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Taxisti di notte - Night on Earth


Regia:Jarmusch Jim

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Jim Jarmusch; fotografia: Frederick Elmes; musica: Tom Waits; interpreti: Wynona Ryder (Corky), Gena Rowlands (Victoria Snelling), Giancarlo Esposito (Yo-Yo), Armin Mueller-Stahl (Helmut Grokenberger), Isaach de Bankolé (il taxista parigino), Béatrice Dalle (la passeggera cieca), Roberto Benigni (il taxista di Roma), Paolo Bonacelli (il prete), Matti Pellonpää (il taxista di Helsinki), Kari Väänänen; produzione: Jim Stark per Victor Company of Japan; distribuzione: Penta; origine: Giappone, 1991; durata: 129’.

Trama:Il pianeta Terra rotea lentamente nell’oscurità del firmamento. Poi l’occhio della m.d.p. si muove velocemente sulla superficie irregolare di un mappamondo. Una serie di orologi fissati ad una parete segnano l’ora di cinque diverse città del mondo. Aeroporto di Los Angeles: sono passate da poco le 19. Mentre una biondissima donna di mezza età – ancora molto attraente – scende da un aereo-taxi, una taxista molto giovane, conciata in modo disastroso, scarica davanti al terminal una coppia di fusissimi metallari. La più giovane (Sparky) porterà l’altra (Victoria) a Beverly Hills. Colpita dalla naturalezza e dalla grinta di Sparkie, Victoria – che è un agente cinematografico – le proporrà una parte molto importante. La ragazza, con grande candore, rifiuterà. Una strada di New York, ore 22,08. Yo-Yo, un uomo di colore, cerca disperatamente di fermare un taxi. Dopo un po’ se ne ferma uno con un conduttore un po’ particolare, non troppo abile a guidare la propria macchina. Il taxista si chiama Helmut Grokenberger e arriva da Dresda, nell’ex Germania Orientale. Il cliente, che vorrebbe andare a Brooklyn, è costretto a guidare egli stesso la vettura. Sulla strada i due incontrano Angela, la donna del passeggero, e questi la fa salire con una certa violenza. Le loro scaramucce sentimentali si alternano alle uscite più o meno consapevolmente divertenti del taxista. L’interno di un’auto che sfreccia per le vie di Parigi alle 4 del mattino: un taxista di colore e due passeggeri che si sentono meno sicuri di lui. Uomini di affari del Camerun, si divertono a sfottere l’autista che viene dalla costa d’Avorio, vengono fatti scendere piuttosto bruscamente. Poco dopo lo stesso taxi prende su una ragazza cieca che attende su un marciapiede. Il passeggero sembra non gradire la curiosità un po’ troppo audace del taxista. Arrivati a destinazione il taxi viene coinvolto in un incidente. La ragazza, alla quale era appena stato consigliato di stare attenta, se la ride tutta goduta. Roma, la stessa ora di Parigi. Gino guida con gli occhiali e sfreccia per le vie del centro della capitale, parlando da solo. Poi riceve la segnalazione di un cliente che sta aspettando da qualche parte. Trattandosi di un prete, Gino dapprima cerca di assumere un certo contegno. Ma ben presto si lascia andare ad una serie di azioni e confessioni che risultano fatali per l’ecclesiastico malato di cuore. Gino ne abbandona il corpo senza vita su una panchina ai bordi della strada. Le strade di Helsinki coperte di neve e serrate nella morsa del gelo. Ancora le 4 del mattino. Il taxista Mika prende a bordo tre amici ubriachi. I quattro vengono uniti da una medesima disperazione esistenziale.

Critica (1):Chi scrive non può nascondere una certa titubanza nel momento in cui si sente chiamato ad esprimersi sull’ultimo film di un autore allo studio del quale ha dedicato un certo periodo della propria vita, e in particolare una tesi di laurea. Titubanza che nasce dal fatto che il regista in questione, nel passato molto recente, è stato accusato da gran parte della critica europea (in testa i Cahiers du Cinéma) – che tra l’altro ne aveva fatto la fortuna – di far soltanto più il verso a se stesso, di produrre un immaginarlo ridotto ormai a schemi aridi e abitato da personaggi che, attraverso il minimalismo con cui sono costruiti, rasentano il macchiettismo. Per questo ed altri motivi c’era grande attesa per l’uscita di Night on Earth di Jim Jarmusch, da noi a lungo rimandata nonostante in Francia fosse avvenuta già un anno fa, e la cui traduzione italiana Taxisti di notte mai sembrerebbe essere più azzeccata circa il contenuto del film. Seguendo una valutazione estetica che si basa sui criteri immediati del gusto, e che prescinde da un bilancio complessivo sulle scelte del regista, dovremmo dire che Night on Earth è un film che vive soltanto di due grandi momenti. Il primo è l’atmosfera surreale e sottilmente inquietante che si crea nel momento in cui entra in campo la ragazza cieca interpretata da Béatrice Dalle: è la cosa più bella del film e potrà non sembrare un caso che la sua interpretazione si nutra delle intuizioni del Jarmusch di Mystery Train Questo è anche il solo episodio – insieme a quello di Helsinki – in cui si realizza compiutamente, e non in modo scontato (vedi in questo senso il personaggio di Gino, interpretato da Benigni), quell’identificazione forte tra personaggio e attore che caratterizzava le opere precedenti. Attraverso una mimica facciale straordinaria e un trucco tanto evidente quanto efficace, Béatrice pare esprimersi per conto dell’autore quando risponde alle domande un po’ troppo impertinenti del taxista: «Certe volte i film li tocco, li ascolto. lo sento cose che tu non sentirai mai. Me ne sbatto dei colori, per me il colore non ha senso. Io i colori li sento». Viene subito da pensare da un lato a Wenders e alla sua poetica della visione, alla telecamera speciale inventata da Sam Farber perché la madre, cieca dalla nascita, possa avere delle sensazioni di tipo visivo sulle cose del mondo; dall’altro a Carax e alla visionarietà dei suoi amanti del Pont Neuf, a Michèle-Juliette Binoche in particolar modo, e alla giovinezza malata di Betty Blue. L’altro episodio che sembra stare in piedi da solo è quello girato ad Helsinki, dove si coglie da subito, per ragioni quasi automatiche di ambientazione e atmosfera – ma anche di messa in inquadratura, come vedremo – il mood caratteristico del cinema di Aki Kaurismäki Il film vibra dunque di un altro momento che deve assolutamente essere visto, nonostante Night on Earth possa apparire come un lavoro minore della produzione jarmuschiana. Mi riferisco alle ultimissime inquadrature, con il personaggio di Aki seduto per terra ubriaco nella neve, in una lezione memorabile su come il carattere del paesaggio possa connotare efficacemente quello del personaggio. Per il resto sembrano prevalere l’indifferenza, e a tratti anche il fastidio, per tutta una serie di situazioni e figure stereotipate che vivono di battute modeste e già sentite (come nel caso ormai paradigmatico dell’episodio romano), orfane di qualsivoglia intuizione linguistica, sia dal punto di vista fotografico sia da quello dei movimenti di macchina. La reazione immediata a tutto ciò spinge ad un confronto – che a questo punto pare obbligato – e ad un’analisi della filmografia del regista newyorchese, procedendo mediante sottrazioni a stabilire ciò che è sopravvissuto rispetto al vari Permanent Vacation, Stranger than Paradise, Daunbailò, Mystery Train. Ci muoviamo un po’ casualmente. A quell’estetica del vuoto come segno di un disagio esistenziale e all’iterata ripetitività, priva di precisi riferimenti spazio-temporali, del paesaggio americano, si sostituisce una geografia mondiale da illustrazione patinata dove qualunque newyorchese, romano o parigino potrebbe riconoscere una strada, uno scorcio del suo quartiere, fotografato con mediocre e stereotipata poeticità. Alla poetica dell’andare ad ogni costo senza sapere bene dove – che aveva nel finale aperto il suo naturale compimento narrativo –, corrispondono ora tappe precise in cui molti personaggi hanno una casa, con tanto di indirizzo. E viene a mancare (ovviamente) anche quella sospensione sul futuro dei personaggi che è qui rimpiazzata dal carattere chiuso degli episodi, dal loro voler essere quasi delle piccole parabole. Inoltre a quel sentimento della città come spazio svuotato e territorio di nuove solitudini, qui sembra sostituirsi una accettazione serena dell’esistenza urbana, addirittura paciosa e stupita nell’episodio di New York, e una sua espressione modello album fotografico. Il rapporto dei personaggi con le proprie radici e il confronto con l’altro perdono qualsiasi valenza conoscitiva e si riducono a luoghi comuni in cui dallo studio della realtà si passa direttamente al suo confezionamento pronto per l’uso. Tutto ciò proprio quando per la prima volta il regista va a girare in quell’Europa cui ha sempre guardato con grande interesse, sia riguardo certi modelli stilistici e sia rispetto alla provenienza di tanti suoi personaggi. Non ci si aspetti quindi il punto di vista sul Vecchio Continente da parte di un americano di origine europea, e neppure la realizzazione di ciò che il regista dichiarava nell’84 ai Cahiers du Cinéma: «Vorrei girare in Europa per poter comprendere io stesso quello che i personaggi provano, voglio sentirmi anch’io uno sradicato». Del viaggio attraverso il rock’n roll sembra non essere rimasta alcuna traccia e i suoni non sono più il segno volto a connotare immediatamente ambienti e personaggi: la musica (composta ed eseguita ancora una volta da Tom Waits) è banalmente raccordata sul movimento delle auto che partono, sfrecciano, arrivano. Ma c’è dell’altro: gli attori (per la cronaca semivolontari e sottopagati rispetto agli ingaggi standard) non sono più scelti per il loro modo di vedere la vita (la loro poetica), bensì per le tipologie dei caratteri che spesso sono chiamati ad interpretare durante il loro lavoro; e in questo senso la Rowlands e la Ryder dell’episodio di Los Angeles, con il candore morale caricato al massimo della seconda, sono esemplari. Forse allora non tutto il nuovo vien per nuocere e così cominciamo a pensare che forse Jarmusch non si è limitato soltanto a fare il verso a se stesso – cosa che qualcuno aveva già osato asserire a proposito di Mystery Train –, ma molto più verosimilmente lo ha fatto anche agli altri. Non ha fatto un film sui suoi film, ma su quelli degli altri. E a questo punto il fatto di accorgersi di una continuità di motivi con le sue opere precedenti, da rintracciarsi nella funzione positiva rivestita dalla figura femminile e dalla riduzione ad una situazione-base (il taxi) della costante poetica del caso, non è poi neppure troppo significativo. (...) Per concludere Jim Jarmusch ha realizzato un film onesto, nato da un’esigenza autentica e un pizzico di genialità, troppo ingenuo per essere subito capito ma anche così poco sottile da attirarsi i giudizi pesanti dei Cahiers, che gli consigliarono di darci un taglio con «la sua verginità di artista newyorchese» e di buttarsi nella macchina commerciale di Hollywood. Ma chissà che tra qualche tempo non ci si ritrovi proprio su queste pagine a sottolineare ancora una volta la sua coerenza artistica e una fedeltà immutata ai principi trasmessigli dal maestro Nicholas Ray.
Umberto Mosca, Cineforum n. 319, novembre 1992

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Critica (4):
Jim Jarmusch
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