Ginger e Fred
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Regia: | Fellini Federico |
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Cast e credits: |
Soggetto: Federico Fellini, Tonino Guerra; sceneggiatura: Federico Fellini, Tonino Guerra, Tullio Pinelli; fotografia: Tonino Delli Colli, Ennio Guarnieri; musiche: Ennio Morricone, Nicola Piovani; montaggio: Nino Baragli, Ugo De Rossi, Ruggero Mastroianni; scenografia: Dante Ferretti; effetti: Adriano Pischiutta; interpreti: Martin Maria Blau (Aiuto Regista), Franco Fabrizi (Presentatore Tv), Jacques Henry Lartigue (Frate Volante), Frederick Ledebur (L’ammiraglio), Ezio Marand (L’intellettuale), Giulietta Masina (Ginger), Marcello Mastroianni (Fred), Toto’ Mignone (Toto), Augusto Poderosi (Travestito), Antoine Saint Jean (Assistente); coproduzione: Pea Roma, Revcom Films Paris, Stella Film Munchen; origine: Francia/Germania/Italia, 1986; durata: 125’. |
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Trama: | Alla stazione Termini scende Amelia, ex ballerina soprannominata “Ginger”, vedova con numerosa famiglia e proprietaria di una piccola industria. Deve apparire in televisione per ballare, trent’anni dopo, col suo vecchio partner Pippo, in arte “Fred”. È Natale, c’è una grande confusione. Ginger sale su un pulmino dove incontra strani personaggi; arriva in un grande albergo dove tutto il personale è davanti alla tv, preso da una partita di calcio. Fred non è ancora arrivato, e Ginger scende in strada, dove viene circondata da un gruppo di motociclisti minacciosi. Torna in stanza, sente russare e scopre che è Fred, invecchiato, ridotto a malpartito. È venuto solo per soldi all’appuntamento. I due vorrebbero almeno provare il loro vecchio numero, ma non ci riescono per il bailamme degli strani personaggi, ospiti, come loro, della trasmissione Ed ecco a voi. Alla fine riescono a provare, ma è un disastro. Solo i complimenti del presidente dellaTV li convincono a partecipare allo spettacolo, che ha subito inizio: quando tocca a loro è un successo. Alla stazione, nel momento della partenza, vengono riconosciuti e firmano autografi. Poi, dopo che Fred ottiene un po’ di soldi in prestito da Ginger, si separano. Lei parte. Le luci dei binari si spengono e resta solo laTV con i suoi martellanti spot pubblicitari. |
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Critica (1): | Testimone d’una civiltà avviata ad autodistruggersi mediante un sistema di comunicazioni che adultera la conoscenza, il cinema del nuovo Fellini è dunque un lamento sulla inattendibilità dei messaggi trasmessi fra popoli, individui e istituzioni, non ispirati a valori assoluti, ma metafore di verità provvisorie. È il gemito di un artista che in ognuno dei suoi personaggi, nei loro amori clandestini, nei loro intrighi, nelle loro movenze celesti o brutali legge le smorfie della società e le illusioni di qualche anima candida. Dunque un cinema sconfortante se ancora una volta la potenza della rappresentazione, l’incisività dei ritratti, il tragicomico di certe situazioni non ribaltasse l’angoscia di sberleffo.
Giovanni Grazzini, Il cinemondo. Dieci anni di film 1976-1986, Laterza, 1987 |
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Critica (2): | L’accostamento a La dolce vita non è casuale, e non solo per la ragione un po’ banale che un autore – un Fellini, specialmente – continua sempre a fare lo stesso film. Quel che i settimanali in rotocalco erano stati ventisei anni fa per La dolce vita, il mondo della televisione con i suoi megashow è per Ginger e Fred. Non c’è dubbio che Fellini continui a essere se stesso: cantastorie, mago, illusionista, istrione, mistificatore, disposto a tutto pur di giocare le carte dello spettacolo, pur di celebrare la Rappresentazione, pur di suggerire che, nonostante tutto, la vita ha una sua dolcezza profonda, irrinunciabile [...] Lo sguardo di Fellini mi sembra cambiato: s’è fatto più sconfortato. Se La dolce vita poté essere definito un viaggio attraverso il disgusto, Ginger e Fred è una traversata del mare della volgarità. E la volgarità è quella della televisione, del diluvio pubblicitario, della civiltà dei consumi. Lo si avverte anche dai segnali, pochi ma inequivocabili, che il film manda sul mondo esterno al megashow televisivo: quelli sulla degradazione di Roma, per esempio.
Morando Morandini, Il Giorno, 14 gennaio 1986 |
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Critica (3): | Apologo antitelevisivo? Macché! Benché la coerenza non sia mai stata una delle preoccupazioni precipue di Federico Fellini, sarebbe ben strano che il nostro più "autorevole autore" sprecasse energie contro la tigre di carta del piccolo schermo, la sua estetica rabberciata, la sua epidemia spottistica, la sua imprendibile capacità riduttiva e deprivante, quando poi egli è il primo a fabbricare per essa alcuni tra gli inserti pubblicitari più personalizzati della nostra TV (pubblica e private), spediti peraltro dritti dritti a interrompere i film di altri registi mentre Fellini fa causa ai network per le interruzioni ai propri. In realtà Ginger e Fred occupa uno spazio curvo ma molto teso all'interno del percorso felliniano; le blande resipiscenze freudiane e l'onirismo musical-autobiografico di E la nave va, derivazioni oblique di Amarcord, cedono il passo a quel ritorno della crudeltà, dell'osservazione grottesca e risentita, del culto per la stortura, che provengono invece dal primissimo Fellini e – non a caso – da quello degli anni Settanta, cioè di poco precedente alla deflagrazione su larga scala dell'opera televisiva.
La visione del mondo di Fellini si è trasformata in una fenomenologia della falsità, un doppio triplo e quadruplo gioco con le "cose", con i volti e i ruoli, dove non solo Mastroianni è il sosia di Federico o le varie comparse di Dalla, Reagan, Sindona & C., ma la stessa Masina, concepita dantescamente come cavia in viaggio nello sfacelo; è la sosia di Cabina e di Gelsomina e di Giulietta. L'equilibrio, in qualche modo ancora apollineo e conviviale, di E la nave va si è infranto; le geometrie, ancora in qualche modo perfette e scintillanti, de La città delle donne, si decompongono e si distorcono. L'acquisto in proprio del "cattivo gusto" televisivo slitta nel cattivo gusto della rappresentazione, nella canea di mostri e mostriciattoli, nell'expo
di deviazioni e perversioni estetizzanti, in realtà moralmente avvertite come tali (e quindi insopportabilmente ideologizzate). E tuttavia proprio il contrastato rapporto con le valenze televisive costituisce in fondo la cifra centrale del film. Pensato, ricordiamo, come telefilm, e successivamente ampliato: di questa originaria destinazione seriale si ritrova in qualche modo traccia nel ricorrere dei personaggi, nella caratterizzazione delle appari
zioni. È, insomma, un film "televisivo", prodotto (involontario?) di un degrado linguistico che Fellini sembra voler rassegnatamente assumere su di sé. Qui confluiscono tutti i tentativi di parodia degli spot, il carnascialesco caos dello studio TV privato, la cialtroneria del presentatore Franco Fabrizi (stupendo attore che solo la cecità dei nostri produttori ha potuto snobbare per trent'anni), le citazioni da Toby Dammit e da Roma, e soprattutto una vis comica accentuatissima, buffonesca, caricaturale. Film di impossibili concrezioni, di sogni perduti e reminiscenze hollywoodiane della golden era di Busby Berkeley. Su queste ultime si appunta l'apice dell'immalinconimento finale: il numero di Irving Berlin eseguito con crescente sicurezza e "fedeltà" iconografica davanti alle telecamere (ma anche sullo schermo, evidentemente), re-impone il tema del sosia, della duplicazione, della replica infinita e dell'impossibilità di intervenire nel moto: non ci si può attendere, da questi Ginger e Fred, che scendano dallo schermo in platea come poteva avvenire ne La rosa purpurea del Cairo di Allen. In un universo baracconesco e impazzito, dominato dalla "copia originale", dalla donazione televisiva, gli originali non hanno appunto più entità, e le copie non possono che riflettere se stesse in un meccanismo di inutile simulazione.
Roberto Pugliesi, Segnocinema, n. 22, marzo 1986 |
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Critica (4): | |
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