Salvatore Giuliano
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Regia: | Rosi Francesco |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Francesco Rosi, Suso Cecchi D'Amico, Enzo Provenzale, Franco Solinas; fotografia: Gianni Di Venanzo; scenografia: Sergio Canevari, Carlo Egidi; costumi: Marilú Carteny; montaggio: Mario Serandrei; musica: Piero Piccioni; fonico: Claudio Mjelli; interpreti: Frank Wolff (Gaspare Pisciotta), Salvo Randone (presidente della Corte d'Assise), Federico Zardi (avvocato di Pisciotta), Pietro Cammarata (Salvatore Giuliano), Giuseppe Teti (giovane pastore), Cosimo Torino (Frank Mannino), Giuseppe Calandra (sottufficiale dei carabinieri in borghese), Pietro Franzone (declamatore dell'inno separatista), Giovanni Gallina e Vincenzo Norvese (picciotti), Sennuccio Benelli (giornalista); produzione: Franco Cristaldi e Lionello Santi per la LuxVidesGalatea; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Italia, 1961; durata: 123’. |
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Trama: | Subito dopo la liberazione della Sicilia, Salvatore Giuliano, già fuorilegge per aver ucciso un carabiniere, costituisce una banda ed entra a far parte dell'esercito separatista, sostenendo conflitti a fuoco con i soldati e carabinieri. Allorchè tale esercito viene sciolto, Giuliano rimane isolato con la sua banda ed è costretto a riprendere la sua attività di fuorilegge. Uno dei fatti piu' gravi di questa attività è costituito dall'episodio di Portella della Ginestra, nel quale numerosi uomini, donne e bambini furono uccisi dalla banda. A questo punto viene decisa dalle autorità una guerra senza quartiere contro Giuliano. Uno dopo l'altro cedono i capisaldi della sua difesa e la mattina del 5 luglio 1950 il suo corpo inanimato viene ritrovato nel cortile di una casa di Castel Vetrano. Ma la storia non è conclusa. Gaspare Pisciotta viene avvelenato in carcere e altri mafiosi che hanno compiuto con lui i misfatti sono colpiti da mani misteriose. |
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Critica (1): | (È in un quadro) ricco di fermenti, ma anche di ambiguità e di limiti oggettivi, che si colloca Salvatore Giuliano. Con due meriti di cui gli va dato atto in partenza, salvo poi evidenziarli meglio attraverso la analisi del film. Il primo è quello di aver colto e messo a fondamento del film la vera novità del luglio '60 non tanto nella riscoperta di una sopita coscienza antifascista quanto nell'emergere di quella che potremmo chiamare la voglia (non ancora volontà, cioè, con il senso di lucida e matura consapevolezza che il termine comporta) di essere protagonisti. Il nuovo film di Rosi, in effetti, si pone su una linea di logico sviluppo dei due precedenti, ma con un balzo in avanti ben più deciso di quanto fosse ragionevole aspettarsi: al racconto impiegato per introdurre l'informazione si sostituisce l'informazione fatta racconto, la documentazione che diventa essa stessa materia drammatica, l'identificazione diretta e totale della vicenda narrata con la materia da analizzare e da discutere. Anche Salvatore Giuliano è, per certi aspetti, un “colosso d'autore”, nel senso della produzione basata su una notevole disponibilità di mezzi e destinata a valorizzare la qualità della regia come elemento ormai dotato di una sua quotazione di mercato. E nel senso, più ancora, dello spettacolo che non nasconde di essere tutto costruito, tutto affidato alla rielaborazione drammatica dei dati raccolti ed analizzati, ma che proprio come tale si mette in discussione, chiamando il pubblico a prender coscienza anche di quanto c'è di costruito e di rielaborato, cioè ad intervenire nell'interpretazione dei fatti nel momento stesso in cui si appassiona al loro svolgimento, in quanto si tratta esplicitamente della rappresentazione di ciò che, secondo l'autore, è avvenuto e sta avvenendo nella realtà in cui anche lo spettatore è immerso.
Il secondo merito del film è quello di compiere, finalmente, il gran passo dal sociale al politico e di collegare direttamente la storia alla attualità. Giustamente, e fecondamente, il cinema italiano del “secondo neorealismo” (…) nelle sue, migliori e per troppo tempo sporadiche manifestazioni ha resistito alla cappa di piombo centrista e se ne è poi liberato partendo dalla riflessione sul passato (sulla Resistenza e, con il Visconti di Senso, addirittura sul Risorgimento) e riportando l'attenzione sugli squilibri che il presente ne ha ereditato, sui nuovi stravolgimenti che nel presente stesso si sono prodotti. Si è sempre parlato, però, in termini di società civile, guardando soprattutto alle condizioni economiche degli italiani, al loro modo di vivere, ai rapporti tra gruppi e ceti socialmente intesi (per grado di istruzione, qualificazione professionale, dislocazione territoriale, dati di costume, ecc.). La storia, a sua volta, è stata vista come punto di riferimento indispensabile per capire i processi che hanno portato alla situazione di oggi, ma è rimasta più che altro un dato a monte, una lezione da tener presente, anziché una esperienza prolungantesi nell'oggi. Con Salvatore Giuliano, invece, si incomincia a parlare anche delle strutture politiche attraverso cui le forze sociali si confrontano e si scontrano, delle istituzioni che si sovrappongono e in certa misura si contrappongono alla società civile, dei centri di potere dai quali dipendono in gran parte le condizioni di vita del popolo italiano. Alla storia, poi, ci si rivolge per quel tanto che le esperienze del passato si ripercuotono direttamente nel presente, senza soluzioni di continuità. (…)
Tale coinvolgimento, va rilevato, è tanto più significativo in quanto il film esce in un momento in cui banditismo e mafia non costituiscono più argomenti di particolare risonanza. È vero che solo pochi mesi prima, nell'agosto del 1961, è stato ucciso a Palermo quel Filippo Riolo, capo della mafia di Piana dei Greci, indicato come il principale ispiratore della collaborazione con i carabinieri per l'eliminazione della banda Giuliano e processato a suo tempo (nonché assolto) per l'avvelenamento di Pisciotta nel carcere di Palermo; come è vero che prima di lui, da gennaio ad agosto, si sono contati nel Palermitano una cinquantina di morti, fra ammazzati a colpi di lupara o di pistola o ritrovati in fondo a un pozzo. Ma è vero anche che le notizie di questi delitti sono rientrate da tempo nella “cronaca locale” a cui la stampa nazionale, se e quando se ne occupa, dedica al massimo un trafiletto di poche righe. Si parla ancora e se ne parlerà in tutti gli anni successivi, fino ad oggi di mafia anche a Roma e a Milano, ma senza i toni drammatici di una volta, come di uno dei tanti fenomeni di malcostume verificabili nel paese, un fenomeno con ancora qualcosa di misterioso, ma, insieme, con tratti familiari, abituali, non tali comunque da toccare l'emotività della gente, contrariamente a quanto avveniva al tempo di Giuliano. Anche la mafia, del resto, non ha più la fisionomia di quei tempi, per il fatto che l'intermediazione parassitaria tra feudo e bracciantato contadino ha perso decisamente d'importanza rispetto a quella fra proprietà di aree edificabili ed edilizia, fra enti appaltatori di opere pubbliche e ditte appaltatrici. E fra tante altre cose.
Ma Rosi torna agli aspetti “superati” del fenomeno, proprio per rifarsi a quel clima nazionale di coinvolgimento che sembra essersi perduto e che egli intende ricreare, nel momento stesso in cui si propone di passare dall'emotività alla razionalità, per far emergere correttamente le dimensioni nazionali del problema e coglierne il reale significato (…).
Riassumendo a gradi linee, si parte dallo sbarco in Sicilia degli angloamericani e dalle prime manifestazioni del separatismo, cui segue la costituzione dell’EVIS (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana), braccio armato del MIS (Movimento Indipendentista Siciliano), che nell'ottobre del '45 si accorda con Giuliano perché indirizzi le azioni della sua banda contro lo Stato italiano. Si hanno quindi gli attacchi alle caserme dei carabinieri ed anche uno scontro con reparti dell'esercito, nel gennaio 1946, ma il separatismo, va rapidamente svuotandosi ed i banditi trovano un nuovo impiego in funzione anticomunista, funzione che va accentuandosi a partire dal 20 aprile 1947, cioè dopo l’affermazione del Blocco del Popolo nelle elezioni regionali: il l° maggio successivo la banda Giuliano si rende responsabile dell'eccidio di Portella della Ginestra (undici morti e ventisette feriti, fra cui donne e bambini, nella sparatoria sulla folla che celebrava la festa dei lavoratori), proseguendo poi con attacchi a sedi comuniste, socialiste e sindacali. Dopo la vittoria democristiana del 18 aprile 1948 nelle elezioni nazionali, però, anche questa funzione perde d'importanza e Giuliano torna alla criminalità comune, attaccando nuovamente anche i carabinieri, fino a giocarsi l'appoggio della mafia o, quantomeno, di una parte di questa, che collabora con gli organi di polizia alla progressiva eliminazione della banda, culminante, la notte del 5 luglio 1950, nell'uccisione dello stesso Giuliano (ad opera dei carabinieri, dicono le versioni ufficiali; per mano del suo luogotenente Gaspare Pisciotta, che si era impegnato a consegnarlo ai carabinieri, come risulterà in seguito). Successivamente viene catturato anche Pisciotta, dopo. che si è già aperto presso la Corte d'assise di Viterbo, nel giugno 1950, il processo per la strage di Portella della Ginestra, processo che riprende il 12 aprile 1951 e si conclude il 3 maggio 1952 con la condanna dei maggiori imputati. Pisciotta, che durante il processo aveva minacciato più volte di svelare tutti i retroscena della strage di Portella della Ginestra e della morte di Giuliano, viene avvelenato il 9 febbraio 1954 nel carcere dell'Ucciardone di Palermo, mentre il 20 settembre 1960 viene ucciso a San Giuseppe Jato il mafioso Benedetto Minasola, che era stato il più diretto collaboratore dei carabinieri nell'eliminazione della banda Giuliano.
(…) il primo dato della biografia del bandito che il film mette in evidenza è quello del suo incontro con i capi separatisti, cioè dell'anello iniziale di una catena di complicità e di intese più o meno dichiarate che legano in un groviglio inestricabile il “fenomeno Giuliano” con gli aspetti sociali e politici della situazione siciliana. E la sottolineatura di questi legami è costante e netta lungo tutto il film, proponendosi come la vera ragion d'essere dei personaggio. Giuliano, infatti, esiste pienamente come personaggio senza quasi apparire sullo schermo, appunto perché a dargli sostanza è il ruolo politico che gli vien fatto giocare. (…) La sua presenza si fa corposa, marcata, solo nella morte (il rapporto fra potere e morte è un dato costante del cinema di Rosi), nella polvere del cortile di Castelvetrano, dove à stato organizzato l' ultimo atto della messinscena della sua uccisione in combattimento con i carabinieri, e sul marmo dell'obitorio, quando non rischia più di assumere connotazioni psicologiche o di trascendere nel mito, ma resta chiuso nei limiti della sua tragica parabola umana e mostra solo il suo peso di cadavere che pone dei problemi. La sua personalità è perfettamente e concretamente delineata, per quel tanto che serve, dall'illuminazione degli elementi ambientali che hanno concorso a formarla, ma al tempo stesso egli è estremamente spersonalizzato, assunto a riflesso chiarificatore di tutta una situazione. (…)
Sono l'analisi e la valutazione di quei fatti, non dei personaggio Giuliano, che interessano a Rosi. E per giungere a questo egli cerca di cogliere nella complessità degli avvenimenti e delle situazioni alcuni nuclei essenziali che da una parte valgano ad illuminare i particolari, fornendone la chiave interpretativa, e dall'altra costituiscano essi stessi i filoni fondamentali su cui indirizzare l'indagine, perché non si disperda per le vie traverse dei casi personali e dei problemi marginali.
C'è, anzitutto, un piano economicosociale che balza prepotentemente agli occhi e che si finisce per aver sempre presente, anche se la vicenda sembra toccarlo di riflesso più che affrontarlo direttamente: la miseria, lo sfruttamento, la soggezione (e, di conseguenza, la spinta alla rivolta, nei termini irrazionali del banditismo o in quelli coscienti della lotta sindacale e politica) si sentono ad ogni passo, come componenti fondamentali di una determinata condizione umana. Rosi, si direbbe, non si preoccupa neppure di fermare specificamente l'attenzione sul sottosviluppo e sulla depressione dell'isola o sul carattere addirittura borbonico dei rapporti sociali bastano pochi scorci illuminanti gli interni delle case contadine di Montelepre durante il rastrellamento operato dall'esercito; la misera fila dei contadini che sfamano Giuliano per alleviare la propria fame, a rischio della galera; la disperata rassegnazione dei picciotti ai soprusi dei banditi, come alla violenza della legge per chiarire quale sia il terreno in cui affondano le radici il banditismo e la mafia.
Il secondo piano è quello che potremmo chiamare civileistituzionale, dei rapporti fra individuo e comunità, meglio ancora fra comunità locale e comunità nazionale: rapporti caratterizzati essenzialmente da sfiducia e diffidenza ne i confronti dello Stato e delle istituzioni in genere. Il separatismo rappresenta lo sforzo di organizzare e di sfruttare questi sentimenti ed il suo fallimento ne indica i limiti politici; ma la consistenza dei motivi di fondo permane oltre l'esaurimento dell'azione del MIS e dell'EVIS. Il potere centrale visto come forza sostanzialmente estranea agli interessi locali e popolari, troppo lontana per fornire uno scudo efficace contro le prevaricazioni delle grandi e piccole potenze isolane, ma nel tempo stesso presente come strumento di repressione in nome di un “ordine” che tali ingiustizie non ha saputo o voluto sanare; lo Stato, in una parola, ridotto al carabiniere (anziché riconoscibile nell'insegnante, nel medico, nel tecnico dei servizi pubblici), e per di più ad un carabiniere che ha le mani legate nei confronti dei forti e che riesce ad esercitare la sua autorità solo con i deboli: questo è il dramma della Sicilia sintetizzato nel rastrellamento di Montelepre e nell'irreperibilità di Giuliano, mentre i picciotti vanno in galera. (…)
Rievocazione e attualità, passato e presente coesistono nel film, per cui si potrebbe dire che Rosi si esprime usando i verbi al presente storico. Tutta la struttura narrativa dell'opera, infatti, è tesa a rompere un certo ordine cronologico dei fatti per sostituirgli l'ordine logico che li raccorda l'uno all'altro e che bisogna scoprire e seguire se si vuol giungere alla vera comprensione ed al necessario giudizio. (…)
Basta fermare brevemente l'attenzione sull'andamento narrativo del film per rendersi conto dell'efficacia di questo metodo. (…) Va notato, ad esempio, l'originale impiego del flashback, a cui normalmente si ricorre partendo sempre da un personaggio che ricorda o da una voce fuori campo che rievoca, per chiarire, attraverso i precedenti, gli sviluppi presenti della vicenda e gli stati d'animo dei personaggi, senza sconvolgere sostanzialmente l'ordine cronologico dell'esposizione. In Salvatore Giuliano, invece, è proprio questo ordine che si vuol rompere, per cui i personaggi restano del tutto estranei al flashback: ad effettuare l'operazione è, dichiaratamente, l'autore ed il suo intento non è quello di riandare ai precedenti per rendere più comprensibile quanto sta avvenendo, ma, al contrario, di aprire nuovi interrogativi, allargare il campo d'indagine, rendere tutti i fatti “contemporanei” per farne oggetto globale di interpretazione e di valutazione da parte della coscienza critica collettiva. (…)
Resta infine da accennare alla perfetta rispondenza del dato figurativo alla struttura del raccontoindagine. “Io voglio diceva Rosi durante la lavorazione che la fotografia abbia tre toni diversi: un tono evocativo per le vicende del passato, un tono da servizio fotografico per Castelvetrano, un tono addirittura cronistico, televisivo, per le scene del processo. Bisogna aiutare il pubblico a capire la vicenda, che è molto intricata, anche con la fotografia”. Quei tre toni ci sono, e non raggiungono solo un effetto didattico nei riguardi del pubblico, ma rispondono compiutamente ad una esigenza espressiva. Distinti, ma nel contempo armonicamente fusi, questi caratteri essenziali della fotografia di Gianni Di Venanzo recano un fondamentale contributo a quella attualizzazione del passato ed a quella distanziazione del presente che sono alla base del film, di quel suo rivivere i fatti non per rievocare una vicenda conclusa, ma per porre davanti alla coscienza un problema aperto, per saldare la riflessione storica al dibattito politico, il giudizio su ciò che è avvenuto all'intervento su ciò che sta avvenendo. (…)
Sandro Zambetti, Francesco Rosi, Il Castoro cinema, 78/1976 |
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