Ferroviere (Il)
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Regia: | Germi Pietro |
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Cast e credits: |
Soggetto: Alfredo Giannetti; sceneggiatura: Pietro Germi, Alfredo Giannetti, Luciano Vincenzoni; scenografia: Carlo Egidi; fotografia: Leonida Barboni; musica: Carlo Rustichelli; interpreti: Pietro Germi (Andrea Marcocci), Luisa Della Noce (Sara Marcocci), Sylva Koscina (Giulia Marcocci), Saro Urzì (Gigi Liverani), Carlo Giuffré (Renato Borghi), Renato Speziali (Marcello Marcocci), Edoardo Nevola (Sandro Marcocci), Riccardo Garrone (amico di Marcello); produzione: Carlo Ponti per la EnicPonti-De Laurentiis; origine: Italia, 1956; durata: 120'. |
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Trama: | La sera di Natale, Andrea, macchinista delle ferrovie, dopo il lavoro fa una lunga sosta all'osteria, dove beve abbondantemente. Rientra tardi e trova i famigliari irritati per il suo contegno. Più di tutti è addolorata la figlia Giulia, che è prossima al parto. Ella incomincia a sentirsi male e dà alla luce un bambino nato morto. Il triste evento impressiona vivamente Andrea: egli ha spinto alle nozze la figlia che sentiva di non amare più l'uomo che l'aveva resa madre. L'investimento accidentale di un suicida e la mancata osservazione di un segnale di blocco provocano un'inchiesta a carico del ferroviere ed aggravano la sua crisi psichica. Intanto la famiglia si disgrega: un violento diverbio tra padre e figlia, provocato da una illecita relazione di Giulia, coinvolge anche il secondo figlio, già adulto e dedito a losche imprese. I due rompono ogni relazione col padre; soltanto la moglie e il piccolo Sandro gli conservano il loro affetto. Per aver lavorato durante uno sciopero Andrea si trova in contrasto con i compagni di lavoro e il suo isolamento aumenta per cui cerca conforto nel vino e nella compagnia di donne equivoche. Il piccolo Sandro è l'unico che non ha mai perduto la sua fiducia nel padre: forte del suo puro ed innocente affetto, riuscirà a sottrarre Andrea dal suo pessimistico abbattimento. Andrea si ammala gravemente: dopo tre mesi di letto, la sera di Natale egli vede ricostituirsi intorno l'amicizia dei suoi compagni di lavoro. Anche i due figli, che hanno risolto positivamente i loro problemi, tornano a lui. Egli riprende la sua chitarra e dedica alla moglie una dolce serenata ma la morte improvvisa e serena viene a chiudere le sua travagliata esistenza. |
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Critica (1): | II ferroviere di Pietro Germi è un bel ritratto d'uomo. Forse a Germi piacerebbe di più che si dicesse ritratto di operaio italiano. A noi piacerebbe parlare, e ci sembra che saremmo ugualmente vicini al vero, di un autoritratto. (Anche perché Germi si interpreta da solo, perché no?, credete che queste cose siano casuali?). Ma alla fine di tutto forse è meglio dire semplicemente ritratto d'uomo; come si legge sotto certe tele di vecchi ma robusti pittori, dalle quali un ispido personaggio ignoto a figura intera vi sogguarda tutto teso nel sospetto che voi possiate sentire l'odore di quella gagliarda, nobile mascolinità che è il suo orgoglio ma anche la sua dannazione, perché gli ha precluso sempre la facilità degli affetti, il libero espandersi dei sentimenti. Questa specie di virilità pesante da portare c'è sempre stata nei film di Pietro Germi: è ciò che gli dà un posto tutto suo nella storia del cinema italiano; ma nel Ferroviere c'è più che in tutti gli altri film; perciò II ferroviere ci sembra il miglior film di Germi e insieme un'opera unica nel cinema di questi anni. E non v'è contraddizione nel fatto che il personaggio visto da Germi con più finezza di cuore, se così si può dire, non è l'uomo ma è la donna, la moglie. La grandezza di uomini come il ferroviere è data dalle donne che gli stanno accanto: le umiliate, le oppresse trionfatrici (alla fine) di codesti uomini. Ed ecco perché Germi ha composto qualcosa che noi diciamo ritratto d'uomo; perché ha capito che bisogna arrivarci attraverso la donna. Altrimenti il ritratto non sarebbe esistito: un pugno di polvere: vanità. II ferroviere è la storia d'una famiglia italiana come ce n'è tante (e quanti, quanti uomini come lui ho conosciuto dalle mie parti, la Romagna, quand'ero ragazzo). Il padre ha lavorato duro tutta una vita per farsi una posizione, come può farsela un operaio, un ferroviere; e questa ambizione soddisfatta (guida l'elettrotreno), ma più ancora l'ambizione meno confessato ma ben più virile ed acre di aver sfamato la famiglia lottando giorno per giorno; ha fatto di lui un despota familiare. Capita, appunto, capita così spesso: è la battaglia che ci inaridisce, è questo disputare il pane giomo per giorno che ci porta a proclamare diritti su chi ci vuoi bene, invocando l'autorità quando c'è troppo orgoglio in noi (orgoglio maschile) e non abbastanza forza per invocare gli affetti. E così capita anche che non si riesca più a parlare, a spiegarsi: lo dice un personaggio, la donna, in una scena con la figlia che è un po' la chiave del film e insieme il momento più bello, più poetico: questa confessione amara e tuttavia tenerissima, perché è la confessione del fallimento dell'organismo familiare, non la sconfessione dell'amore familiare e coniugale. E si arriva al crollo: quando lui, che sino a quel momento si è eretto con tutto il busto su chi lo circonda, alto, vigoroso, rozzo, un Farinata delle ferrovie, perde d'un colpo solo lavoro e affetti, stima di se stesso e rispetto dei suoi figli. E pare che perfino la moglie lo lasci solo; restandogli accanto soltanto il figliolo minore, un bambino, che ha negli occhi un'immagine fantastica della grandezza terrena di suo padre e che non si rassegna a perderla. La ricerca del padre nelle osterie, da parte del bimbo, è il tratto più sensibile di questa intuizione così felice, così poetica, dell'animo infantile appassionato e fedele. L'onestà di questo bambino è l'anima del film; l'onestà della moglie, che accoglie infine il ferroviere di nuovo a casa e che accompagna i suoi ultimi istanti di vita con un sorriso misterioso e chiarissimo, è l'umanità del film. Una storia italiana, si diceva, e in verità lo è molto: non solo nel ferroviere, specie nel finale, quando le sue debolezze e i suoi difetti prevalendo sulla sua forza lo umanizzano; non soltanto nella forza di tutt'altro genere di cui è armata la donna nel superare avversità, dispiaceri, umiliazioni; ma anche nel senso del tempo che passa, e ci muta, e a poco a poco ci spegne, a uno a uno - noi italiani, io credo, essendo il popolo più sensibile a questo metafisico rincrescimento, che è poi il senso dell'eternità. Ma di tante altre cose belle è pieno il film: si veda, per esempio, con che pulizia di linguaggio è realizzato lo sciopero; e come sia psicologicamente giusto che proprio lo sciopero cagioni il crollo definitivo del ferroviere; e quanto sia vero l'affanno con cui egli invoca "le sue ragioni" d'essere stato crumiro, come se chiamasse a testimone il Cielo delle sue carnali debolezze d'uomo. E di cose meno belle è anche pieno. Qua e là s'avverte un senso come di dispersione: per esempio, tutta la parte della figlia, di suo marito e del suo amante; ci si sente il gusto del romanzesco un po' voluto, da intellettuale, che ci pare di aver visto sovente in Germi. Certe battute suonano false, certe situazioni portate oltre il limite, forse proprio per quel medesimo gusto dell'intreccio; in modo che il film pare a tratti gonfio. Non un film perfetto dunque, ma un film molto bello. E si è già detto come pensiamo che sia "unico". Bravissimo poi è Germi nella parte del ferroviere: avrebbe dovuto farla Spencer Tracy, ma pensiamo che nessun attore, né italiano, né americano, avrebbe avuto quegli occhi e quelle mani del peso giusto, da operaio italiano, da ferroviere italiano, da Farinata delle macchine a vapore. E bravi tutti gli altri: il bambino, certo, che si chiama Edoardo Nevola e che ha un talento da far paura; e la ragazza, la debuttante Sylva Koscina; ma soprattutto Teresa della Noce, nella parte della moglie. Potete giudicare il film come volete, ma pensiamo che non sarà facile non commuoversi dinanzi alla trepida fermezza di carattere che ha disegnato un'attrice fino a ieri ignota.
Vittorio Bonicelli, Tempo, 6/12/1956 |
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