Re per una notte - King of Comedy (The)
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Regia: | Scorsese Martin |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Paul D. Zimmerman; fotografia: Fred Schuler; musica: Robbie Robertson; canzoni: “Jerry Langford Theme”, “Rupert’s Theme” (Bob James), “Fly Me to the Moon” (Frank Sinatra), “Swamp” (Talking Heads); scenografia: Boris Leven; costumi: Richard Bruno; montaggio: Thelma Schoonmaker; suono: Les Lazarowitz; interpreti: Robert De Niro (Rupert Pupkin), Jerry Lewis (Jerry Langford), Diahnne Abbott (Rita), Sandra Bernhard (Masha), Ed Herlihy (se stesso), Marta Heflin (ragazzina), Catherine Scorsese (madre di Rupert); produzione: Arnon Milchan per Embassy International; origine: Usa, 1983; durata: 109'. |
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Trama: | Rupert Pupkin, aspirante divo, passa la sua vita a preparare spettacoli che sogna di poter interpretare, prima o poi, alla televisione. Un giorno riesce a salire sulla macchina del suo idolo, Jerry Langford, chiedendogli di poter partecipare al suo show. Langford, per liberarsene, lo invita a telefonargli in ufficio. Da questo momento, per Rupert, è tutto fatto, e comincia così il suo assedio a Langford, ovviamente senza alcun esito. Dopo aver subìto, alla presenza della ragazza che lui corteggia, l’ultima umiliante disillusione, Rupert cambia tattica. Con l’aiuto di Masha, un’altra “fan” di Jerry un po’ squilibrata, rapisce il divo e chiede alla casa di produzione, in cambio di Langford, dieci minuti di esibizione. Il piano riesce, anche se, quando termina lo show, Pupkin viene subito arrestato. Ma il successo personale ottenuto, il grande clamore dell’avvenimento, e l’abile sfruttamento della situazione da parte dei mass-media tengono desto l’interesse per l’ingenuo Rupert anche quando questi si trova dietro le sbarre; cosicché, scontata la pena, quando Rupert uscirà di prigione troverà ad attenderlo i riflettori della celebrità tutti puntati su di lui. |
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Critica (1): | Scorsese stenta ad appropriarsi di questa storia non sua, ma dopo averne interiorizzato i significati si rende conto che l’ossessione di Rupert gli appartiene. A questo proposito, ha dichiarato: «Dopo Alice non ero pronto. Questo mi sembrava essere il film di una sola idea, quella del rapimento. Forse ero ancora troppo ossessionato, troppo vicino a Rupert, al punto da essere cieco. Non vedevo nulla da salvare in lui. Il personaggio di Jerry Langford mi appariva vuoto, inerte, trasparente. Nel suo campo, aveva realizzato ciò che si era prefissato. In quanto cineasta, da parte mia ero lontano dall’aver raggiunto questo stadio. È dopo Raging Bull che ho potuto guardare indietro. Ho compreso di essere stato altrettanto ossessionato nel mio campo, i film, di lui nel suo. Nel frattempo, avevo migliorato il modo di raccontare una storia: c’erano stati Taxi Driver, New York, New York e Raging Bull ed io ero maturo per affrontare un tipo di racconto più tradizionale, una forma apparentemente più facile di cinema. D’altronde potevo ormai identificarmi anche con Jerry. Potevo vedere Rupert con gli occhi di Jerry, e viceversa. Era una sensazione molto strana, talora terrificante, di potersi dividere tra questi due personaggi. Di vivere quest’ossessione e di osservarla dal di fuori»
Michael Henry, Entretien avec Martin Scorsese, in "Positif" n. 267 |
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Critica (2): | Attraverso la mediazione del suo alter ego De Niro, sente che «Rupert è un’estensione di me in quanto avrebbe fatto qualunque cosa per ottenere ciò che voleva. Quando mi resi conto che lui stava alla comicità come io stavo al cinema, capii. Rupert mi ricorda la fame che avevo negli anni Sessanta». Fame, naturalmente, di celebrità e di successo; voglia insopprimibile di emergere dalla mediocrità dell’anonimato, quella stessa che muove tutti gli altri “eroi” dei suoi film, fino all’Henry Hill di Goodfellas, il quale rivela con candore fin dalla prima battuta della propria rievocazione di aver sempre sognato di fare non il presidente ma il gangster, «per poter essere Qualcuno in un ambiente dove nessuno lo è». Questa ricerca affannosa ed esclusiva del successo in quanto tale assume in Rupert Pupkin connotazioni patologiche che ne fanno quasi un mitomane, un auto escluso dal contesto sociale e familiare col quale comunica soltanto mediante una radicale sostituzione del reale con l’immaginario, una costante alterità simboleggiata dalla sua stessa identificazione feticistica con il medium televisivo. Ma ai confini della patologia si trovano anche la stralunata Masha, spinta dal desiderio parossistico di toccare il proprio idolo e di dare libero sfogo a un culto sfrenato e venato di perversione sadomasochistica, e lo stesso Jerry Langford, vittima alienata di un sistema che l’ha ridotto a una spersonalizzazione estrema e a una solitudine da recluso, tristemente consapevole del destino riservato ai vari Pupkin nel momento in cui raggiungono il loro scopo e diventano altrettanti Langford.
Scorsese sceglie di rappresentare tale ossessione con uno stile volutamente piano e lineare, vicino alle tecniche narrative del linguaggio televisivo, privilegiando i campi medi e angolazioni non deformate. Ne risulta privilegiata la meditazione e l’introspezione più che in ogni altro suo film precedente, e pertanto un soggetto da commedia assume le dimensioni inquietanti di un apologo sulla sostanziale tragicità dell’arte comica e sulla natura fascinatoria dello spettacolo come mascheratura della realtà, come rarefatta coagulazione del mito della fama ottenuta al prezzo del distacco solipsistico dal mondo. Purtroppo, Re per una notte si rivela il più grave insuccesso commerciale della carriera del regista, tanto da costringerlo al silenzio per più di due anni.
Gian Carlo Bertolina, Martin Scorsese, Il Castoro Cinema-L’Unità, 6/1995 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Martin Scorsese |
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