Sogni - Yume
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Regia: | Kurosawa Akira |
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Cast e credits: |
Soggetto: Akira Kurosawa; sceneggiatura: Akira Kurosawa; fotografia: Kazutami Hara, Takao Saito, Masaharu Ueda; musiche: Shinichiro Ikebe; montaggio: Akira Kurosawa, Tome Minami; interpreti: Mitsuko Baisho (la madre), Toshihiko Nakano (il ragazzo), Akira Terao, Toshie Negishi, Mieko Harada, Martin Scorsese (Van Gogh); produzione: Hisao Kurosawa, Mike Y. Inoue, distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Giappone, 1990; durata: 121’ |
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Trama: | In otto episodi un uomo ripercorre nei propri sogni, travisandoli, i momenti più salienti della sua vita. Primo episodio: Sole attraverso la pioggia. Per un antica leggenda giapponese, non si deve guardare in quei rari momenti in cui la pioggia appare frammista al sole: è allora che due volpi vanno a nozze. Malgrado l’avvertimento materno, un bimbo curioso, tra gli alberi del bosco, spia un bizzarro corteo di volpi in ricchi costumi da cerimonia. Poi a casa troverà che qualcuno gli ha portato un minaccioso pugnale. Per ordine della madre, lui dovrà andare per boschi e prati a riconsegnarlo in una tana che esiste “là dove sorge l’arcobaleno”. Per scusarsi ed essere perdonato, pena la morte. Secondo episodio: Il pescheto. Ancora il bambino che, servendo il thè a quattro sorelline, è convinto che in casa vi sia con loro come ospite una graziosa fanciulla. Deriso da quelle, egli la scopre e insegue nel bosco e poi la perde. Ora è davanti ad un pescheto, ma gli alberi sono stati tutti scioccamente tagliati dagli uomini. Creature bambola in antichi vestiti hina dicono che la festa delle bambole mai più potrà aver luogo per quel massacro di alberi, ma l’imperatore, persuaso dal dolore e dal pianto infantile, concede di far rivivere per pochi istanti il meraviglioso pescheto di un tempo, in un turbinio di petali rosa. La misteriosa fanciulla riappare ad un tratto: ora sul fianco della collina c’è solo lei, trasformata in pesco. Terzo episodio: La tormenta. Una bufera spaventosa ha colto fra le rocce e le nevi di vette impervie quattro uomini. Tre cadono stremati dalla fatica, il più forte, che li comanda ed incita invano a continuare nel buio pur di ritrovare il campo, cade infine prostrato lui pure. Un canto lontano gli fa riaprire gli occhi: vicino a lui è una bellissima fanciulla tutta bianca, che lo ricopre e protegge amorosamente dal gelo. Egli balza in piedi, ma il mantello di lei ondeggia e sparisce in un vortice di vento. L’uomo desta i compagni ed un improvviso squarcio nella nebbia mostra la tenda e la sua luce rassicurante a pochi metri di distanza. Quarto episodio: Il tunnel. Un ufficiale, unico superstite, tornando a casa dalla guerra, deve attraversare un tunnel. Un cane-lupo sbuca fuori e gli ringhia addosso. Giunto dall’altra parte, ode un suono di passi ed ecco comparirgli davanti uno dei soldati del suo plotone, armato, affardellato e con il volto da morto, convinto però di essere ancora vivo e diretto a casa dai genitori. Pietosamente l’ufficiale lo persuade della triste verità (lui lo ha visto morire sul campo) e lo esorta a rientrare nel buio del tunnel. Si ode sempre più distinto lo strepito di decine di piedi e dallo stesso buio arriva inquadrato l’intero plotone. Tutti si mettono sull’attenti, impeccabili e con volti di gesso, ancora ai suoi ordini. L’ufficiale, sconvolto e umiliato, davanti a tutti confessa il rimorso e l’angoscia di essere lui solo rimasto vivo e fatto prigioniero. Scongiurando tutti di tornare per sempre al loro riposo, ordina il dietro-front, il plotone esegue e viene ingoiato per sempre dalla gola nera della galleria. Il cane riemerge dal tunnel, ringhiando più forte e avventandosi contro l’ufficiale. Quinto episodio: Corvi. Affascinato dagli straordinari quadri di Vincent Van Gogh, un pittore dilettante immagina di andare ad intervistare l’artista che sta dipingendo in pieno sole. Nella parte finale del suo viaggio, egli praticamente “passeggia” fra i fiori, le case ed i campi eternati dalle tele di lui. Rimasto solo dopo il breve incontro, il giovane si trova davanti ad un grande campo di grano, giallo come l’oro. All’improvviso il cielo è solcato da centinaia di corvi nerissimi, che stridono come impazziti. Sesto episodio: Fujiama in rosso. Una centrale nucleare è saltata e perfino il monte Fuji sembra liquefarsi nell’apocalisse. La folla terrorizzata fugge dovunque. Su di un estremo lembo di terra a picco sul mare un “uomo”, la moglie e due teneri bambini sono riusciti a scampare alla marea di lava ardente che, mescolata a residuati chimici, avanza implacabile. La donna, semi-impazzita e furente, grida la sua maledizione contro quelle centrali. Un individuo scampato finora anche lui, confessa che fu tra coloro che le vollero a tutti i costi. Poi si butta nel vuoto. Per gli altri non vi è speranza, anche se l’ “uomo” mulina disperatamente le braccia, a diradare la nebbia rossastra che avanza tutto contaminando e distruggendo per la radioattività. Settimo episodio: Il dèmone che piange. Sopravvissuto all’esplosione nucleare un viandante incontra, in una landa ventosa, nerastra e pietrificata, un dèmone che era stato un uomo ambizioso e ricco. Tra fiori giallastri, che la radioattività ha fatto crescere mostruosi – poichè tutto venne snaturato quando non assolutamente spento (tranne una incongrua rosa ora in boccio) il vecchio dèmone mostra al viaggiatore una vallata in cui vivono, nutrendosi gli uni degli altri, un centinaio di esseri tramutati in dèmoni bi e tricornuti, le cui appendici sono dolorose come cancri. Da qui le strida e il pianto. Il viandante, inorridito, fugge da quel residuo girone infernale. Ottavo episodio: Il villaggio dei mulini. In un idilliaco villaggio dai molti mulini, la vita scorre tranquilla come il fiumicello e del tutto serena. La Natura vi è rispettata e amata, come racconta un ultracentenario intento al suo lavoro. Si sente di lontano un’allegra marcia, scandita da fiati ed ottoni, che accompagna un canto: è tutto il paese che porta alla sepoltura una vecchia di 99 anni, il primo amore del vegliardo. Lui le va incontro con un mazzolino, poi si mette sorridendo alla testa del corteo funebre, mentre i bambini lanciano fiori. |
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Critica (1): | I due sogni d’apertura sono i più misteriosi, i più magicamente «belli». Nel primo vediamo un ragazzino di cinque anni avventurarsi da solo nella foresta (contraddicendo gli ordini della madre) per osservare il miracolo della natura. Dietro dei cedri giganteschi il piccolo fuggitivo è folgorato da una visione (come i due samurai nella foresta stregata del Castello della ragnatela): un corteo di «volpi» in abiti sgargianti celebra una festa di nozze eseguendo con leggerezza e grazia sovrumane una danza rituale. Il ragazzo si crede in paradiso, ma ecco che sentendosi spiato deve fuggire precipitosamente. «Hai visto quello che non dovevi vedere» gli rimprovera la madre e dopo avergli messo in mano uno spadino («vatti a scusare dalle volpi se no dovrai morire!») gli chiude la porta in faccia. Stringendo al petto lo spadino, il ragazzo si avvia titubante su un tappeto di fiori multicolori alla ricerca della «casa delle volpi», guidato come i Re Magi da un gigantesco arcobaleno che gli appare all’improvviso all’apertura di una verdissima valle. Alla soglia di questo paradiso terrestre il ragazzo si ferma in estatica ammirazione.
Il sogno successivo ha la stessa magica grazia, la stessa stupefacente bellezza. È il 3 marzo, festa della primavera e delle bambole (Hina Matsuri), le sorelline del protagonista (un ragazzo di dieci anni) e le amichette sostano davanti all’altare di famiglia su cui sono esposte le figurine che riproducono l’intera struttura della famiglia imperiale. Seguendo una misteriosa coetanea apparsa in giardino, il ragazzo si ritrova ai piedi di una maestosa collina a terrazze; sui ripiani sono disposti – come in una gigantografia dell’altare di famiglia visto poc’anzi – tutti i membri della corte in carne ed ossa, rivestiti di abiti sgargianti; rappresentano lo spirito degli alberi dei peschi in fiore; ma come potranno interpretare la rituale danza per la festa delle bambole se i genitori del ragazzo hanno distrutto il fiorente giardino di peschi della loro tenuta? Alle pesanti accuse dell’imperatore, il ragazzo esplode in un pianto dirotto; alla fine quando riesce a provare la sua innocenza l’imperatore lo premia permettendogli di vedere «per l’ultima volta» il suo pescheto in fiore: davanti agli occhi estasiati del ragazzo la corte al gran completo esegue un magico balletto sotto una nevicata di petali rosa; al termine di questa sontuosa danza generale, che rapirebbe di ammirazione persino uno Stravinski, lo schermo è invaso da una miriade di alberi di pesco in fiore che si sostituiscono alle «bambole imperiali»; tra gli alberi riappare la misteriosa fanciulla Flora che invita il ragazzo a seguirla. Ma l’incantesimo si rompe, gli alberi fioriti scompaiono di colpo, la collina dell’Eden si trasforma in un deserto, al ragazzo cacciato dal paradiso non resta che singhiozzare sconsolato davanti all’unico ramoscello fiorito che spunta da uno dei tronchi mozzati. La morale della favola ecologica è di una trasparenza cristallina, la sua veste formale semplicemente favolosa.
Nella sua Autobiografia il regista paragona gli inizi della sua carriera cinematografica ad una «dura e penosa ascensione in montagna». Il terzo sogno (Tempesta di neve) sembra l’illustrazione di un episodio drammatico di questa scalata: una cordata si è perduta tra i ghiacci; dopo aver speso le ultime energie per rimanere svegli i quattro precipitano in un sonno preagonico, solo il capocordata lotta disperatamente, ma sta per essere sopraffatto anche lui dalla morte impersonata da una affascinante sirena delle nevi che accarezzandolo lo invita ad abbandonarsi nelle sue braccia. Girato in studio, al ralenti, in una bruma da limbo, l’episodio traduce efficacemente l’incubo della paralisi e del soffocamento (i piedi di piombo che affondano nella neve). In venti minuti indimenticabili Kurosawa ha condensato un intero film sull’angoscia del trapasso dalla vita alla morte, una morte bifronte, consolatrice e terribile (stupenda la fulminea metamorfosi della sirena in fantasma diabolico che – dettaglio dei veli risucchiati nell’aria – alla fine svanisce nel cielo ridiventato sereno).
Nell’incubo successivo (Tunnel) un’intera compagnia di soldati «morti come dei cani» si mette sulle tracce di un capitano, l’unico sopravvissuto, che ritorna a casa dopo la fine della guerra. Affrontandoli, l’ex comandante pieno di sensi di colpa riuscirà a convincerli a ritornare nel ventre della terra ma si porterà dietro il «cane ringhioso» del rimorso. Le apparizioni del sinistro Cerbero e del plotone di fantasmi (emergono dal tunnel preceduti dallo spaventoso rimbombo dei passi di marcia), sono le cose più riuscite di questo episodio forse appena un po’ troppo dilatato.
Un po’ programmatici ed esplicativi, e quindi meno inventivi sul piano formale risultano i due incubi seguenti, Il Fuji in rosso e Il lamento dell’orco, che visualizzano due momenti successivi di un’apocalisse nucleare. Nel primo un’umanità in delirio fugge disordinatamente verso il mare terrorizzata dalla nuvola nera che scende inesorabilmente lungo le pendici del vulcano in fiamme. «Perché non ci hanno avvertito della gravità del pericolo?» domanda una madre di due bambini al compagno di fuga, un ingegnere nucleare. «L’essere umano è davvero insensato» commenta amaramente l’uomo di scienza prima di gettarsi in mare. Nel Lamento dell’orco il regista immagina cosa potrebbe restare della vita sul pianeta dopo l’inquinamento nucleare: pochi sopravvissuti mostruosi che si mangiano tra loro secondo rigide gerarchie gridano al cielo plumbeo il loro dolore, in paesaggi desolati dove le pozze d’acqua hanno riflessi sanguigni, e rimpiangono il buon tempo in cui il mondo era un giardino fiorito.
Dopo averci fatto attraversare l’inferno, nel sogno bucolico che conclude il film il regista ci invita a sognare il paradiso perduto: in un pacifico villaggio dei primi del secolo la gente vive in armonia con la natura e i cicli stagionali, e non sembra soffrire della mancanza di tutte quelle invenzioni tecnologiche che rischiano di «inquinare il cervello». Il vecchio «centenario» che sorridendo al visitatore filosofeggia mentre ripara la ruota del suo mulino ad acqua è impersonato dal decano degli attori di Ozu, Chishu Ryu. Prima di mettersi alla testa del corteo danzante che accompagna al cimitero una vecchina quasi centenaria, il suo primo amore di gioventù, il gran vecchio getta là scherzando una battuta folgorante: «Dicono che la vita è dura, ma creda a me, vivere è appassionante». Dopo che la gioiosa processione si è allontanata accompagnata dalle note nostalgiche di una suite di Ippolitov Ivanov (Scene caucasiche) il regista ci fa ascoltare la soave melodia delle chiare fresche dolci acque dei ruscelli che fanno danzare le erbe palustri.
Abbiamo lasciato per ultimo il sogno numero cinque, il più autobiografico, uno splendido omaggio del più espressionista dei cineasti giapponesi innamorato dell’occidente al più giapponese dei preespressionisti europei, Vincent Van Gogh. («Qui mi sento in Giappone» scriveva Van Gogh da Arles. «Invidio ai giapponesi l’estrema nettezza che tutto ha da loro; compongono una figura con pochi tratti essenziali con la stessa semplicità con cui uno si abbottona il gilet». Non dimentichiamo che il celebre Pont Langlois che ritroviamo all’inizio nel quinto sogno di Kurosawa era stato ispirato a Van Gogh da un quadro di Hokusai). Come in una gara tra creatori, l’aspirante pittore Akira Kurosawa che da giovane venerava e copiava Van Gogh restitusce al maestro olandese l’omaggio da questi reso ad Hokusai.
Mentre contempla ammirato un’esposizione di quadri di Van Gogh, un giovane pittore (alter ego del regista) si trova proiettato nei paesaggi trasfigurati dal maestro che ha tanto desiderato incontrare, attraversa il «Ponte Langlois» di Arles e poco dopo in fondo ad un campo di grano gli appare il suo idolo. Troppo assorto nel suo febbrile lavoro – mentre disegna getta intorno occhiate furibonde, dice di sentirsi «come una locomotiva», e sullo schermo in montaggio alternato vediamo una sbuffante locomotiva – il pittore olandese (Martin Scorsese) con l’orecchio bendato si sottrae all’ammiratore giapponese. Mentre il discepolo armato anche lui di tele e cavalletto insegue nei campi il fantasma di Van Gogh si ritrova – magia dell’elettronica – ad attraversare i quadri stessi del maestro, l’oggetto del suo desiderio come se quei quadri fossero la natura stessa! Questa promenade onirica all’interno dell’universo vangoghiano (il regista ha fatto dipingere con le pennellate larghe del maestro olandese decine di pannelli giganteschi che riproducono le celeberrime piane di Crau e Auvers, i campi di grano con cipressi e corvi... tra i quali si aggira come in un labirinto fauve il sognatore) è un’invenzione stupefacente; ci aggiriamo tra le pennellate di colore di Van Gogh come tra le maglie di una gigantesca tappezzeria. Quando alla fine della ricerca il fuggitivo apparirà un attimo, in cima a una collina, echeggia un colpo di arma da fuoco; con un fragore inquietante un nugolo di corvi si leva sinistramente nel cielo di un azzurro cupo; è la brutale profanazione della morte (in uno di quei campi di grano il pittore olandese si è sparato al petto il 27 luglio 1890). Solo un regista geniale poteva osare «animare» sullo schermo uno dei più inquietanti capolavori vangoghiani (Campo di grano con corvi).
«Non è una religione quella che ci insegnano questi giapponesi che vivono con tanta semplicità nella natura come se fossero essi stessi dei fiori? Non si può studiare l’arte giapponese senza diventare molto più allegri e felici; bisogna ritornare alla natura!» Sogni è l’illustrazione perfetta di queste illuminazioni che ritroviamo in una lettera di Vincent al fratello Theo (1888). Se vogliamo uscire dal caos della nostra epoca volgare e suicida, bisogna ritornare alle sorgenti, riscoprire la magia del silenzio, l’armonia con la natura, la saggezza degli illuminati; non è un po’ il tema segreto anche de La voce della luna girato da Fellini lo stesso anno?
Non tutti gli episodi (l’abbiamo visto) hanno lo stesso smalto; gli ultimi tre sono forse più «allegorie epocali che sogni» (Tornabuoni); ma in questo film interamente onirico di un ottantenne c’è una tale tensione, un tale vigore morale, una tale ricchezza di invenzioni visive che sarebbe davvero «ingeneroso» definirlo un capolavoro mancato come insinuava qualche critico. In un’epoca in cui di capolavori non ce n’è più, riuscire sei episodi su otto è un risultato eccezionale. I primi due episodi sono tra i più magici che il cinema abbia consacrato all’infanzia; in Bufera il regista ha condensato un intero film, Corvi è forse il più geniale omaggio che un regista abbia reso a un pittore (Kurosawa non ha certo aspettato il centenario vangoghiano). Il film conferma se non rivela un aspetto insospettato di un autore dai molti volti: Kurosawa non è solo un impareggiabile narratore realista-espressionista, un rinnovatore dell’epica, è anche un autentico visionario, basti ricordare gli «incubi» di L’angelo ubriaco, L’idiota, Kagemusha, i sogni ad occhi aperti dei fidanzati di Una meravigliosa domenica, dei pazzi illuminati di Dodès’ka-dèn.
Se nel suo film più onirico Kurosawa «non è stato abbastanza pazzo» (Kezich), se qua e là il moralista ha preso la mano al poeta, non è per stanchezza inventiva ma per delle ragioni etiche. «A ottant’anni un uomo ha soprattutto il compito di dire la verità, di trasmettere le sue esperienze agli altri» ha ripetuto più volte. L’insistenza forse ossessiva che ha posto nella sua appassionata difesa della natura è giustificata dall’altezza della posta in gioco (la sopravvivenza dell’umanità). «Non è forse l’emozione, la sincerità del sentimento della natura che ci guida?». La domanda di Van Gogh descrive perfettamente lo spirito che anima il suo discepolo giapponese.
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro Cinema-L’Unità, 5/1995 |
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