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Moonlight


Regia:Jenkins Barry

Cast e credits:
Soggetto: Tarell McCraney; sceneggiatura: Barry Jenkins; fotografia: James Laxton; musiche: Nicholas Britell; montaggio: Nat Sanders, Joi McMillon; scenografia: Hannah Beachler; arredamento: Regina McLarney Crowley; costumi: Caroline Eselin; interpreti: Naomie Harris (Paula), Mahershala Ali (Juan), Trevante Rhodes (Chiron), André Holland (Kevin), Janelle Monáe (Teresa), Alex R. Hibbert (Little), Jaden Piner (Kevin a 9 anni), Ashton Sanders (Chiron), Jharrel Jerome (Kevin a 16 anni), Tanisha Cidel (Williams), Herveline Moncion (Samantha), Don Seward (Tip), Larry Anderson (Antwon), Fransley Hyppolite (Pizzo), Stephon Bron (Travis), Duan'Sandy' Sanderson (Azu), Edson Jean (Sig. Pierce), Shariff Earp (Terrence), Rudi Goblen (Gee), Patrick Decile (Terrel); produzione: A24-Plan B Entertainment; distribuzione: Lucky Red; origine: Usa, 2016, durata: 110'.

Trama:Storia della vita, dall'infanzia all'età adulta, di un giovane uomo di colore cresciuto in un quartiere malfamato alla periferia di Miami e della sua lotta per trovare il proprio posto nel mondo. Una riflessione intensa e poetica sull'identità e sul senso di appartenenza, sulla famiglia, l'amicizia e l'amore.

Critica (1):Una tragedia in tre atti, così si presenta Moonlight, qualche giorno fa presentato come film d’apertura della Festa di Roma e reduce dal generalizzato plauso ottenuto a Telluride e a Toronto. Un racconto di formazione in perenne divenire che, sezionando in tre parti esemplari la crescita del suo protagonista (suddivisa in capitoli intitolati con i nomi/soprannomi del personaggio), traccia attraverso una successione di frammenti lirici la ricerca di identità sociale e sessuale di un giovane di colore nei ghetti di una metropoli contemporanea.
Il film di Barry Jenkins prima presenta il contesto – una periferia di Miami dominata da una criminalità quotidiana, da un commercio di droga normalizzato e quasi incolore – e poi introduce il protagonista, un bambino in fuga da una madre tossica e quasi adottato da uno spacciatore esule cubano pieno di contraddizioni e buoni sentimenti e dalla sua compagna, una cascata di riccioli neri su uno sguardo materno e comprensivo.
Il primo atto del film scivola via nel tracciare il conflitto di un ragazzo in bilico, incerto su una sessualità che ancora non comprende, diviso tra la famiglia naturale e quella di elezione, costretto a farsi forza in un mondo che non conosce. Il secondo, che porta il vero nome del protagonista, Chiron, si concentra sulla presa di coscienza del giovane, sulle sue fratture interiori, sull’imprevista scoperta del corpo, sulla rivendicazione tutta intima e poco esplicita della propria omosessualità. Il cuore del film risiede qui, con tremori e incertezze, nel fragile equilibrio tra un’infanzia frantumata e un futuro solo apparentemente tutto da scrivere. Il terzo atto vede Chiron trasformarsi in Black, uscito da un impietoso riformatorio che impone una strada al di fuori della legge, e diventato, per caso più che per scelta, anche lui uno spacciatore: sorriso d’oro, ma incastrato come una dentiera sopra i denti veri, scheletro di una corazza che ben simboleggia la maschera che il giovane è costretto a indossare.
Moonlight cerca di costruirsi come una rapsodia in tre movimenti – tre momenti apparentemente slegati, come a cristallizzare un infinito presente – e sfrutta le ellissi per fuggire da una rappresentazione canonica e realistica della marginalità sociale, comune a molti film a tematica black, tesi a sfruttare stereotipi gangster per descrivere in chiave spettacolare l’esclusione di intere comunità. La strada intrapresa da Jenkins è opposta e speculare: piuttosto che soffermarsi sul versante criminale, cerca insolite aperture al melodramma, depotenzia la carica machista e muscolare che sostiene la messa in scena di quel mondo mostrandone il lato fragile e sentimentale, sottolinea la prestanza massiccia dei personaggi per evidenziarne invece le incrinature.
Questa scelta costituisce il pregio e il limite del film: lo straniamento salutare dovuto al ribaltamento consapevole dei luoghi comuni sfora in alcune scelte arruffate, a tratti sin troppo esplicite. Lo stile nervoso della messa in scena sfuma in più momenti in un languore posticcio – la sovrabbondanza della colonna sonora, la caduta in setting risaputi come la spiaggia del primo bacio, la dicotomia sin troppo sostenuta tra apparenza e intimità – e Jenkins solo parzialmente riesce a sfruttare le potenzialità del testo di partenza, una pièce teatrale di Tyrell Alvin McCraney, e i suoi ribaltamenti di campo.
Moonlight ne esce come un film affascinante ma monco, interessante nelle premesse e diseguale nel risultato, incerto se blandire lo spettatore o mettere in scacco i codici rigidi di un immaginario che rappresenta in maniera tetragona e uniforme l’universo della cultura nera di strada, se seguire il plastico nervosismo dei corpi o le misteriose lacune dell’anima, se privilegiare il valore politico della rivendicazione identitaria o assecondare il racconto di una canonica love story. Un film bipolare che riesce a essere al tempo stesso coraggioso e irrisolto, ruvido e melenso, asciutto e retorico, ma che si mostra comunque impavido nello smontare pezzo a pezzo i retaggi di una mitologia maschile deleteria e posticcia.
Federico Pedroni, cineforum.it, 19/10/2016

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