Famiglia (La)
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Regia: | Scola Ettore |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Ruggero Maccari, Furio Scarpelli, Ettore Scola; fotografia: Ritardo Aronovich; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Gabriella Pescucci; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Franco Malvestiti; interpreti: Vittorio Gassman (il vecchio nonno/Carlo da 40 a 80 anni), Stefania Sandrelli (Beatrice da 28 a 48 anni), Fanny Ardant (Adriana da 40 a 80 anni), Jo Champa (Adriana a 20 anni), Cecilia Dazzi (Beatrice a 18 anni), Andrea Occhipinti (Carlo da 20 a 30 anni), Carlo Dapporto (Giulio, fratello di Carlo, da 58 a 78 anni), Massimo Dapporto (Giulio, da 28 a 48 anni), Alberto Gimignani (Giulio da giovane), Athina Cenci (zia Margherita), Monica Scattini (zia Ornella), Alessandra Panelli (zia Luisa), Ottavia Piccolo (Adelina, la cameriera), Memè Perlini (Aristide, padre di Carlo), Hania Kochansky (Susanna, madre di Carlo), Renzo Palmer (zio Nicola), Giuseppe Cederna (il cugino Enrico), Jacques Peyrac (il dottor Giordani), Philippe Noiret (Jean-Luc, fidanzato di Adriana), Barbara Scoppa (Maddalena, figlia di Carlo e di Beatrice), Ricky Tognazzi (Paolino, suo fratello), Dagmar Lassander (Marika, moglie di Paolino), Massimo Venturiello (Armando, marito di Maddalena), Sergio Castellitto (Carletto, nipote di Carlo), Andrea Aronovich (Marina, figlia di Giulio), Silvana De Santis (Juliette), Silvana De Santis (l'altra Juliette), Tony De Leo (zio Michele), Alessandra Zoppi (sua moglie); produzione: Franco Committeri per la Massfilm/Cinecittà (Roma)/Les films Ariane/Cinemax (Parigi), con la collaborazione di RAI 1; origine: Italia, 1987; durata: 127'. |
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Trama: | I ricordi di Carlo, anziano professore d'italiano in pensione, si sviluppano a partire da una foto scattata nel 1906 e scorrono sullo schermo in nove flash-back di un decennio ciascuno, nei quali rivivono - sempre all'interno di una casa romana del quartiere Prati - i personaggi e le vicende generazionali di una famiglia borghese, nel loro succedersi dimesso e quotidiano. |
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Critica (1): | Come mettere in scena il tempo? La vita? La memoria? Il ricordo? La morte? Scola riesce in questa operazione delicata e difficile ricorrendo ad una soluzione semplice quanto illuminata: racconta la storia di una famiglia per circa cento anni. Nascita e morte quali pareti della vita, si fissano nella memoria e nel ricordo, permettendo all'uomo di oggi di orientarsi attraverso l'uomo di ieri per quello di domani. Ecco il senso dell'opera di Scola.
È un battesimo che dà l'avvio alla storia, ma anche un funerale: nasce un nipotino e muore un nonno. Gli avvenimenti sono fermati da ciò che l'uomo usa per porre dei segnali lungo la dimensione del tempo: una fotografia e un quadro.
Fotografie e quadri ricorrono nel film dall'inizio alla fine, perché la rappresentazione della realtà riesce a catturarne e riproporne l'immagine anche dopo la morte, ovvero la sua trasformazione, il suo cambiamento, il trascorrere del tempo. L'occhio del regista guarda con distanza questa vicenda. Al di fuori della psicologia che si avvicinerebbe ai personaggi e alle loro vicende in primo piano o in primissimo piano come in un film di Bergman, Scola racconta la vita senza ricorrere ai perché, alle spiegazioni, alle motivazioni, alle cause. È un film sul tempo non sulle psicologie dei personaggi. Ogni carattere è tratteggiato con cura, ma per questa assenza di perché si avverte quasi un senso di predeterminazione, di destino, che si cuce su ogni personaggio dall'infanzia.
È così per Giulio, che fin da piccolo mostra il suo attaccamento al denaro, e la sua superficialità, che lo porterà immancabilmente ad una vita di fallimento. Il tempo la fa da padrone a dimostrare le sue ragioni, di aver ragione. La casa ne fa fede. È lei la scenografia, il vero palcoscenico ove si aprono e chiudono le porte per far entrare in scena i personaggi. Nel corridoio immutabile e muto il tempo trascorre da un anno all'altro, mentre nascite, matrimoni, separazioni, amori consumati o rinviati per sempre, si susseguono a comporre quella che è la storia della famiglia.
La distanza della regia si rivela anche in quel non mostrare gli avvenimenti più dolorosi come la morte. Il vecchio patriarca giace a letto, ma di lui vediamo solo il volto ritratto dal genero, pittore dilettante, così come scompaiono dalla scena il padre di Carlo e la sua assenza vive in quel quadro non finito della moglie; la stessa Beatrice muore fuori scena e la sua morte diviene solitudine per l'ormai vecchio Carlo, ma non sofferta messa in scena.
Il cinema di Scola si è sempre raccontato attraverso il sorriso, anche cinico, poi più amaro come in Una giornata particolare e infine, come qui, più maturo, più saggio, di chi ha imparato dal tempo come gli avvenimenti, quelli tristi e quelli gioiosi, quelli tragici e quelli pieni di entusiasmo e passione, finiscono per essere levigati come i sassi di mare. Anche per questo gli avvenimenti della storia, che pur incidono, cambiano e trasformano la vita dei protagonisti rimangono fuori dalla porta, fuori dalla scena, da un racconto che si vuole chiudere su se stesso, per raccontare una storia privata, come Scola ama fare sempre di più.
È la via della distanza che fa scegliere al regista di riproporre lungo il film le stesse scene, le stesse azioni, come l'addio recitato da Adriana sulle scale a venti anni, ripetuto a quaranta e infine ridetto ancora a sessanta, ma questa volta con minor energia, comodamente seduta in salotto.
Non può che nascere il sorriso. La stessa cosa è per il coro delle tre care e divertenti zitelle, con quel suicidio annunciato dietro una porta chiusa a chiave, ma mai consumato. Scola propone un sorriso di fronte alla vita, lo stesso sorriso di Maccheroni, quello che gli fa firmare oggi le sue opere più mature e, perché no?, più belle. Scola è nato alla scuola della risata, il "Marcaurelio" gli insegna la satira, un po' qualunquista come lui stesso ebbe in seguito a dichiarare, ma anche ad avvicinarsi alla realtà, attraverso la cronaca che si faceva battuta, presa in giro delle abnormità di una società italiana che dalla ricostruzione arriva al boom economico impreparata e finisce ad affrontare le crisi e cambiamenti profondi. La cronaca finisce in battuta in film come Il sorpasso solo scritti, o Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? anche diretti, ma dalla cronaca il regista si è ormai distaccato da tempo, capace di ritrovare una sua dimensione dopo la crisi della commedia all'italiana.
Dei suoi primi lavori, (anche quelli come La famiglia, scritti insieme a Ruggero Maccari) soprattutto delle sceneggiature firmate per Pietrangeli, Scola conserva ancora oggi l'attenzione, la cura e l'amore per le figure femminili. Ne La famiglia ce ne sono molte e molto belle, come il ritratto di Adriana così riuscito col volto di Jo Champa e con quello affascinante di Fanny Ardant; o di Beatrice che la Sandrelli è capace di far vivere con freschezza dalla giovinezza fino alla vecchiaia, senza farle mai perdere quel sapore di ingenuità che la rende infantile ma vera al tempo stesso; o il coro delle tre zie sempre in lite tra loro.
Donne coraggiose, come quelle di Pietrangeli, senza i loro sbagli, però, più sicure in un destino piccolo borghese, ma come loro forti nella fragilità, più coraggiose degli uomini, tutti un po' falliti, e un po' traditi dal sociale. L'intelligenza degli uomini, la loro razionalità, non è vincente. Se le donne sono costrette a sacrificare qualcosa, chi il lavoro come Beatrice, chi la famiglia come Adriana, chi un figlio come Maddalena dopo il divorzio, ottengono qualcosa in più degli uomini disattenti e ottusi nel loro egoismo. Il girotondo della vita si consuma in famiglia attraverso i loro occhi, il frusciare delle gonne, il gesticolare delle loro mani che armeggiano in cucina. Con loro il tempo trascorre più felice, Scola ne è convinto. Le donne sono capaci di dare al tempo e alla vita quel sapore caldo e confortevole, che si gusta solo in famiglia, in casa. Ed è proprio qui che tutti vogliono ritrovarsi, dopo fughe liberatorie, come quella di Adriana o di Carletto secondo, perché solo in casa, in famiglia, il trascorrere del tempo e della vita fa meno male. Si diceva del tempo. Vi è una curiosa rappresentazione del tempo ne La famiglia. Si avvertono la trasformazione delle scenografie che mutano per tenere il passo nel privato delle evoluzioni della Storia. Così vivere diventa un fatto fenomenologicamente determinato, ed allora le fotografie si sovrappongono ai ritratti, le radio lasciano il posto alla televisione, la luce muta come i divani perché anche il guardare è un fatto storico.
II tempo cadenza, oltre i costumi, anche i ritratti dei volti. Attor giovani lasciano il posto ai capocomici, attrici come Fanny Ardant si specchiano da giovani nel doppio di Jo Champa.
E intanto La ronde - come dimenticarsi di Max Ophüls? - procede travolgendo ogni fenomenologia, ogni apparenza, qualsiasi tipo di maschera e di contraddizione. Nel tempo tutto si chiarifica. I comportamenti degli individui che al principio sembravano confusi e ambivalenti si sclerotizzano infine in un unico senso: quello che le cose hanno aiutato a chiarire.
E il dominio del reale sulle speranze, la vittoria del quotidiano, interpretato da Beatrice, sul diafano di Adriana. È la costituzione di una sola identità, quella preordinata, che l'ideologia dominante e le istituzioni governano come un puparo fa con le sue marionette. I sabati fascisti continuano in chi li ha provati anche dopo la loro abolizione, perché come ha scritto Foucoult parlando del militare, dietro la costruzione del fisico si mira alla disintegrazione della coscienza.
E cosa resta, infatti, dopo la guerra, di Giulio, il fratello fascista, se non l'apatia? Mutata realtà, è ribaltata la chiave interpretativa dei fatti e quindi l'accesso a questi ultimi. Caduto un modello ventennale, è impossibile per chi vi ha creduto, o voluto credere, sostituirlo meccanicamente con un altro. In questo, la prospettiva storica chiarisce nel tempo le contraddizioni dell'esistente. E la cultura razionale e marxiana di Scola si somma con le sue istanze del privato e del biologico. Lo sviluppo è alla fine una linea retta, dal fondo della quale tutto si posiziona occupando uno spazio preciso nella scenografia che la vita disegna. E gli autori della fabula, siano essi il vegliardo della famiglia o un qualunque suo alter-ego, disegnano la storia che la memoria suggerisce loro, come farebbe un pittore sulla tela.
Ne nasce una prospettiva che non può esser altro che simbolica, non realistica, con un unico punto di fuga come è d'uso in arte dal '400.
Forse per questo nel film il luogo centrale della storia è rappresentato dal corridoio interno della casa. Un corridoio lungo e rettilineo, su cui danno le varie stanze (o storie) e dal quale si accede all'ingresso che separa dall'esterno. Il corridoio è attraversato dai personaggi, solcato da automobile rosse a pedali, dai visitatori: ombre che lo riempiono momentaneamente come farebbero dentro una macchina fotografica.
Come si è già detto, La famiglia non è po' film sui personaggi ma sul tempo. Come in una fotografia di Atget costoro non impressionano indelebilmente la pellicola, sono solo immagini che riempiono la scenografia momentaneamente. Presto scompaiono lasciando il posto ad altre ombre. Così Scola passa dal giovane Carlo (Occhipinti) all'adulto (Gassman) solo con un controcampo. Seduto al tavolo il giovane attende. La mdp lo riprende frontalmente, poi in controcampo ne riprende solo le spalle. Quando ritorna al frontale il primo è sparito e il secondo ha preso il suo posto, mentre la voce fuori campo ne lega idealmente la sostituzione senza che la percezione dello spettatore si senta da questo trucco, ferita.
Unico personaggio che tenga banco indelebilmente durante tutta la messa in scena è la macchina da presa.
Un carrello in avanti, rettilineo, lungo il corridoio sottolinea l'inizio di ogni tappa della vicenda raccontata. Fin dal principio, si somma alla voce fuori campo del protagonista rendendo assoluta la visione in soggettiva che è offerta allo spettatore della vicenda. In questo cinema della memoria è forse la sostanza del film. È come se il cinema precedesse come un cicerone lungo le stanze di un museo, come se un bisturi incidesse il tessuto di un corpo per aprirne le interiora.
È come se l'autore con questo semplice movimento ripetuto non rappresentasse il tempo, quanto se stesso.
Fulvio Accialini, Lucia Coluccelli, Cineforum n. 262, marzo 1987 |
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| Ettore Scola |
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