Mr. Klein - Monsieur Klein
| | | | | | |
Regia: | Losey Joseph |
|
Cast e credits: |
Soggetto: Franco Solinas; sceneggiatura: Franco Solinas, Fernando Morandi; fotografia: Gerry Fisher; musiche: Egisto Macchi, Pierre Porte - "Kindertotenlieder" di Gustav Mahler; montaggio: Marie Castro-Vasquez, Henri Lanoë, Michèle Neny; scenografia: Alexandre Trauner; costumi: Annalisa Nasalli Rocca, Colette Baudot; effetti: Georges Iaconelli; interpreti: Alain Delon (Robert Klein), Jeanne Moreau (Florence), Francine Bergé (Nicole), Juliet Berto (Janine), Suzanne Flon (portinaia), Massimo Girotti (Charles) Michael Lonsdale (Pierre), Magali Clement (Lola), Étienne Chicot (poliziotto), Roland Bertin (l'amministratore del giornale), Francine Racette (Françoise/Cathy), Michel Aumont (funzionario della prefettura), Jean Bousie (il venditore), Jean Champion (guardiano dell'obitorio), Gérard Jugnot (fotografo), Dany Kogan (Michelle), Carole Lange, Lucienne Le Marchand (Lucienne Lemarchand), Fred Personne (commissario), Rosine Rochette, Isabelle Sadoyan, Maurice Vallier, François Viaur, Jacques Maury (Professor Montandon), Louis Seigner (padre di Robert Klein), Hermine Karagheuz, Pierre Varnier (poliziotto), Raymond Danon; produzione: Alain Delon per Adel Productions-Lira Films-Mondial Televisione Film-Nova Films; distribuzione: Titanus; origine: Italia, 1976; durata: 125’. |
|
Trama: | Robert Klein, un alsaziano di agiata famiglia, approfitta delle vessazioni operate dalla Francia collaborazionista di Petain contro gli Ebrei, per aumentare il proprio patrimonio di quadri ed altre opere d'arte. Una mattina si vede recapitare il giornale della comunità Ebraica, che reca sulla fascetta la stampigliatura del suo nome. Informa la Prefettura e viene così a conoscere l'esistenza di un suo omonimo, ricercato dalla polizia perchè semita, di cui si è persa negli ultimi tempi ogni traccia. Robert riesce a scoprire la stanza, che egli aveva prima in affitto. Intanto però i sospetti della prefettura cadono proprio su di lui. Gli si chiede di provare che nessuno dei suoi antenati era Ebreo. Il suo avvocato Pierre trova un acquirente di tutti i suoi beni e gli consegna un passaporto, con il quale possa tranquillamente emigrare. Proprio partendo, Robert individua la donna, che, per anni era stata compagna del suo omonimo. Ella si era fatta passare sotto vari nomi, Katye, Françoise, Isabelle... Da lei riesce a sapere che il suo amico Ebreo, in realtà, è sempre restato allo stesso indirizzo, sotto la complicità della portiera. Proprio nel momento in cui il suo avvocato ha in mano tutti i documenti per allontanare da lui ogni sospetto, il protagonista si trova accanto all'altro Robert Klein ed altri semiti, nello stesso vagone piombato in partenza verso la Germania. |
|
Critica (1): | Sei mesi nella vita e nella morte di Robert Klein, antiquario parigino, dal gennaio del '42 al 16-17 luglio, giorni in cui i nazisti attuarono la retata di 15 mila ebrei e li concentrarono al Velodromo d'inverno per avviarli poi ad Auschwitz. Nel film si racconta parallelamente la preparazione della grande rafle e la progressiva crisi di identità del protagonista: preso di mira da un misterioso omonimo, che è un ebreo appartenente alla Resistenza, monsieur Klein si sente trascinare verso il gorgo della persecuzione razziale e tenta di difendersi; ma le sue azioni sono goffe e controproducenti come quelle di Joseph K. nel Processo di Kafka. Accade cosí che il protagonista, da cinico acquirente dei beni degli ebrei in fuga, si trasforma in vittima oscuramente volontaria. Scritto con estrema finezza da Franco Solinas, Mr Klein è uno dei migliori film realizzati finora sul tema dell'olocausto. Joseph Losey ha firmato un'opera tutta intessuta di allusioni, di sapienti reticenze, di segni a livello psicoanalitico. Se un vago intellettualismo può affiorare qua e là, Losey sa compensarlo con scene molto forti ed esplicite: come quella, all'inizio del film, in cui una donna supposta ebrea viene esaminata dal medico fiscale come se si trattasse di un cavallo. Ad Alain Delon è stata rimproverata una certa monotonia, ma a noi pare che renda bene l'attonita caparbietà del signor K.; e aggiungiamo che ha il merito, non irrilevante, di essere il produttore del film.
Tullio Kezich, Il Millefilm 1967-1977, Ed. Il Formichiere,1977 |
|
Critica (2): | A coronamento di una coerenza che va oltre l'apparente discontinuità degli argomenti trattati, l'approccio a Mr. Klein (1976) è senza dubbio nel nome di Kafka (di cui lo stesso Losey si dichiara consapevole) e nel tema del doppio.
Parigi 1942: ebrei che tentano di sfuggire alla persecuzione nazista vendono le loro cose. Uno di questi si reca da Robert Klein, commerciante in articoli d'antiquariato, e gli vende un quadro.
Quando l'altro si allontana, Klein trova sul proprio uscio una rivista, “Informations Juives”, indirizzata a lui. Si reca alla sede del giornale per avere spiegazioni, dato che lui non è ebreo e non intende, in quei tempi, essere scambiato per ebreo. Progressivamente scopre l'esistenza di un altro Robert Klein, che sembra faccia di tutto per essere scambiato per lui. Per allontanare da sé i sospetti, Klein inizia una lunga e complessa ricerca dell'altro: essa si conclude su un treno che parte per Auschwitz, sul quale Klein sale dopo aver sentito il suo nome chiamato all'appello dagli altoparlanti.
Dalle parole e le cose alle parole e le persone. La sequenza d'apertura (una donna si fa visitare da un medico per poter certificare di non essere ebrea) introduce subito il tema dell'identità come forma della denominazione e dilata i confini temporali del film: quello che viene messo in scena non è il Passato, ma un passato esemplare in cui, come direbbe Horkheimer (e lo diceva proprio in quegli anni), il Potere assume uno status connotativo che lo porta a identificarsi con l'Istituzione. La rigorosa geometria, i freddi colori, il distacco della mdp nelle prime inquadrature restituisce una sorta di squarcio iperrealista, folgorante nella sua disincantata e implicita crudeltà, in cui il riferimento a Kafka si fa subito evidente e pronto ad evolversi nel successivo intrecciarsi di eventi tanto ambigui quanto figurativamente definiti e circoscritti. (...)
Il tema del doppio non caratterizza così solo il movimento di Klein, ma le funzioni di tutti i personaggi, che si collocano sempre entro una identità assente. Le diverse apparizioni che sembrano accompagnare-guidare Klein verso la meta, non fanno in realtà altro che sottrarlo alla conoscenza. Per tutto il film ogni evento appare se stesso e il proprio contrario, contemporaneamente; ogni funzione-guida si rovescia in una funzione deviante che tuttavia il finale, con la sua sospensione definitiva, rivelerà essere, paradossalmente, la funzione-guida. (...)
Nel finale, nel punto che riunisce tutte le linee di fuga e le compresenze del film, Klein insegue l'altro ed entrambi si ritrovano nello stesso vagone piombato; il flash back della voce f.c. reintroduce la matrice economica del loro rapporto. Tutto si ricompone e si chiude: la distaccata oggettività della sequenza d'apertura (la visita antropometrica alla donna) si realizza alla fine nella sua forma individualizzata. L'innocenza che era divenuta colpa (l'essere ebreo, l'essere uomo) ritorna ad essere innocenza: l'evento è senza qualità, pura designazione strumentale. « Tutti innocenti: non c'è niente di peggio » (Deleuze e Guattari). Scopriamo che il giallo non esiste, che il film ci ha mostrato solo una topografia di frammenti non riconducibili all'unità. Lo stesso linguaggio loseyano si compone di un «complesso rapporto di scambi e di influssi reciproci (...) con la cosiddetta realtà» (Fink): il gioco dei riflessi, la continua variazione di prospettive dei piani-sequenza, i movimenti appena percettibili della mdp, gli specchi che moltiplicano l'immagine rendendola sfuggente, le simmetrie ripetute - tutto ciò rivela non solo l'assenza di un centro coordinatore, ma anche la totalità avvolgente della visione, come linguaggio desoggettivato nella precisione "macchinica" della mimesi, ai limiti di un naturalismo esasperato che rimanda al falso naturalismo di Kafka. L'immagine colma, a volte fortemente tagliata da luci grigio-azzurre, fredde, e ci ombre (queste ultime prevalenti), la composizione sempre equilibrata pur nella minaccia della sovrabbondanza (se si eccettua la luminosità pallida della sequenza d'apertura)tutto sembra voler restituire un quadro minuziosamente mimetico, iperrealistico, del referente, una tecnica naturalistica quasi pedante nel suo insistere sulle figure (ma anche nel suo abbandonarle a continue uscite di campo), una macchina che gira attorno ai volti e agli oggetti per mostrarne ogni dimensione: è proprio la minuziosità della ricostruzione a distruggere l'apparente equilibrio del referente e a costruire, in luogo di questo e del suo presunto " realismo ", l'allucinazione (...)
Nella splendida realizzazione fotografica di Gerry Fisher, le differenziazioni sfumano fra loro, al punto che non sono riconoscibili cesure, ma solo continuità. Realtà, astratto, irrealtà: non c'è differenza, tutto appartiene al mondo del possibile e, quindi, dell'impossibile – dove il possibile è nel reale, l'impossibile nell'uomo.
«Il tema del film è l'indifferenza» (Losey). «Il dramma personale è continuamente posto a confronto col dramma collettivo» (Chazal). «Partendo dal dramma dell'identità dell'individuo di fronte al potere (...), ciò che il film ci comunica valica di molto i confini storici» (Venegoni). Il problema non è solo narrativo: certo, «il disegno della trama in cui cade Klein tende decisamente a definirsi in una dimensione più esistenziale che storica» (Finetti), ma solo in quanto conduce una «ricerca di una stilizzazione del reale e di un'aura fantastica» (Ciment).
Così si spiega il ricorso all'antisemitismo da parte di questo film che non è in fondo un film sull'antisemitismo: il nucleo è la concezione dello Stato in cui l'ideologia della merce (e quindi la sua realtà) si è tradotta in ideologia dell'uomo, sostituendola. Non un film sulla storia o su uno dei suoi episodi, ma sull'uomo e sulla sua modernità (niente, dunque, del « genericamente umano » che Marx rimproverava alla cultura borghese dell'ottocento). Un film che si apre sul passato, per poi dipanarsi in un presente che non ha saputo cancellare il proprio passato e quindi in un passato falso che si configura nella sua versione più tragica come motivo dominante del moderno.
Giorgio De Marinis, Gualtiero Cremonini, Joseph Losey, Il Castoro Cinema, 3/1981 |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|