spettacolare di quei preti dell'inizio, che spiegano a Toby Dammit l'importanza del primo western cattolico; e diamo un senso che va ben oltre la satira a quell'implacabile e secca condanna dell'armamentario TV, come ci viene presentato nella scena dell'intervista all'"ospite d'onore". Il carrello della telecamera si muove sul linoleum, silenzioso come la palla bianca, mentre l'annunciatrice con voce gentile: "Signore e signori, abbiamo fra noi Toby Dammit!".
Franco Pecori, Fellini,Il castoro cinema, 1974 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|