Teatro di guerra
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Regia: | Martone Mario |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Mario Martone; fotografia: Pasquale Mari; montaggio: Jacopo Quadri; interpreti: Andrea Renzi (Leo), Anna Bonaiuto (Sara Cataldi), Iaia Forte (Luisella Cielo), Roberto De Francesco (Diego), Maurizio Bizzi (Maurizio), Salvatore Cantalupo (Rosario), Antonello Cossia (Antonello), Francesca Cutolo (Francesca), Giovanna Giuliani (Giovanna), Vincenzo Saggese (Vincenzo), Toni Servillo (Franco Turco), Marco Baliani (Vittorio), Peppe Lanzetta (Silvano), Nina Di Majo (Giornalista); produzione: Angelo Curti, Andrea Occhipinti, Kermit Smith; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia, 1998; durata: 113. |
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Trama: | Da tre anni è i corso la guerra nell'ex Yugoslavia e a Napoli un attore e regista, Leo, inizia le prove dello spettacolo teatrale "I sette contro Tebe", che vorrebbe mettere in scena a Sarajevo. La compagnia lavora in un sala piuttosto disagevole che si trova tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli. Altrove, in un teatro stabile, un'altra compagni sta preparando "La bisbetica domata" di Shakespeare. |
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Critica (1): | Libertà per l’individuo – nei grandi drammi popolari di Eschilo – significa libertà dal potere del clan e dalla giustizia del clan. Nelle tragedie blockbuster del V secolo a.C. la Legge, le regole, lo stato di diritto soppiantano l’istituto della vendetta di sangue, tremendo avanzo-zombie del vecchio stato a base familiare. La città-stato, dunque, come elemento indispensabile del divino ordine di un mondo laico...
Non piacerebbe a Eschilo il liberismo moderno, così preoccupato, invece, che le meschinità dell’individuo non siano oppresse dallo Stato (che pure ne è il protettore supremo). Anche se il conflitto individuo-stato è posto, e non solo nell’Antigone di Sofocle, ma anche nel suo Seffe a Tebe (o Seffe contro Tebe, come traducono Edoardo Sanguineti e Mario Martone), almeno nella scena finale, se pure è autentica: quando l’autorità politica del re si urta col fervore religioso delle donne che minacciano di sovvertire lo stato in un momento di estremo pericolo. E questo in nome di valori destabilizzanti certo, ma eticamente superiori, non gretti (in quel caso la pietas, seppellire i morti, chiunque siano), di comportamenti “fuori legge”, ma volutamente al di là di regole “maschili”, astratte, iscalfibili.
Mentre la legge funziona solo se sa di essere vivente, peritura, sottoposta a controllo e sgonfiaggio democratico... come ci hanno insegnato, se non vogliamo scomodare Craxi contro Berlinguer, Mao e l’ispettore Callaghan: non c’è Stato, Esercito, codice scritto o ordine superiore che ci possa obbligare a compiere gesti eticamente ripugnanti. Ribellarsi è giusto. Ecco allora Teatro di guerra e perché Mario Martone, sensore sensuale, ha scelto Seffe contro Tebe per cercare di comprendere lo sventramento di Sarajevo e la secessione sanguinosa della Bosnia svoltasi a un passo da noi senza che riuscissimo a fermare un solo mortaio: parla di un assedio, di una guerra fratricida e dell’inconciliabile scissione tra clan arcaico e individuo “a venire”. E lo ha voluto mettere in scena nei quartieri spagnoli di Napoli cuore dilaniato di una metropoli multietnica e polistratificata, come tante altre, brulicante di comunità, bande e clan (anche artistici) non solo cruentemente antagonistici. Ha scelto quel classico come pretesto, work in progress, laboratorio scenico e profilmico per realizzare il terzo lungometraggio, Teatro di guerra, opera corale vibrante, insinuante, avvolgente ma “scevra da compiacimenti immaginifici”, come diceva Strawinski di Statie. Un film denso senza orpelli eccentrico nella sua naturalezza di precisione millimetrica nel gioco delle emozioni. Ma anche un film diroccato, a dominanza cromatica blu/marrone, come quelli girati a Beirut, e in divenire, “aperto” che fa, senza sottolinearlo, critica del quotidiano, della politica, dell’esistenza e delle “forme” vigenti. Proprio perché è dedicato a “todos mis antigas”, titolo di una delle 9 canzoni del soundtrack (tra Moscato e Nusrath Fateh Ali Khan, McSolar e B.K. Bostik), quella di Celia Cruz.
E durante il quale la vita si mangia interamente i rimasugli di estetica, spettacolo e “scrittura” scenica. E perfino sul corpo dell’attore, e sulle sue “smorfie” danzanti il film compie “misfatti”: le complesse e eleganti rughe del mestiere, le metamorfosi mozzafiato delle “maschere”, dei ghigni sinceri/insinceri, delle pose accademiche o subumane, Martone li riduce, dopo i lifting continui, a imbarazzante dissimulazioni di esistenze dilaniate. Non teatro. Fotodinamismo della sua inutilità, inattualità. Anche se sono tutti solidali, se sono tutti un “clan”, questi attori entrano in guerra cannibalesca tra di loro e tra se stessi. Ecco il film sulla Sarajevo dentro di noi. Già. Film virtuosistico, perché di “attori che recitano e che non recitano o che non vogliono recitare” si tratta. Il film entra in feeling col Cassavetes di La sera della prima. Cosa non si farebbe (iniettarsi di tutto, tradire l’amato, accordarsi col capomafia....) pur di arrivare al grado zen della performance? E, per il lavoro di montaggio Jacopo Quadri), di costituzione d’oggetto e di messa in quadro e in movimento (scene di Muselli e Tramonti, luci di Mari, suono di Iacquone e Rondanini), fa citazione degli impasti free-jazz di Faces, far di scherma tra teatro e schermo. E anche rimanda a Blues Brothers, perché c’è la band in cerca di forza dentro un ambiente ostile. E al dissidio tra Stanlio (Leo il puro, il looser, cioè Andrea Renzi) e Ollio (Franco Turco il “vincente” arrogante, cioè Toni Servilio).
Teatro di guerra, ambientato nel ’94 (a 3 anni dall’inizio del conflitto), interpretato da una ventina di attori e di “presenze forti” napoletane o quasi o per nulla (Toni Servilio e Andrea Renzi, Anna Bonaiuto e Lidia Koslovich, Roberto Di Francesco e Iata Forte, Marco Baliani e Peppe Lanzetta...), racconta il tentativo svaporato di una compagnia off di portare a Sarajevo Eschilo in italiano. Gesto politico, di solidarietà e lotta. Vediamo le prove e la vita degli attori. I compromessi i momenti magici e fetidi, il cambio di attrici, l’amicizia e l’ostilità del quartiere. È la Napoli di Martone, a partire da un “centro” attorno al quale, come in un horror si aprono, baratri e prospettive trompe l’oeil.
Roberto Silvestri, il manifesto, 1/5/1998 |
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Critica (2): | |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Mario Martone |
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