Cous cous - Graine et le mulet (La)
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Regia: | Kechiche Abdellatif |
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Cast e credits: |
Soggetto: Dominique Arce; sceneggiatura: Abdellatif Kechiche; fotografia: Lubomir Bakchev; montaggio: Ghalya Lacroix, Camille Toubkis; scenografia: Benoît Barouh; costumi: Maria Beloso Hall; interpreti: Habib Boufares (Slimane), Hafsia Herzi (Rym), Faridah Benkhetache (Karima), Abdelhamid Aktouche (Hamid), Bouraouïa Marzouk (Souad), Alice Houri (Julia), Cyril Favre (Sergueï), Leila D'Issernio (Lilia), Abdelkader Djeloulli (Kader), Bruno Lochet (Mario), Olivier Loustau (Jose), Sami Zitouni (Majid), Sabrina Ouazani (Olfa), Mohamed Benabdeslem (Riadh), Hatika Karaoui (Latina), Nadia Taouil (Sarah), Henri Rodriguez (Henri); produzione: Claude Berri per Pathe' Renn Productions; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia, 2007; durata: 151'. |
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Trama: | A Sète, cittadina vicino a Marsiglia, Monsieur Beiji, sessantenne, lavora in una cantiere navale di un porto ed è ormai allo stremo delle forze dopo anni di questo duro mestiere. Padre di famiglia divorziato nonostante un passato di tensioni e rotture in famiglia è legato fortemente ai suoi figli e anche all'ex moglie e nonostante le grosse difficoltà finanziarie cerca con loro di non spegnere la speranza di un domani migliore. |
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Critica (1): | Che cosa succede quando il mito tutto americano della "seconda volta" viene raccontata da un cineasta insolito e imprevedibile come il franco-tunisino Abdellatif Kechiche? Per lo meno che lo schermo del Lido si illumina per merito di uno dei film più belli visti fin' ora e che il pubblico lo premia con 10 minuti di applausi. (...) In La graine et le moulet (le due componenti fondamentali per il couscous al pesce: il granello di semola e il muggine, o cefalo) a tentare di cambiare lo stanco corso della vita è il sessantenne Slimane (Habib Boufares). Licenziato dopo 35 anni dal cantiere dove ripara i sempre meno numerosi pescherecci di Sète, si fa tentare dall' idea di trasformare una nave in demolizione in un ristorante galleggiante, per sfruttare le eccezionali doti di cuoca della prima moglie (Bouraouïa Marzouk) nel preparare un couscous al pesce che ogni domenica riunisce figli, figlie, parenti e conoscenti vari, ma che rallegra anche la tavola (lontana) di Slimane e della sua golosa figliastra Rym (Hafsia Herzi). Un regista "americano" avrebbe raccontato gli entusiasmi e le difficoltà nel perseguire l' obiettivo del ristorante. Non Kechiche, che aveva già dimostrato con La schivata quanta libertà e invenzione fosse capace di mettere in campo. Così l' avventura di Slimane procede incrociando percorsi narrativi diversi, ora andando dritto al cuore delle cose (la difficoltà per un ex operaio come lui di avere prestiti, permessi, aiuti), ora giocando di rimbalzo e mettendo lo spettatore a conoscenza dei problemi familiari e umani che affronta solo attraverso discorsi e chiacchiere riportate da altri. Inutile sperare in una linearità che non esiste più: la ricchezza della realtà si riverbera anche nel modo di raccontarla (che ricorda i capolavori di Cassavetes), nel procedere per deviazioni, parentesi, soste improvvise e salti logici. Accompagnando lo spettatore dentro la complessità di un mondo affascinante e variegato come è la comunità franco-araba. Matriarcato, eredità culturali, ruolo dell' educazione, scontro tradizione-modernità, tensioni razziali e battaglie generazionali: c' è tutto nel mondo che racconta Kechiche, senza fare sconti a nessuno, dai pregiudizi duri a morire a favore dei maschi fino al peso della superstizione, a quello della gelosia e dell' invidia ma anche della solidarietà e dell' amicizia. Senza fare prediche o, peggio, identificando vizi e virtù con questo o quel personaggio. Anzi, lo sforzo del regista è quello di offrire a ognuno la possibilità di essere il più autentico e credibile possibile, mettendo in campo una veridicità di dialoghi e una giustezza di gesti (e di volti) davvero ammirevole. La macchina da presa di Kechiche sembra dotata della miracolosa capacità di raccontare la realtà. E il risultato è tanto più sorprendente se si pensa che la maggior parte degli interpreti non sono attori professionisti ma solo dilettanti che hanno lavorato moltissimo per raggiungere la spontaneità voluta dal regista. E in un finale che sorprende per intensità e libertà narrativa, dove il destino sembra mettere in gioco tutte le sue potenzialità e Kechiche tutta la sua fantasia, la danza del ventre che improvvisa Rym per distrarre il pubblico da un couscous che non arriva mai, diventa l' ennesimo "pretesto" per raccontare un mondo e una cultura che non si finisce di conoscere. Nel bene e nel male, ma anche nella sua varietà e complessità. Proprio come sono differenti (e significativi) gli sguardi che si posano sulle evoluzioni di Rym, piccola ma efficace dimostrazione della sottigliezza e della bravura di un regista degno del Leone d' oro.
Valerio Caprara, Il Mattino, 4/9/ 2007 |
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Critica (2): | Un'avventura umana e un romanzo famigliare, un tocco evidente di realismo italiano (De Sica, tra tutti) e un'attenzione all'interazione tra ambiente ed esseri umani. Abdellatif Kechiche, regista francese di origini maghrebine, aveva già regalato al cinema un'opera seconda eccellente (e in Italia praticamente sconosciuta) come L'Esquive ("La schivata") storia di adolescenti giocata tra un palco di teatro e la vita vera. E' arrivato all'ultimo Festival di Venezia con La graine et le mulet ( Cous Cous, in italiano) forte di un film dal deciso sapore italiano e di un'accoglienza calorosissima da parte di critica e pubblico che lo avevano incoronato sin dalla prima proiezione come il Leone d'oro. La giuria decise altrimenti, ma per noi Cous Cous rimane il vincitore morale della scorsa edizione del Festival.
Per diversi motivi. Perché è un grande affresco contemporaneo, perché ha la forza di un grande romanzo letterario, perché ha il coraggio di raccontare una storia tutta maghrebina senza cedere a troppi compromessi "occidentalizzanti" e lasciando che la questione "integrazione" si manifesti per suo conto, nello svolgimento naturale degli eventi. Perché è un omaggio al padre, ma anche alla matrilinearità, alla generosità delle donne, alla loro forza di concretizzare i deboli sogni maschili. Perché è un film arricchito da bellissime interpretazioni (Habib Boufares, Bouraouia Marzouk, la giovane e ormai lanciatissima Hafsia Herzi), perché ci riempie gli occhi di quel cibo povero e comunitario che è il cous cous e le orecchie di musiche che attraversano i deserti. Come un piccolo sasso gettato nell'acqua Cous Cous parte dal nulla per poi investire l'intero mare delle nostre emozioni. E quindi richiudersi nella casualità di un piccolo evento. È il cinema che preferiamo, è cinema a 360 gradi. Un delitto non vederlo.
Roberta Ronconi, Liberazione, 11/1/2008 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Abdellatif Kechiche |
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