Professione: reporter
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Regia: | Antonioni Michelangelo |
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Cast e credits: |
Soggetto: Mark Peploe; sceneggiatura: Mark Peploe, Peter Wollen, Michelangelo Antonioni; fotografia (metrocolor): Luciano Tovoli; montaggio: Franco Arcalli, Michelangelo Antonioni; scenografia: Piero Roletto; musica: Ivan Vandor; interpreti: Jack Nicholson (David Locke), Maria Schneider (la ragazza), Jenny Runacre (Rachel Locke), Ian Hendry (Martin Knight), Stephen Berkoff (Stephen), José Maria Caffarel (proprietario hotel), Ambrose Bia (Achebe), Angel Del Pozo (ispettore di polizia), James Campbell (stregone); produzione: Carlo Ponti per la C.C. Champion / Les Films Concordia - Paris / CIPI Cinematografica, Madrid; origine: Italia, Francia, Spagna, 1974; durata: 124'. |
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Trama: | Il reporter anglo-americano David Locke viene inviato in Africa per un servizio giornalistico sulla guerriglia. Quando David Robertson, un uomo d’affari conosciuto sul luogo, muore nella sua stanza d’albergo, decide di assumerne l’identità.Entrato in questo giuoco per fuggire dal passato e dal presente che l'hanno nauseato, seguendo le indicazioni di un libretto d'appunti dello scomparso - che scopre essere un mercante d'armi schierato dalla parte del Fronte Unitario di Liberazione di un nuovo Paese africano- vaga da Monaco a Ginevra a Barcellona. |
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Critica (1): | [...] Professione: reporter è un film molto ricco di temi e molto bello. Il soggetto originale è del giovane inglese Mark Peploe, ma sceneggiandolo insieme a lui e a Peter Wollen, Antonioni vi ha trasferito i motivi della sua poetica. Innanzi tutto quello
dell'estraneità, anni fa si sarebbe detto dell'alienazione, per cui l'universo ad alcuni di noi si presenta dietro una lastra di cristallo, e le figure ci sembrano soltanto ombre di forme. Poi quello, connesso, della credibilità dei sentimenti, dove si esprime il dubbio che anche il mondo degli affetti sia un inganno della ragione. Infine il motivo della gabbia, coronato nelle sbarre della camera in cui si compie, non visto, il destino di David. Bisogna forse partire di qui, dal conflitto fra la rassegnata persuasione che non si può cambiar pelle e la spinta a conoscere quanto è fuori di noi, per comprendere bene il senso del film. In David, non a caso reporter, termine riduttivo rispetto a giornalista, la vitalità, la molla del dubbio, finisce com'essere mortificata dalla pratica di una professione che ti mette a confronto con una realtà tanto in subbuglio da sembrare ormai priva di connotati razionali se non la discerni prendendo partito. Inseguendo il mito della obiettività, probabilmente, David è sempre stato uno spettatore; nei suoi documentari televisivi registrava i fatti senza discuterli. Come nelle interviste accettava le menzogne dei suoi interlocutori, così ora, nei panni di Robertson, assiste senza emozione a episodi violenti e a scene che dovrebbero indurlo al sorriso. È un uomo che crede alle coincidenze, che la Storia sia governata dal Caso. La moglie e il collega partiti alla ricerca di sue notizie hanno dei dubbi tornando a guardare i suoi servizi, ma né loro né noi potremo esser certi che in David fossero sdegno e pietà quando filmava la fucilazione di un negro: forse cercava soltanto scene d'effetto. Se questo è vero (ma far troppa luce sottrarrebbe al film la sua poetica ambiguità) si capisce anche perché, dopo i primi contatti, gli acquirenti di armi scompaiano: Robertson aveva compiuto una scelta politica, Locke è un passeggero senza bagaglio e senza mappa. Se nessuno verrà più all'appuntamento non è soltanto perché la polizia ha messo la mano sugli agenti dei ribelli: sarà anche perché non c'è da fidarsi di chi non ha convinzioni. E se la ragazza finisce col
lasciarsi scacciare - ma come un cane irrequieto s'aggira nei dintorni - è perché i giovani non possono soccorrere una generazione che non sa cosa fare di se stessa. David è come il cieco di cui racconta: è vissuto troppo a lungo nel buio della coscienza perché, quando ritrova la vista, sappia usarla per penetrare le ragioni della miseria. È proprio inutile cambiarsi nome e cognome quando dentro c'è il disordine. Come ha espresso Antonioni queste riflessioni su un aspetto significante della civiltà dei mass media, e sull'autodistruzione cui siamo avviati se vogliamo soltanto mutar vita ma non sappiamo quale scegliere? Con un film che traduce in immagini di mirabile oggettività, rifiutando psicologismi ed esotismi, l'esitanza caratteriale dei protagonisti, e li integra splendidamente ai paesaggi. Liberiamoci subito dei difetti: qualche battuta di dialogo e qualche flash-back troppo didascalici, qualche frammentarietà dispersiva in scene di contorno, qualche superfluo formalismo (ancora gli scorpioni sul muro calcinato). Il corpo del film, ritmato da grandi silenzi e fascinose lentezze, è però saldissimo; stupendo il senso dello spazio, dell'aria sospesa che vi circola e lo veste d'arcano: magnifica la densità con cui Antonioni visualizza aiutato dall'intelligenza dei piccoli rumori, tutta una tastiera di situazioni anche minime, dove gli stati d'animo e le cose si associano e si contrappongono in allusive composizioni e in atmosfere ora rarefatte ora concitate. Pensiamo soprattutto all'inizio una lunga attesa percorsa di segni ostili o fissata in immobilità indecifrabili sul manto d'oro del deserto, e al finale, che è fra i capolavori di Antonioni: il piano-sequenza di una piazza - 7 minuti, girati in 11 giorni - ripreso dall'interno della camera di David, nel quale si sciolgono e si legano (emerge dalla memoria il titolo d'un film di Jancsó) le figure di quanti l'hanno finalmente raggiunto, in contrappunto con i gesti invisibili del protagonista, il sonno remoto del villaggio e l'ansioso guatare della ragazza. Ma pensiamo
anche a molti luoghi centrali: di grande risalto, come le scene di Barcellona in cui le architetture di Gaudì riepilogano la stravaganza dell'incontro fra un uomo che ha il nome di un morto e una ragazza senza nome; e di breve durata, come al principio, quando gli africani, anziché fornire a David notizie, sfruttano le sigarette del bianco, o come nella complimentosa scena delle nozze al cimitero, e in altri momenti carichi di luttuosi presagi. Sino all'epilogo, con quei tocchi di chitarra su bianche pareti, il silenzio incrinato da voci lontane, le luci del tramonto: stretta magistrale, per purezza e sgomento, d'un film che facendo coincidere l'identità personale con la presa di coscienza della realtà anche socio-politica continua e matura il discorso condotto in questi anni da Antonioni, col suo personalissimo linguaggio, sulle radici della nevrosi contemporanea e l'ambiguità del reale. La consuetudine di chiudere esprimendo pareri sulla prestazione degli attori si conferma, nel caso d'un film di Antonioni, un vizio assurdo. Fra personaggi e interpreti, fette e semi dell'immagine, la fusione è infatti anche qui risolta con un senso del vero così totale da essere magico. La bravura di Jack Nicholson è senza aggettivi: basta confrontare questa prova con quella burlesca data nell'ultima corvée per valutare la felicità dei suoi esiti in ruoli tanto diversi. Ma non c'è cronaca ironica o scandalistica che sminuisca anche l'intensità con cui Maria Schneider, restando se stessa, si concentra con torvo intuito in ritratti di donne inquiete, inclini a un vivere libero e nel contempo attratte dalla fragilità di qualche loro compagno. La fotografia di Luciano Tovoli e la scenografia di Piero Poletto sono i valorosi supporti d'una regia che mettendo il meglio della tecnica cinematografica al servizio d'un istinto eccezionale, d'una costante vocazione a sperimentare, d'una sofferenza sincera, rappresenta sotto la maschera del giallo uno spicchio ineffabile della nostra carestia.
Giovanni Grazzini, Gli anni Settanta in cento film, Laterza 1978 |
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Critica (2): | Un fotoreporter, David Locke, si trova per motivi di lavoro nello scalcinato alberghetto di una sperduta località sahariana. Locke è disperato senza un vero motivo. O meglio i motivi non mancherebbero, Locke non ama più sua moglie né il suo lavoro, non crede più a niente e a nessuno; ma il vero motivo, più profondamente, è che non ce la fa più a stare con se stesso. Nell'albergo c'è un commerciante, David Robertson, che somiglia curiosamente a Locke, quasi un sosia. D'improvviso, Robertson, che è malato di cuore, viene a morire. Allora Locke, nella speranza di riprendere gusto alla vita cambiando identità, sostituisce i documenti del morto con i propri, mette la roba propria al posto di quella del morto. Il trucco riesce. Il falso Locke, dopo un facile nulla osta, viene seppellito nel deserto; il falso Robertson vola verso una nuova vita. Ma cambiare identità non vuol dire cambiare se stessi; vuol dire cambiare la situazione sociale non quella esistenziale. Locke, mettendosi al posto di Robertson, si è disfatto dei propri motivi di vita, così insufficienti e così illusori; ma non per questo si è appropriato di quelli del morto. Locke scopre che Robertson trafficava in armi; ma non scopre, e come potrebbe? il segreto fulcro di quella vita. Così, pur nei panni del morto, Locke, più disperato che mai, continua a andare alla deriva. Con l'aggravante che Robertson era coinvolto in faccende complicate e pericolose per le quali ci vuole un'energia vitale che a lui fa completamente difetto. Locke per un poco vive sulla falsariga del morto; e cerca di inserirsi nel traffico di armi; ma ben presto si accorge che le armi gli interessano ancor meno delle fotografie. Va a Monaco, si incontra con gli emissari della guerriglia, accetta elogi e denaro; poi va in Spagna a fare il turista, si imbatte a Barcellona in una bella ragazza, ci fa l'amore. Ma apprende di essere ricercato così dalla moglie poco persuasa dalla sua fine come dai killer dell'antiguerriglia che gli stanno alle calcagna per ucciderlo; e allora, si rassegna e si reca all'appuntamento con la morte in un qualsiasi sonnacchioso villaggio spagnolo. Il sua cadavere viene presentato, per il riconoscimento, alle due donne delle sue due vite: la moglie inglese e l'amante spagnola. La prima comprende e nega di averlo mai visto; la seconda comprende anche lei e conferma che è Robertson. Questa volta Locke è davvero morto, definitivamente e completamente.
Questa storia di Professione: reporter, ultimo film di Michelangelo Antonioni, a tutta prima fa pensare al Fu Mattia Pascal di Pirandello. Ma Pirandello vuole dimostrare, in maniera sarcastica e paradossale, che l'identità è un mero fatto sociale, cioè che esistiamo in quanto gli altri riconoscono la nostra esistenza; mentre Antonioni sembra pensare giusto il contrario e cioè che esistiamo, sia pure come grumo di dolore, anche e soprattutto fuori della società. E infatti il discreto simbolismo del deserto nel quale Locke cerca di sfuggire al deserto della propria vita, indica il vero tema del racconto: il suicidio come unico mezzo per liberarsi di un'identità che è insopprimibile coscienza esistenziale. Locke si suicida due volte, una prima volta distruggendo la propria identità civile, come il personaggio pirandelliano; una seconda volta lasciando che i killer distruggano la sua identità fisica. Ma perché Locke si uccide? Probabilmente per il motivo per cui tanti oggi lo fanno: per l'impossibilità di conferire alla propria esistenza un valore simbolico, ossia un significato che in qualche modo la trascenda. Il doppio suicidio di Locke a questo punto proietta una luce rivelatrice sul mondo occidentale al quale egli appartiene, diventa esemplare di una condizione universale.
Michelangelo Antonioni, con Professione: reporter ha fatto il suo film più rigoroso ed essenziale. Fedele al principio che l'arte consiste più nel togliere che nel mettere, più nell'assenza che nella presenza, Antonioni non ha mai avuto la mano così leggera, così reticente e così allusiva. L'avventura di Locke è data per tocchi di una discrezione che rasenta l'impercettibile. L'intercambiabilità angosciosa dei luoghi, delle situazioni e delle persone nel mondo moderno è appena accennata; fatti massicci come l'amore e la morte sono sfiorati con qualche immagine fuggitiva e poi si passa ad altro. Fino all'ultima sequenza, forse la più bella, tipica del metodo di Antonioni, in cui la morte di Locke è trasferita senza residui nel tran tran quotidiano del borgo spagnolo. A questo punto si potrebbe anche sostenere che un simile modo di narrare mal sopporta quel tanto di romanzesco che c'è nel tradizionale intreccio proprio della sostituzione delle persone. Di solito Antonioni non raccontava una storia; i suoi film erano pure rappresentazioni di situazioni esistenziali. Non così Professione: reporter. Ma bisogna riconoscere che mai intreccio fu eluso con tanta accanimento. E infatti il film segna un ritorno di Antonioni, dopo i più “sociali” Blow Up eZabriskie Point, all'originarla tematica esistenziale.
Jack Nicholson è ineccepibile a forza di bravura e di naturalezza; ma il dolore di cui è addirittura materiato il suo personaggio non sembra essere sempre presente alla sua attenzione. Maria Schneider, stranamente somigliante ad Eleonora Duse, conferma definitivamente in questo film, con un gioco di fisionomia che ricorda appunto la grande attrice italiana, le sue qualità interpretative e fotogeniche.
Alberto Moravia (sta in Moravia al/nel cinema, Ass. Fondo A. Moravia, 1993), L'Espresso, 9/3/1975 |
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