Club dei 27 (Il)
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Regia: | Zoni Mateo |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Mateo Zoni; fotografia: Daniele Ciprì; montaggio: Andrea Maguolo; interpreti: Giacomo Anelli, Irene Carra, Pietro Anelli, Noa Zatta,Ettore Scarpa, Claudio Guain; produzione: Malia, Kobalt Entertainment, Istituto Luce Cinecittà; distribuzione: Istituto Luce Cinecittà; origine: Italia, 2017; durata: 63’. |
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Trama: | Ventisette sono le opere del massimo compositore nazionale. Nel paese del melodramma c'è il club esclusivo dei 27 - e non è il Forever 27 delle rockstar morte a quell'età - ma "solo" di vere e proprie persone che si chiamano come le opere di Giuseppe Verdi.
Si presentano così: "Piacere, sono Traviata, Rigoletto, Giovanna D'arco... eccetera, eccetera".
Tutto scorreva nel dolce furore di questi abitanti di pianura, fino all'arrivo di un bambino di undici anni: si è procurato una divisa, la stessa spilla, vuole essere uno di loro. Un altro miracolo del maestro? Forse. O probabilmente, tutto calcolato, tra questa gente piena di "sinistra inclinazione musicale", come scriveva Bruno Barilli.
Finzione o realtà? Sono le domande di chi si imbatte per la prima volta in questa storia, talmente incredibile da sembrare costruita nei dettagli. Così reale da apparire irreale al cinema, che a sua volta è una menzogna per raccontare la verità. |
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Critica (1): | “Da giovane Verdi fece dei lavori magnifici. Fu acclamatissimo. Gli anni della maturità li passò a supervisionare le messe in scena e a orchestrare i lavori precedenti. Banalità. Poi, da vecchio, un giorno qualcuno andò a dirgli: “E’ morto Wagner”. E lui si riaccese. Compose i suoi capolavori negli anni successivi, dopo decenni di vuoto.” Queste le parole di Orson Welles, cinque giorni prima della morte, avvenuta il 10 ottobre 1985, alla fine della sua ultima intervista. C’è poco altro da aggiungere a questo film, inclassificabile e indefinibile, se non le parole di Giacomo, il giovane protagonista: “Lasciatevi trasportare”. (Mateo Zoni)
Prima mondiale al “Festival internazionale del Documentario Visioni dal mondo, Immagini dalla realtà” di Milano (5-8 ottobre) per il nuovo film documentario di Mateo Zoni, Il Club dei 27, che dopo l’esordio alla regia con il tenero Ulidi piccola mia e questa volta esplora il mito di Giuseppe Verdi, con una pellicola a metà strada tra il film documentario e la fiction. Ma quello di Zoni è un Verdi rubato alla solennità, ai busti e alle celebrazioni, portato nell’Italia del 2017, a spasso nelle sue terre tra Parma e Piacenza, a portata di nativi digitali. A restituirne il mito, il sogno, la visionarietà, il romanticismo e l’orgoglio, è un ragazzino di appena quattordici anni, Giacomo, che ha un sogno: entrare nell’esclusivo "Club dei 27", un’associazione dedita alla conservazione e diffusione del culto per il Maestro. Una cerchia strettissima, composta da soli 27 uomini, tanti quanti le opere composte da Verdi, di cui ognuno porta il nome. Giacomo è troppo piccolo per poter entrare a farne parte, il suo sogno è inammissibile. Ma a parte l’età, ha i numeri e la tenacia per non smettere di sognarlo. Con una storia e un protagonista incredibili, Zoni mette in luce perché ancora oggi Verdi sia l’autore d’Opera più rappresentato al mondo, perché ogni giorno nel pianeta almeno due volte al giorno vada in scena una Traviata, perché Verdi sia un motivo di orgoglio per ogni italiano, e perché certe storie non smettono di appassionarci e farci sognare a occhi aperti.
Prodotto da Kobalt Entertainment, Malìa e Istituto Luce Cinecittà, con Rai Cinema e con il patrocinio di SIAE e del Comune di Parma, il film ha fotografia di Daniele Ciprì e il montaggio di Andrea Maguolo (Lo chiamavano Jeeg Robo), con una serie di preziosi filmati dell’Archivio Luce su episodi mitici o buffi della lirica del ‘900, e, naturalmente, una colonna sonora da sogno firmata da Verdi.
cinecittà.com, 4/10/2017 |
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Critica (2): | Il Club dei 27 nasce alla fine del 1958?
Gli adepti non sono né musicisti, né filologi musicali o studiosi: sono scelti per essersi distinti nella comunità, per il loro animo nobile, etico e soprattutto per la passione militante per il Maestro. La carica dura a vita. Il club si riunisce una volta alla settimana e rinnova il suo organico, allo scopo di onorare e diffondere l’opera di Verdi, organizzando concerti, manifestazioni e conferendo onorificenze agli artisti e studiosi di tutto il mondo che si sono distinti in questo campo.
Come nasce questo suo lavoro?
Da una conversazione con Beppe Attene, che indicava una curiosità riguardo al Club dei 27 e all'unicità del rapporto ideale tra un compositore e la sua terra, sono partito in cerca di un punto di vista interessante e sono andato a conoscere i veri membri del Club. Poco prima di andarmene, uno di loro, Aida, mi ha segnalato un bambino di undici anni che si era procurato il loro abito sociale e li seguiva alle manifestazioni liriche, con l’ambizione non troppo segreta di farne parte. Ho chiesto subito di presentarmelo e, quando ho conosciuto Giacomo e l'ho sentito parlare, ho capito immediatamente di avere il film in mano.
Quanta verità e quanta finzione nella vicenda narrata?
Il film alterna momenti documentaristici tout court, come la lunga intervista in cui Giacomo undicenne racconta se stesso e la visita alla casa di riposo per musicisti di Milano. Poi la lavorazione ha avuto vicissitudini produttive e abbiamo girato il resto circa due anni dopo, con il protagonista cambiato fisicamente e ho dovuto rimodulare la storia, abbandonando la spontaneità stuporosa del bambino per una recitazione più tradizionale che impone una messa in scena preparata. Il risultato, come al solito nei miei lavori, è un mélange tra le due cose.
Giacomo, bambino e poi adolescente, potrebbe far pensare a un ragazzo isolato e saccente.
In un primo momento, ma non lo è affatto. Questa sua capacità di condurre un'esistenza normalissima (che nella finzione ho adattato a me stesso per immedesimazione), considerata una passione così anomala, è una lezione di vita da cui dovremmo imparare tutti. Non mi stupirebbe che, prima o poi, diventasse veramente un membro del Club per consumata coerenza estetica.
Lei è un amante dell’opera lirica, in particolare di Giuseppe Verdi?
Il virus dell’Opera me l’ha trasmesso un amico quando avevo vent’anni più o meno: in famiglia nessuno la ascoltava, a parte mia nonna che, per tradizione popolare, da bambino mi rimandava elaborazioni fantastiche delle rappresentazioni a cui assisteva regolarmente, sommando le vicende, spesso complicatissime e improbabili dei libretti, confondendo i personaggi, ma facendomi capire che in fondo le storie erano meno importanti della musica e del grande spettacolo in sé. Essendo nato a Parma, Verdi lo sento nel DNA e non posso farci nulla, anche se, lo stile del film è vicino allo spirito mozartiano o quello leggero di Rossini, più che alla sua potenza drammatica.
Come definirebbe il suo lavoro?
Si potrebbe dire che, uno dei tratti distintivi del mio lavoro sia indagare dove cominci la fiction e finisca la realtà, con l’ambizione di dimostrare che forse differenza non c’è perciò sono poco disposto a dare definizioni. Preferisco porre dubbi, quando il cinema vorrebbe essere rassicurante. A differenza di Ulidi piccola mia, il mio primo documentario, che si rafforzava nel “silenzioso” e nello sparire completamente, qui invece, posta una base di realismo all’inizio si parte poi verso la finzione sognata, fantastica.
Quanto l’Archivio Luce ha contribuito nel fornire materiali di repertorio?
È stato fondamentale, per dare spessore alla vicenda attraverso la storia della musica lirica, e ho perso le notti nel frugare tra questi materiali bellissimi e splendidamente restaurati. Il difficile semmai è stato rinunciare ad alcune cose in favore della fluidità narrativa, soprattutto al filmato unico di Toscanini che dirige l’orchestra della NBC, perché avevo scelto almeno il doppio dei cinegiornali che poi ho utilizzato. In questo devo ringraziare i montatori Andrea Maguolo e Fabio Ricci che hanno fatto un lavoro certosino.
(Intervista al regista Mateo Zoni, cinecitta.com, 5/10/2017) |
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