Melancholia - Melancholia
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Regia: | Engel Andi |
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Cast e credits: |
Scritto da Andi Engel e Lewis Rodia; musica: Simon Fisher, montaggio: Christopher Roth, direttore della fotografia: Denis Crossan; scenografia: Jock Scott, costumi: Annie Curtis Jones; produzione: Lichtblick Filmproduktion; interpreti: Jeroen Krabbé (David Keller), Susannah York (Catherine lanham Franck), Ulrich Wildgruber (Manfred), Jane Gurnett (Sarah Yelin), Kate Hardie (Rachel Lanham Franck), Saul Reichlin (dr Adolfo Vargas), John Sparkes (Roger Dere); distribuzione: Mikado; origine: Gran Bretagna, Germania,1991; durata: 87'. |
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Trama: | David è un tedesco che nel '68 aveva vent'anni. Aveva partecipato attivamente ai movimenti studenteschi di quel periodo, sognando di rinnovare la politica del suo paese. Dopo il fallimento degli ideali, se ne è andato a Londra. Ma ora si presenta l'occasione di sentirsi di nuovo ribelle: si tratta di assassinare un medico militare cileno, reo di delitti politici. |
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Critica (1): | «Einaml dem Fehlläuten der Nachtglocke gefolgt - es ist niemals gutzumachen (Una volta che si è risposto ad un falso allarme, non si può più rimediare)»
Questa ironica citazione da "Un dottore di campagna" di Kafka, sul persistente squillo del telefono, conclude il primo film di Andi Engel, un film di classe, elegante e piuttosto enigmatico. Il falso allarme è il richiamo, come di sirena, del '68 e la promessa di Rivoluzione o, più praticamente, è lo squillo del telefono, che dà l'avvio e conduce la narrazione, rievocando al protagonista il suo passato: studente attivista, appassionato, una persona partecipe delle sofferenze altrui ed appassionato di Joseph Beuys? Perchè la divisione in settimane che vanno da venerdì a venerdì? Cristo, Giuda, le stazione della "Via Crucis"? Forse il telefono sta tentando di richiamare David Keller alla vita per affrontare le conseguenze dell'essersi rinchiuso in se stesso, prima nella sua galleria ben arredata, ghetto della critica d'arte, e poi nel ritiro toscano da scrittore? Melancholia sollecita domande serie ed opportune su politica, moralità individuale, storia e memoria, azione e contemplazione, fedeltà agli ideali e coraggio nell'ammettere di sbagliare. Il film parla di principi e di opportunismo, di mezzi e di fini, di tattica e di strategia, del sacrificio privato allo scopo di stimolare la coscienza pubblica e, di non minor rilievo, parla di senso morale dei "media", cinema incluso. La malinconia, nel passato, è stata privilegio dei re e maledizione degli uomini d'azione; in Baudelaire è la noia che inghiotte il mondo in uno sbadiglio, per Freud è l'eccessiva identificazione con un oggetto di amore perduto e per i sociologi è alienazione e anomia, "un male della ipercivilizzazione".
Ciò che non è abbastanza chiaro, comunque, è quanto seriamente il film prenda il suo protagonista, se, in conclusione, lo abbandoni alla sua introspezione misantropica e autodistruttiva, o se accolga l' autoidentificazione di David con la figura stoica e forse tragica di una incisione di Dürer.
Il titolo e la seduzione della cinepresa, con il viso di Jeroen Krabbé rude e allo stesso tempo angosciato, suggeriscono l'ultima alternativa, ma la sua scontrosa autocommiserazione ed il fatto che egli abbia così poco da dire per se stesso in tutti i confronti chiave con l' ipocritica stratega Manfred, o con Sarah, afflitta ma intensamente giusta, rende difficile riconoscergli un dilemma morale autentico o attribuirgli la nobiltà del "Weltschmerz" (dolore universale) dell'intellettuale.
In un certo senso il reale conflitto non è tra l'appassionato d'arte e l'attivista, tra Van Gogh ed il Cile, ma tra David, il nichilista sentimentale, e quelli che pensano in termini di politica, sia Manfred, il brillante avvocato in tuta sportiva e grossa Mercedes, sia Sarah l'attivista in prima linea della memoria e della sofferenza. Questi due animali politici sembrerebbero avere molto più da dirsi l'un l'altro di quanto entrambi abbiano da dire a David, forse perché entrambi lo usano come uno strumento. Allora perché ci casca? Disgusto di sè o l'ultima opposizione morale? Ognuno può chiedersi se non uccida Vargas semplicemente perché è troppo delicato per reggere ciò che Sarah gli dice a proposito della tortura (la scena più forte del testo e recitata in modo toccante) e se spacchi la testa a Manfred perchè egli non possa più sopportare di ascoltare verità sgradevoli su di sé.
A questo proposito Melancholia è in un certo senso incerto: Cile, torture e violenza terrorista sono argomenti scottanti, ma questo non è un film impegnato. Come tale, non vuole essere un altro Missing, Sotto Tiro o La Storia Ufficiale, con una partecipazione appassionata, emozioni che lasciano senza fato, e folle di comparse che riempiono gli esterni; d'altra parte il film non si accontenta di esplorare semplicemente la nausea esistenziale del protagonista mentre sfocia con dolore in indifferenza post-moderna (che significherebbe lasciare i sintomi vaghi, le cospirazioni mezze immaginate e le torture mentali).
È un problema che si trova anche nei film recenti di Chris Petit, o David Hare; set pieni di atmosfera, scarni, eleganti, un eccellente sviluppo ed una fotografia sua, ma una stona un po' troppo d'attualità per non lasciare desiderosi di trame più tese e cambiamenti mirati come i buoni drammi televisivi di una volta. Che cosa ha in mano Vargas che riguarda l'Amministrazione degli Stati Uniti. Qual è l'abboccamento che sta curando? Il film è anche troppo concentrato sul protagonista per non rendere curiosi a proposito delle sue valutazioni, dei suoi valori, delle sue motivazioni (qual era il rapporto fra David e Manfred quando erano studenti? Cosa avrebbe detto David al marito di Catherine se si fosse fermato per pranzo?)
Certamente queste non sono domande legittime, ma non si insinuerebbero nei film di Wim Wenders, un modello maggiore per Engel come lo era per Petit. Engel riesce a fare per Londra ciò che Wenders fece per Parigi e Petit per Berlino: far apparire le caratteristiche delle capitali europee inquietanti e misteriosi nella loro familiarità. Come L'amico americano, Melancholia fa ricorso ad Hitchcock (attraverso Highsmith) per il suo espediente centrale: lo scambio di un crimine allo scopo di evitare la sua scoperta. Esso ha anche la stessa ironica morale: l'uomo malvagio è solitamente quello giusto, dopo tutto.
Nelle sue parti migliori, c'è in verità qualcosa di Kafka e Dostoevsky: una volta che è conscio della sua situazione, David tenta di adeguare il crimine alla pena.
Ma la veste del thriller ha i suoi inconvenienti. Esso è trattato molto abilmente, con momenti di intensa suspence. Tuttavia, tanto più efficace è la suspence tanto più le questioni politiche e morali tendono a dissolversi
Il film sembra prendere le parti di David: esso accetta la violenza quando non può risolvere i problemi. Hitchcock non avrebbe mancato di dare la chance alla vittima di incontrare il suo killer allo scopo di mostrare lo scock del riconoscimento al momento della morte; Vargas per contrasto viene finito con l'anonima efficienza riservata ad un bue abbattuto con un martello. Engel, non c'è dubbio, non voleva fare un film alla Hitchcock, o coinvolgerci in goffe identificazioni.
Il finale, invece, richiama Il Grido di Antonioni, nel modo in cui la cinepresa lascia il protagonista. Ma il sospetto è che il regista lo avesse già abbandonato molto prima.
Thomas Elsaesser, Monthly Film Bulletin, n. 669, 1989 |
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