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Voce della luna (La)


Regia:Fellini Federico

Cast e credits:
Soggetto: liberamente ispirato al romanzo "Il poema dei lunatici" di Ermanno Cavazzoni; sceneggiatura: Federico Fellini, Tullio Pinelli, Ermanno Cavazzoni; fotografia: Tonino Delli Colli; musica: Nicola Piovani; montaggio: Nino Baragli; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Maurizio Millenotti; interpreti: Roberto Benigni (Ivo Salvini), Syusy Blady (la sorella di Aldina), Giordano Falzoni (il professore), Dario Ghirardi (il giornalista), Angelo Orlando (Nestore), Nadia Ottaviani (Aldina), Marisa Tomasi (Marisa), Eraldo Turra (l’avvocato), Paolo Villaggio (Prefetto Gonella); coproduzione: C. G. Group Tiger Cinematografica, Roma - Cinemax, Paris; origine: Francia/Italia, 1989; durata: 118’.

Trama:È notte, c’è la luna piena. Ivo Salvini è attratto da una voce; si affaccia a un pozzo, poi un gruppo di uomini che attraversa la campagna lo incuriosisce. Li segue e assiste da dietro le persiane allo spogliarello della zia di uno di loro. Questi si accorge della sua presenza e lo caccia perché non ha pagato. Arriva un amico di Ivo e insieme se ne vanno. Seguono strani incontri, e in uno di questi la nonna di Ivo gli dice che “ricordare è bello, più che vivere”. In un’altra notte, di pioggia, Ivo riesce a contemplare il volto della sua amata mentre dorme finché questa, svegliatasi, lo caccia via. La mattina dopo nella piazza del paese c’è grande confusione di venditori ambulanti e frotte di turisti giapponesi che fotografano tutto. Ivo si rifugia su un tetto, la folla pensa che voglia suicidarsi, poi i vigili del fuoco lo salvano. Intanto i fratelli Micheluzzi cercano di catturare la luna, che si dice dia ordini a piccoli diavoli sulla terra. Ci riescono, e tutto il paese vuole vedere la luna prigioniera. È la televisione, un grande schermo, che proietta le immagini. Un uomo gli spara, e lo schermo si spegne. Allora la piazza si svuota e Ivo, rimasto solo e chiamato dalla luna, discute con lei.

Critica (1):Nonostante la quieta e rasserenata malinconia della conclusione con quella nota sulla necessità del silenzio (una frase con cui il lunare eroe si fa portavoce di Fellini), mi sembra il suo film più sconsolato. Non lo è solo per il ricorso ai temi della morte (echi di quel Mastorna che l’autore rumina da decenni), della follia (recupero di quel film de Le libere donne di Magliano di Tobino, che non volle o riuscì a fare), della vecchiaia, della solitudine, dello sgomento della vita. La voce della Luna è anche un desolato commento sulla volgarità e l’abominio del tempo presente. La sequenza – ancora ilare ma non più epica come un tempo – della gnoccata e dell’elezione di Miss Farina, con quella precipitosa e tetra partenza delle autorità in uno stridore di motori e di gomme, e la scena della discoteca mostruosa, risolta con lo struggente e ruffiano “coup dei théatre” del valzer di Strauss, sono eloquenti. La voce della Luna è una fiaba contro il rumore di fondo.
Morando Morandini, Il Giorno, 1 febbraio 1990

Critica (2):La voce della Luna è una delle più affascinanti e poetiche avventure di Federico Fellini; attraverso sorrisi e buffonerie, una visione del mondo inquietante, disillusa e straziante. Fra leggende, favole e bizzarrie, Fellini ripropone tutto il suo sterminato universo di simboli, memorie, invenzioni: senza mai cadere nel “già visto”, nell’autocitazione, in filigrana si ritrovano, dalla prima all’ultima, tutte le opere del Maestro. Ma in quest’ultimo capolavoro, Fellini filtra ogni stilema, ne ripropone altri di grande originalità, svela una immaginazione intatta e sempre più feconda: con un caleidoscopio di caratteri in cui dolce e amaro, umorismo e malinconia, esuberanza e raffinatezza psicologica, sogni d’evasione e analisi spietate, acutezza di osservazione e varietà di temi, trame sottilissime, si rinnovano in un vorticoso carosello fantastico, ricco di sequenze memorabili. Astratto e fiabesco, irreale e magico, ilare e grottesco, La voce della Luna parla dei miti e dei riti di oggi (la televisione, i fast-food, le discoteche...); si rifugia nel sogno di ieri (la Bassa Padana, l’affabilità emiliano-romagnola, le fiere di paese, la festa del gnocco con Miss Farina, le cascine, le beffe...); si dispiega oltre la cortina effimera e rumorosa del presente. Se Amarcord era il “villaggio totale” della memoria, La voce della Luna è il rifugio ultimo contro le intemperie del mondo contemporaneo. Un film leopardiano, casto e candido come i versi del poeta.
Vittorio Spiga, La Nazione, 1 febbraio 1990

Critica (3):.Per la precisione: “Non devi capire, guai a capire, tu devi solo ascoltare, le voci...”. Quale sfrontata, puerile ingenuità rivela la luna felliniana al docile squilibrato Salvini? Risponde Ermanno Cavazzoni con il suo poema: “... Secondo me, e gliel'avevo'spiegato, c'è una logica in ogni faccenda, che basta saperne un pezzetto e tutto il resto è di conseguenza. Ed è così per i panorami come per una civiltà: che tutto è di conseguenza. Quindi si vede quel che è vero e quello che lo sarà”(1). Chiaro? Forse sì se si analizza l'ultimo lavoro di Fellini come la conseguenza di un'affinità sentimentale verso un mondo falso-favoloso (tutto sommato poco amato) ed intriso di mitologia casereccia, possibilmente già immaginato con i bei decori di Ferretti, le giuste sonorità di Piovani e le seducenti luci di Delli Colli.
Un gigantesco schermo buio televisivo si alza alle spalle di Salvini e Gonnella immersi nell'erba della Padania. Qui è forse il loro (il nostro) problema, nella misura in cui l'interrogarsi candido e diretto cerca di replicare alla "miniaturizzazione" dei circuiti e dell'energia.
Si verifica come un cambiamento di habitat in una sorta di arcaico involucro, in una traccia di relazioni umane la cui sopravvivenza non può non lasciare perplessi: “perciò” , “comunque”, “quindi”... e si capisce meglio che non esiste nulla “di fermo e di sicuro” e che gli sconsolati interrogativi leopardiani rivolti alla luna (A che tante facelle, che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?) possono essere forse mitigati soltanto dalle innocenze e dalle mattane di un disponibile Pinocchio. Il reale stesso finisce per apparire come un grande corpo inutile.
L'idea che è alla base del romanzo di Cavazzoni, sposata da Fellini (“E gli spiegavo quindi come sono le case, se mai loro non se ne fossero accorti, gli spiegavo che sono fatte di carta, che sono fatte di niente, e la gente ci sta dentro nascosta, e poi escono per fare spettacolo, uomini e donne: adesso ne ero certissimo. E sono tutti dei fantasisti, come quelli del varietà")(2), in fin dei conti rispolvera con maggior surrealismo i motivi filosofici già tanto cari a Pirandello (il mondo dei falsificatori e dei matti) o a Schopenhauer (il mondo come volontà e rappresentazione), ma li converte in un disarmato e contemplativo abbandono. La sostanza è sempre una sola: che in generale "c'è poco da dire" e che ciò che resta, inascoltato oppure no, è solo "il fischio del tempo"(3).
Tutto questo assume un tono tanto più predicatorio, quanto più Fellini tenta la descrizione (ed è il pericolo maggiore che il film attraversa) e la velatura, specie per quel che riguarda l'allusione al dettaglio contemporaneo (la volgarità non si banalizza per sintesi) e la descrizione degli spazi pubblici: il teatro del sociale (la sagra dello gnocco e la riunione in discoteca), il teatro del politico (la conferenza stampa per la cattura della luna). Il ballo di Gonnella con la duchessa d'Alba sulle note del Danubio di Strauss non è comunque "un'apoteosi della reazione", ma semplicemente il gesto reattivo più prevedibile (patetico a cui il "vecchio perseguitato" ricorre, ignaro del suo fuori tempo. Anche il valzer dell'arciduca ne E la nave va o il carillon de la poupée automate ne Il Casanova figuravano come identici segnali di disfacimento. Mari di plastica o pareti a specchio deformano molto bene il reale. E il linguaggio del matto diventa in Fellini (come già in Jung) l'espressione di fantasie inconsce che hanno sostituito completamente l'attività della coscienza e si attuano nelle visioni orizzontali e nei deliri di singoli individui: l'inconscio collettivo di Jung e le popolazioni nascoste di Cavazzoni si riuniscono in un Amarcord tutto d'esterni, in un circoesistenziale in cui le attrazioni sono sempre le stesse: la ripetitività dei numeri, l'oppressione, la noia, il momento improvviso di magia, lo stupore del cuore in attesa di un sorriso o di una caduta.
L'amore di Fellini è insincero. Ivo Salvini, in una delle sequenze più belle del. film, incontra il necroforo Pigafetta, il quale con voce sorniona e maliziosa gli dice: "Non ascoltare le voci dei pozzi... sono traditori, ti fanno fare sogni belli, brutti, come vogliono loro...". Ma Ivo è aperto a tutto contro la sua volontà, vive nella più grande confusione ed è "solo la curiosità a farlo svegliare al mattino", a farlo riflettere sui buchi del mondo schiusi verso la morte ("... un'attesa che non ha mai fine; io devo sapere"), sulle promesse della musica mai mantenute e sulle favole ironiche degli dei. Ciò che allora lo caratterizza non e tanto la perdita del reale (la sua follia è ragionevole), quanto questa prossimità che lo avvicina all'orlo delle cose, questa sovraesposizione alla trasparenza del mondo.
Egli piano piano diventa puro schermo, pura superficie (anche nella voce!) di assorbimento assoluto delle reti di influenza felliniana. Benigni in tutto questo è davvero bravissimo perché da al personaggio di Salvini, con il giusto abito disegnato da Millenotti, la dimensione più astratta ed educata della pazzia. Si pensi soltanto alla eleganza impalpabile con cui capovolge il piatto di gnocchi sul capo dell'anziano sporcaccione che insidia la luna/Aldina. Villaggio, invece,-nel ruolo di Gonnella raffigura l'aspetto più convenzionale (persecutorio) della foia e, quando incontra i fantasmi della "vecchiezza", dà il meglio di sé con quelle labbra arrossate, le sopracciglia alte e la convinzione nello sguardo di chi sa che mestatori e trafficanti cortesi vengono ad interferire subdolamente, ineluttabilmente nella vita di tutti.
Il film così si svolge tra le evocazioni spontanee del passato e gli incontri casuali dell'oggi, mediante un girovagare della mente che si autorivisita, si autocommemora, si autocita alla ricerca sempre di una risposta provvisoria: la nota di un violino, il silenzio stesso, il temporale furibondo sotto la quercia di Reggiolo, la risata di nonna Fraschina, la tranquillità evocata né molle né ribelle, il vuoto d'aggressioni, la réclame di noi stessi finalmente zittita. Tutte coperture convenzionali (e non antidoti di superficie), utili al mascheramento della malinconia che - in Fellini - non è mai cupa o compiaciuta, ma solo attonita. E forse proprio per questo suo stupore diventa più plausibile, racchiusa simbolicamente nell'intervallo musicale ("Diabolus in musica") suonato dall'oboista Sim, persuaso che in esso si nasconda il segreto vero della follia. Ma la "verità di Federico" è che "non esistono né domandine, né rispostine", perché i pazzi non possono rispondere e i savi non hanno mai risposto. Già il coro della sua Gloria N. si interrogava sulla forza del destino tramite le inquiete verseggiature di Zanzotto ("Dove sei, dove sei, mondi e dei piangeranno con noi") e affrontava l'affondamento, ma i matti della sua luna hanno un'àncora di salvezza più forte: la elasticità del loro confine di vita, la possibilità - che i melodrammatici non posseggono - di scavalcare la linea. "Cioè quando l'occhio è incantato, si vedon le cose di fianco, che a guardarle dritto non si vedono più. Un ,potere della coda dell'occhio. O chissà (4).
E il primo "episodio" osservato (lo strip-tease della zia tardona) risponde all'immotivato più autentico. Sulle note di Abat-jour la zia, spogliarellista a pagamento per uno sparuto gruppo di "paisani", esegue lo strip più balordo, svogliato, frettoloso e incompleto che lo schermo ricordi. Se tutto questo fosse vero saremmo nella verità nuda, nella folle pretesa delle cose e dei gesti di esprimere una loro verità. Impossibile. Per questo Salvini poi vede il mondo dal tetto nel racconto di Nestore o dal basso intrappolato dal palcoscenico durante la festa della gnoccata. Egli ha rubato la scarpetta alla luna, l'Aldina e scoprirà (ma con quanto candore!) che tutte le donne potranno calzarla. Inutile chiudere i cerchi, completare i quadri, sparare alla luna sia nella cascina che nello schermo. La pubblicità gorgheggiata da Selene non è solo la réclame dello scenario barocco, ridondante degli oggetti e del consumo, ma anche l'effetto della visibilità onnipresente delle imprese tutte, delle marche, degli interlocutori o forse più semplicemente la promozione isterica della nostra persona da perpetrare in ogni circostanza.
L'abilità di questo film è quella di poter apparire al contempo moto vecchio o modernissimo. Probabilmente da ciò deriva il suo capriccioso e ineffabile fascino. Non tutte le situazioni, per esempio, godono di fresca inventiva; la festa di matrimonio al Las Vegas-Da Settimio si mostra troppo sbrigativa e confusa (nulla a che vedere né con la inarrivabile tavolata di Roma in via Albalonga, né con le nozze di Gradisca, "Al Paradiso"), ma il riscatto giunge lo stesso (merito di Baragli?) grazie all'incastro spiritoso tra mondo oggettivo (il sussulto di Benigni sul tetto) e racconto ed alla simpatia dei personaggi (Angelo Orlando, Marisa Ottaviani e il barbiere Onelio). Ma a proposito di cameos-roles ci piace ricordare sopra tutti quello dell'eccellente Javarone (già basso-tuba nel Prova d'orchestra e second best player al servizio di Petri, Fassbinder, von Trotta), che regala a Pigafetta il disincanto ironico della tragicità.
Non si è mai sicuri di non sognare, non si è mai certi di non essere folli. La risposta del silenzio è troppo semplice? "Ma quante volte non ci viene in mente la quantità di contraddizioni che noi sentiamo nel nostro stesso giudizio?" (5).
Marcello Garofalo, Segnocinema n. 42, marzo 1990
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(1) Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici, Bollati Boringhieri, Torino 1987, pag. 126.
(2) Cit., pag. 290.
(3) Cit., pp. 296, 297.
(4) Cit., pag. 66.
(5) Michel Eyquem de Montaigne, Essais, 1. I., cap. XXVI.

Critica (4):
Federico Fellini
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