Dies irae - Vredens Dag
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Regia: | Dreyer Carl Th. |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal dramma di Hans Wiers-Jenssen Anne Pedersdotter; sceneggiatura: Carl Th. Dreyer, Mogens Skot-Hansen, Poul Knudsen; consulenza storica: Kaj Uldall; fotografia: Karl Andersson; montaggio: Edith Schlüssel, Anne Marie Petersen; suono: Erik Rasmussen; musica: Poul Schierbeck; scenografia: Erik Aaes; costumi: Carl Sandt Jensen, Olga Thomsen, da bozzetti di Lis Fribert; interpreti: Lisbeth Movin (Anne Pedersdotter), Thorkild Roose (il pastore Absalon Pederssön), Sigrid Neiiendam (Merete, la madre di Absalon), Preben Lerdorff (Martin), Alberg Höeberg (il vescovo), Olaf Ussing (il giudice Laurentius), Anna Svierkier (Marte Herloff), Sigurd Berg (il maestro di canto), Harald Holst (l’intendente); produzione: Palladium Film; origine: Danimarca, 1943; durata: 93’. |
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Trama: | Dal romanzo "Anne Pedersdotter" di Hans Wiers-Jenssen e dal dramma (1918) di Karl Gustav Vollmoeller. Nella Danimarca del 1623, il pastore di una piccola comunità, Absalon Perderssön è sposato con la giovane Anne. Quando Anne era ancora una bambina, sua madre venne scagionata dall'accusa di stregoneria, proprio per intervento del rispettatissimo pastore che già predisponeva le cose per poter avere un giorno la mano di Anne. Quest'ultima, che intanto mostra interessi per le arti magiche, si lascia andare all'amore per il figliastro Martin e quando rivela al marito la verità, il suo desiderio di liberarsene si avvera: Absalon muore improvvisamente. Merete, l'anziana madre del pastore, la accusa allora di maleficio e finisce per convincere lo stesso Martin della natura di strega della sua amante/matrigna.Il dolore per l'atteggiamento del suo amante toglie ad Anne la voglia di difendersi da accuse ingiuste e oltraggiose. Così in un finale tragico e sorprendente, la donna si autoaccusa e, con un coraggio esemplare, si prepara al rogo. |
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Critica (1): | 1623. Anne, giovane moglie del pastore Absalon, nasconde la vecchia Marte, ricercata per stregoneria. Scoperta, la donna supplica Absalon di prendere le sue difese, ben sapendo che il pastore, in passato, aveva già protetto una donna accusata di stregoneria, la madre di Anne, allo scopo di ottenerne la mano della figlia. Marte viene torturata, obbligata a confessare e condannata al rogo dal giudice Laurentius. Anne, turbata dalla storia di sua madre, comincia a prendere interesse per le arti magiche. Diventa l’amante di Martin, il figlio di primo letto del marito, attirando l’attenzione della suocera, che la detesta. Absalon, dopo aver assistito alla morte di Laurentius, che si crede vittima di una maledizione da parte di Marte, torna a casa per trovarvi Anne che gli confessa, in un accesso di disprezzo per il loro matrimonio, la relazione con Martin. Il pastore non riesce a reggere alla notizia e muore, vittima di un infarto. Martin si offre di proteggere la matrigna al processo, ma all’ultimo momento, sentendola accusare di omicidio e stregoneria, si allontana, prendendo le parti della nonna. Delusa, Anne si accusa di ogni crimine e accetta di essere portata al rogo. Da una dozzina d’anni il nome di Carl Dreyer evocava quasi solo la storia del cinema e gli spettacoli dei cineclub. La sua opera pareva anch’essa arrestarsi alla soglia, ancora incerta, del sonoro. Questo lungo silenzio il cui carattere definitivo sembrava avallato dalla malattia che condusse Dreyer in casa di cura, è stato nondimeno rotto nel 1940, con il film che ci è dato vedere oggi. La sceneggiatura di Dies Irae rimane nella più pura tradizione del cinema scandinavo, di cui con stilemi profondamente diversi, Le Chemin qui mène au ciel e Ordet ci hanno di recente mostrato la continuità. È un’atroce e oscura storia di stregoneria. Un vecchio pastore ha sposato la figlia, molto più giovane di lui, di una presunta strega, che senza dubbio ha beneficiato, per il suo matrimonio, della clemenza del tribunale ecclesiastico. Il figlio del pastore, ritornando al villaggio, s’innamora, come era naturale, della matrigna che non tarda a riamarlo. Ma la suocera, che sospetta l’amore colpevole della nuora, si adopera per denunciare insidiosamente la sua ascendenza diabolica. In effetti la giovane donna sembra godere di uno strano potere. La realtà si piega curiosamente ai suoi desideri. Le basterà, una notte, desiderare ardentemente la morte di suo marito, per trovarsi alfine libera. Accusata formalmente di aver causato questa morte con sortilegio, chiede al suo amante di aiutarla. Troppo debole, questi si unisce alle accuse della nonna e dei teologi. Disperata, la giovane donna si condanna essa stessa al rogo, rifiutandosi di negare i suoi poteri magici. Quel che colpisce, in primo luogo, è l’abilità di questa sceneggiatura, in cui Dreyer è riuscito a mescolare allo stesso tempo la verosimiglianza storica e le esigenze razionaliste del pubblico moderno. Tutte queste azioni di stregoneria possono non essere che coincidenze, ma così inquietanti che la sola casualità sembrerebbe abbastanza improbabile. La disperazione finale dell’eroina spiegherebbe allo stesso modo sia la confessione sia la menzogna. In modo che l’azione benefici, a un tempo, di una perfetta giustificazione psicologica di un ipotetico intervento sovrannaturale e perfino dell’ambiguità, mantenuta tra questi due piani drammatici. Essa soddisfa il nostro gusto mediterraneo per il rigore e la semplicità dell’intreccio, senza privarci, allo stesso tempo, dei chiaroscuri della fantasia nordica. Ma la vera originalità di Dies Irae riposa ovviamente nella messinscena. Volutamente e sapientemente pittorica, tende a raggiungere lo stile della pittura fiamminga. Grazie a una tecnica ammirevole delle luci e dell’inquadratura, aiutata, d’altronde, dal contrasto dei toni dei costumi (abiti neri e larghi collari bianchi) la metà del film sembra un Rembrandt vivente. Le scene, di una sottile sobrietà, sono sufficientemente realiste, per evitare la voluta astrattezza che circonda i volti di La Passion de Jeanne d’Arc e tuttavia sono abbastanza stilizzate da essere solo una architettura drammatica e pittorica, su cui ripartire con esattezza la massa delle luci. Da un ritmo volutamente monotono, l’azione trae molta minore efficacia dal montaggio che dalla composizione dell’immagine. Si potrebbe magari rimproverare a Dreyer di aver spinto, qui, la scarnificazione sino alla povertà. Penso in particolare a quelle due brevi panoramiche, la cui oscillazione, da sinistra a destra, rimpiazza il gioco tradizionale dei campi e dei controcampi. Senza chiamare in causa l’estetica stessa del film, non si potrebbe approvare lo stile molto artificioso di alcune sequenze in esterni e la loro lentezza un po’ compiaciuta. Anche se per molti aspetti appartiene alla tradizione del cinema muto, Dies Irae si è tuttavia concesso il lusso di utilizzare il suono con una raffinatezza suprema. Il timbro e l’intensità dei dialoghi, quasi sempre sussurrati, conferiscono alle minime sfumature il loro pieno valore e le poche grida, che interrompono questa morbidezza sonora, ci riempiono di terrore. La qualità della interpretazione sarà così più accessibile al pubblico. Il prodigioso volto di Lisbeth Movin, già notata in La Terre sera rouge, è decisamente uno dei più interessanti dello schermo mondiale. Il personaggio della vecchia, condannata al rogo, possiede al tempo stesso il commovente realismo della vecchiezza e un non so che di sovrannaturale, che sembra emanare dalla sua stessa vecchiezza. Il pastore e sua madre sono perfetti, di fronte a loro il figlio sembra incerto e sbiadito ma il suo personaggio implicava forse questa malleabilità. E tuttavia deve pur esserci qualcosa che non funziona in questa meravigliosa macchina, perché tanta bellezza distilli così poca emozione e forse anche un po’ di noia. Come il suo contemporaneo Ivan il terribile, è un film al di fuori del suo tempo, una sorta di capolavoro anacronistico e senz’età. Perché mentre un’arte molto più evoluta, come per esempio la letteratura, permette allo scrittore di rimanere fedele, per tutta la vita, al suo stile e alla sua tecnica, il cineasta non gode di un’uguale indipendenza. Sembra che al cinema non vi siano affatto valori intrinseci; il genio ha il dovere di non lavorare se non all’avanguardia del fronte cinematografico. Per bello che sia, un film che non fa avanzare il cinema non è affatto cinema, proprio perché non è in armonia con la sensibilità del pubblico contemporaneo. Carl Dreyer è sempre grande, ma la sua opera che è entrata da una quindicina d’anni nella storia del cinema, non ne uscirà certo con Dies Irae.
André Bazin, L’Ecran français, 1947 |
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| Carl Th. Dreyer |
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