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Ultracorpi - l’invasione continua - Body Snatchers (The)


Regia:Ferrara Abel

Cast e credits:
Soggetto: Raymond Cistheri e Larry Cohen, dal romanzo The Body Snatchers di Jack Finney; sceneggiatura: Stuart Gordon, Dennis Paoli, Nicholas St. John; fotografia: Bojan Bazelli; musica: Joe Delia; montaggio: Anthony Redman; scenografia: Peter Jamison; costumi: Margaret Mohr; suono: Michael Barosky; trucchi speciali: Tom Burman, Bari Dreiband-Burman; effetti speciali: Phil Cory (superv.); interpreti: Gabrielle Anwar (Marty Malone), Terry Kinney (Steve Malone), Meg Tilly (Carol Malone), Billy Wirth (Tim), Forest Whitaker (maggiore Collins), Christine Elise (Genn Platt), R. Lee Ermey (gen. Platt), Reilly Murphy (Andy Malone), G. Elvis Phillips (Pete), Kathleen Doyle (Mrs. Platt); produzione: Robert H. Solo e Michael Jaffe, per R.H. Solo prod; distribuzione: Warner Bros; origine: USA, 1993; durata: 87'.

Trama:Marty Malone racconta in prima persona la storia degli avvenimenti successivi al suo trasloco presso una base militare dell’Alabama con il padre Steve, la sua seconda moglie Carol e il fratellino Andy. Un uomo di colore l’ha avvertita: "Ti prendono mentre dormi", ma la realtà le si rivela soltanto in seguito all’attacco di un’orrendo embrione che risucchia gli esseri umani per assumerne le sembianze. Tutta la sua famiglia è inglobata dagli alieni; un amico, il pilota Tim, riesce a salvarla, ma per fuggire dove? Chi crederà mai al suo racconto? Lo scontro armato fra invasori e superstiti non è che l’inizio della fine.

Critica (1):Body Snatchers si trovava già in lavorazione quando Abel Ferrara era impegnato a vendere il suo ultimo film da indipendente, Bad Lieutenant (1992). Bene accolto dalla critica e affermatosi come instant cult presso i festival di tutto il mondo, lo sconvolgente noir interpretato da Harvey Keitel doveva aprire al regista le porte di Hollywood, rimaste finora sigillate più per scelta dell’autore che per deliberato ostracismo. La Warner Bros si aspettava di beneficiare del gran battage multimediale scatenatosi intorno all’apologo a sfondo religioso girato da Ferrara in una New York la cui ambientazione ricorda Trash (1969) di Paul Morrissey; invece non è successo niente, e il terzo adattamento dal romanzo di science fiction di Jack Finney è stato distribuito (senza convinzione) in Europa ma è rimasto ai margini del circuito commerciale americano, dove lo si vedrà forse direttamente su video. Perché quest’improvvisa marcia indietro? La risposta è evidente: nonostante l’astuta scelta di una giovane protagonista femminile come "voce narrante" del film (assente dalle versioni di Don Siegel del 1956 e di Philip Kauffian del 1978), e a dispetto di un robusto cast comprendente Meg Tilly, Forest Whitaker (Bird, The Crying Game) e R. Lee Ermey (Full Metal Jacket), Ferrara non ha concesso quasi nulla alla logica della produzione mainstream: il nuovo Body Snatchers è come l’invasore extraterrestre che dà il titolo al film, un’opera "indipendente", risolutamente "d’autore", insinuatasi sotto le spoglie del prodotto industriale. (Rispondendo a un critico inglese, che aveva usato parole durissime nei suoi riguardi durante una conferenza stampa, lo stesso Ferrara si è limitato a sostenere che "questo non è un action movie come gli altri. Questo è un film d’arte").
Al di là dell’ironia sottintesa a tale replica, il punto di vista di Ferrara appare legittimato da incontestabili dati di fatto: Body Snatchers è filmato per uno schermo panoramico, ma i suoi mostri sembrano essere il risultato di un finanziamento a basso profilo (nella sequenza dell’ospedale, un corpo "risucchiato" dagli alieni si sgonfia come un pallone bucato); anziché perseguire una caotica apoteosi del male, la storia si spegne in un tenebroso ancorché spettacolare anticlimax, suggellato da un didascalico "The end" sull’immagine finale; nel rifuggire a priori la parabola narrativa della trasformazione del quieto vivere quotidiano in incubo planetario, la vicenda si apre su una sequenza di trasloco presso una base militare dell’Alabama segnata in partenza da una torbida angoscia. Salvo rare eccezioni, quando i titoli di testa dicono che il film è stato scritto da tre o più sceneggiatori – in questo caso ce ne sono addirittura cinque – vuol dire che la stesura dello script non è stata una passeggiata, oppure che troppi cuochi hanno ficcato il naso in cucina; due fra i nomi accreditati sono anch’essi "autori" di solida reputazione (Stuart Gordon e Larry Cohen), ma il loro status non è certo quello degli storyteller multimiliardari. Queste le premesse; Ferrara ha fatto il resto sfogando in Body Snatchers una tipica predilezione, già visibile in Bad Lieutenant e dispiegata a briglia sciolta nel precedente King of New York, che consiste nell’utilizzare il montaggio come strumento di frantumazione del racconto: una frantumazione sistematica rivolta alle atmosfere del film piuttosto che al suo articolarsi in episodi nettamente separati nel tempo e nello spazio. Degni di nota, in questo senso, sono due momenti in cui l’azione si cristallizza in riflessione. Steve Malone fugge dalla propria casa e cerca di mettersi in contatto con il maggiore Collins, l’unico che lo aveva avvertito del pericolo imminente; prima che l’incontro abbia luogo, Ferrara imprime agli eventi un ritmo meccanico, martellante, che si arresta di colpo in un monologo di Forest Whitaker nella penombra del suo ufficio. Non c’è vera e propria transizione fra le due parti, l’una è interrotta senza preavviso e l’altra si svolge come se essa fosse in corso da una buona mezz’ora; poi i mutamenti arrivano, e dal momento in cui l’ufficiale si toglie la vita la scansione del tempo ritorna d’un colpo quella di prima, come un motore d’automobile che passa dalla retromarcia a una forsennata velocità.
Secondo episodio: Marty Malone è appena sfuggita all’attacco di un embrione che l’aveva imprigionata nella vasca da bagno, e Steve si precipita verso la moglie Carol per intimarle di fuggire al più presto. Un pervasivo groviglio di effetti sonori sottolinea il crescere della tensione (alcune inquadrature non comprendono che pochi fotogrammi), ma l’uno e l’altra svaniscono nell’agghiacciante immobilità del dialogo fra marito e moglie. È il miglior momento del film; per l’attrice Meg Tilly è anche il passaporto d’uscita dal ruolo di comprimaria ad alta percentuale di saccarina a quello d’interprete di primo rango. A giudicare dalla sua prestazione in Body Snatchers, Abel Ferrara deve averla vista al lavoro nel sottovalutato (e inedito al cinema per l’Italia) Leaving Normal di Edward Zwick (1992), in un personaggio di idealista irrimediabilmente esclusa da ogni contatto con la realtà. Il suo sguardo vuoto, davvero "alieno", la trasforma qui in un mostro di sconcertante verità. Ferrara la inquadra dal basso, su uno sfondo neutro, mentre istruisce il consorte sull’inevitabilità del suo destino: "Non è questo il momento di perdere la calma. Rifletti. Vuoi fuggire. Dove? Dimmi, dove? Nessuno ti crederà. Nessuno ti ascolterà. Nessuno".
Questa frase-simbolo di Body Snatchers potrebbe valere come una confessione dello stesso regista sulla sua identità creativa. A differenza di Tim Burton, altra mentalità "indipendente" che si è integrata senza sforzo (e quasi senza volerlo) nel meccanismo delle majors, Ferrara è stato e rimane un corpo estraneo ai metodi e alle finalità del cinema a grosso budget, e rimarrà tale pur essendone assorbito (ma il patrocinio del suo prossimo film, già quasi pronto, non è ancora sicuro). Viene in mente un’altra battuta di Body Snatchers, pronunciata dal maggiore Collins prima di morire: "Quel che conta è l’individuo". Come affermazione "politica" - soprattutto in un contesto così trasparentemente metaforico - la frase è senz’altro datata, al punto dà sfiorare il ridicolo. Potremmo tuttavia inquadrarla in una preoccupazione morale che Ferrara ha posto al centro dei suoi ultimi film (eroi "maledetti", dèmoni caduti nel baratro dell’angoscia), oppure rileggerla come una problematica dichiarazione d’intenti rivolta alla fabbrica mutante dell’inimmaginario di massa: "Non mi avrete". Può darsi. Ma chi lo ascolterà? Chi gli crederà?
Paolo Cherchi Usai, Segnocinema n. 63, settembre-ottobre 1993

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Critica (4):
Abel Ferrara
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