Sweetie - Sweetie
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Regia: | Campion Jane |
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Cast e credits: |
Soggetto: Jane Campion; sceneggiatura: Jane Campion, Gerald Lee; fotografia: Sally Bongers; musiche: Martin Armiger; montaggio: Veronika Haussler; scenografia: Peter Harris; costumi: Amanda Lovejoy; suono: Tony Vaccher; interpreti: Genevieve Lemon (Sweetie), Karen Colston (Kay), Toni Lycos (Louis), Jon Darling (Gordon), Dorothy Barry (Flo), Sean Callinan (Simboo),Sean Fennel (Boy Clerk), Emma Fowler (Sweetie da piccola), Louise Fox (Cheryl), Robin Frank (Ruth), Jean Hadgraft (Mrs. Schneller), Michael Lake (Bob), Paul Livingston (Teddy Schneller), Anna Merchant (Paula), Bronwyn Morgan (Sue), Andre Pataczek (Clayton); produzione: John Maynard per Arena Film/Ugc; distribuzione: Mikado Film; origine: Australia, 1989; durata: 110’. |
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Trama: | Kay, una ragazza australiana di famiglia modesta, è condizionata fin dall’infanzia dalla prepotente e viziata sorella maggiore, Sweetie, che sopra a un albero del giardino aveva fatto il suo “castello”, luogo magico, pieno di lampadine colorate, dove regnava come principessa, vietando però a lei di salirvi. Ora Kay, divenuta adulta, lavora e ha una vita ordinata, in cui non c’è amore, ma solo sesso, però ha mille paure segrete perché soffre di gravi turbe psichiche, delle quali gli altri non si accorgono. Quando una chiromante le descrive l’uomo che amerà seriamente, Kay lo identifica subito con Louis (fidanzato di una collega), si unisce a lui e il loro amore sembra felice. Ma, dopo un anno, viene ripresa dalle sue angosce. Improvvisamente le piomba in casa Sweetie, col suo attuale compagno, Bop, un ex drogato; e ora Sweetie, grassa, sciatta, delirante e vitalissima, si istalla con Bop nel piccolo alloggio in cui vivono Kay e Louis, mettendolo a soqquadro. |
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Critica (1): | Crudele destino di un tenero film. Rivelazione a Cannes '89, in Italia sonnecchia per oltre un anno. Annunciato e ritirato, riannunciato e (quasi) non uscito, affacciatosi al mercato delle videocassette ma anche qui ritirato e riannunciato. Sweetie pare possedere la maledizione destinata, appunto, ai maledetti film. Censura inconscia? Chissà.
Le premesse, d'altronde, lo avevano fatto intuire: propensione al mostruoso; l'altra faccia del pianeta delle donne che somiglia più, però, al pianeta delle scimmie; reazioni contrapposte durante le visioni festivaliere: fastidio o fascino, impossibile una congiunzione. Cinema sgradevole? Se ragionassimo come ai tempi di Scelba, sì. Ma le immagini di Jane Campion - trentacinquenne della Nuova Zelanda, tre cortometraggi al suo attivo - sono parenti strette di quelle di David Lynch. La diversità non è (solo) dei diversi. L'impossibilità di essere normali è risaputa. Già visto? Niente affatto. Sweetie è costruito come un incubo. E come un incubo, vive dentro un sogno. E i sogni non sono mai gli stessi. Non sono stati mai visti. Non si rivedranno mai. La provincia australiana o neozelandese (fa differenza?) la sapevamo frequentata da misteriose presenze (Pic-nic ad Haning Rock) o proiettata a mo' di prototipo futurista (Mad Max). E la conoscevamo finanche per la sua triste origine: un'isola, un continente, un arcipelago nati come carceri naturali, galeotti osservati a vista dai pescecani, lotta per la sopravvivenza, legge della giungla, il diritto del più forte. E Sweetie ne è una discendente: libera, anarchica creatura che scopa se ha voglia di scopare, mangia se vuole mangiare, dorme se ha sonno, piscia dove le capita, manda al diavolo genitori e famiglia se la mattina non le dice un gran bene. Ma nemmeno la sorella, Kay, apparentemente tranquilla e in realtà spaventata, pulcino che non voleva uscire, è "d'esempio": va a letto con un ragazzo al fine di verificare l'autenticità di malefiche profezie rilasciatele da una vecchia strega con figlio handicappato; nasconde alberelli sotto il letto e vaga, più che vivere, subisce, più che cercare. E il padre? La moglie lo abbandona non prima di avergli preparato cibo per mesi, incellofanato e frezeerizzato. Ama e (ma) non riesce ad amare; vorrebbe "aiutare" Sweetie, si dispera per l'incapacità.
I destini sono compiuti e, in fondo, ognuno si sceglie i propri. Kay e Sweetie, così diverse, così uguali. L'albero che la prima nascondeva sotto il letto, diviene luogo di morte per la seconda. Non è lo stesso ma è come se lo fosse. Anzi, certamente è lo stesso. Sweetie, adiposa ingombrante presenza, che viene da lontano e quindi vicina, vicinissima a noi - a loro: a Kay, al padre - che, quando sfiorata, dona sapori conosciuti solo da coloro che non hanno paura di mischiare il dolce al salato, l'amaro all'amabile, ha deciso. Nuda, sporca e cattiva, sale sull'albero e minaccia. E schernisce. Il buio si avvicina ma è come se vedesse, per la prima volta, la luce. L'unica e l'ultima a credere davvero nella vita, perché chi rifiuta ha più chances di capire. La morte non è la disperazione. La vita (non) continua. Ma Sweetie, vera rivoluzionaria, non c'è più. E Kay, ancora più spaventata, girovaga con se stessa. Jane Campion squadra, grandangola, scava e non giudica. Sweetie è morta: il mondo è più orfano, il cinema meno.
Aldo Fittane, Segno Cinema n. 45 ottobre 1990 |
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Critica (2): | (...) Alla vigilia della realizzazione di Sweetie, Jane Campion ha affermato che il film non avrebbe dovuto dare «l’impressione di essere completamente programmato, esplicito» – perché questo sarebbe stato in palese contrasto col suo pensiero e con la sua vita, definiti «un po’ caotici». In realtà – e siamo qui alla terza per così dire «fertile» contraddizione – questa storia di ordinaria e quotidiana follia dà invece proprio la sensazione di essere stata realizzata secondo un preciso e preordinato schema compositivo che, non basandosi mai su principi di convenzionalità espressiva, non prevede nemmeno semplici e anonimi momenti di raccordo tra una scena cruciale e l’altra. È così che con Sweetie Jane Campion non ignora il cinema (e tantomeno la sua sintassi!) ma piuttosto il cinema tradizionale – ovvero la consuetudine secondo la quale forme e colori devono essere assoggettati, in fase di ripresa, alla scorrevolezza del racconto. Qui il percorso narrativo assume semmai la fisionomia sdrucciolevole e tormentata di una sintassi volutamente sregolata, che ci impedisce sistematicamente di avere presa sugli eventi, di osservarli con didascalica chiarezza. Oggetti e volti vengono proposti secondo angolazioni inconsuete, così da sottrarre sempre l’obiettivo della m.d.p. all’imperativo della centralità prospettica, del punto di vista che agevola una lettura complessiva di quanto avviene all’interno dell’inquadratura. (...)
In Sweetie la raffinata orchestrazione visiva del racconto si rivela un grimaldello grazie al quale è possibile accostarsi ad una desolazione straziante eppure sotterranea, ad una situazione familiare dove angosce e incomprensioni covano sotto la cenere di una paralisi dell’espressione – una sorta di catatonia estesa ad un nucleo familiare, che finisce per azzerare quasi tutte le peculiarità individuali. Cristallizzando i termini del conflitto, osservando attraverso il filtro della forma le scorie della «normalità», la Campion ci fa percepire gli aspetti patologici di una vita ripiegata su se stessa, dove le pulsioni più autentiche – a furia di venire represse a viva forza – hanno acquisito una spaventosa forza disgregatrice, che, fatta eccezione per la protagonista, si lascia soltanto indovinare, ma che proprio per questo assume una dimensione profondamente inquietante.
Complesso è il rapporto tra personaggi e paesaggio, che merita senz’altro una trattazione estesa e a parte. In questa sede, ci limiteremo ad osservare come gli scenari naturali vengano ripresi dalla Campion con maggiore parsimonia rispetto sia. ad altri cineasti australiani che al suo successivo An Angel. Immagini non numerose ma preziose – comunque determinanti nel rilevare l’orizzontalità del paesaggio e nel caricarlo di un senso di ostile indifferenza verso coloro che lo abitano. La conformazione dell’ambiente sembra quasi contribuire a sua volta ad appiattire i sentimenti, ad annichilirli in un contesto di implacabile uniformità. Sotto questo profilo, riveste una precisa e importante funzione simbolica l’albero sul quale Sweetie compie il suo estremo e testardo gesto di trasgressione. Nel momento in cui piattezza e desolazione si rincorrono a vicenda tra uomini e natura, la verticalità dell’albero diventa un significativo e orgoglioso emblema della lacerante sensibilità della protagonista – della sua disperazione che affiora alla superficie in modo dirompente, frantuma la crosta della monotonia e si erge come elemento caratterizzante e distintivo del proprio ambiente. Sweetie non vuole scendere, non vuole entrare nuovamente a far parte di quella impassibile e rassegnata condizione di vita che, là sotto, sbiadisce i personaggi e la vegetazione, soffocando in una paralizzante uniformità ogni slancio vitale.
Leonardo Gandini, Cineforum n. 302, 3/1991 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Jane Campion |
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