Tutta colpa di Giuda
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Regia: | Ferrario Davide |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Davide Ferrario; fotografia: Dante Cecchin; musiche: Fabio Barovero; montaggio: Claudio Cormio; scenografia: Francesca Bocca; costumi: Paola Ronco; interpreti: Kasia Smutniak (Irena Mirkovic), Fabio Troiano (Libero Tarsitano), Gianluca Gobbi (Don Iridio), Luciana Littizzetto (Suor Bonaria), Cristiano Godano (Cristiano); produzione: Davide Ferrario per Rossofuoco-Film Commission Torino Piemonte; distribuzione: Warner Bros. Italia; origine: Italia, 2009; durata: 102’. |
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Trama: | Una regista teatrale d'avanguardia. Un direttore di carcere. Un cappellano che vuole mettere in scena una Passione. Venti detenuti che aspettano solo che il tempo passi... Quando Irena Mirkovic (Kasia Smutniak) accetta di collaborare con don Iridio (Gianluca Gobbi) per la messa in scena in un istituto penitenziario di una paradossale "Passione Pasquale" non sa che quell'esperienza le cambierà la vita. Non solo perché l'incontro con il direttore del carcere Libero Tarsitano (Fabio Troiano) la spingerà a chiudere definitivamente la relazione con il suo fidanzatoattore Cristiano (Cristiano Godano), ma perché presto si troverà di fronte a un problema insolubile.Dopo aver conquistato la fiducia dei detenuti, Irena si rende conto che "dentro" nessuno è intenzionato a fare la parte di Giuda, per motivi che in un carcere sono chiari a tutti… |
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Critica (1): | Una conversazione con Davide Ferrario
Perchè il carcere?
Ho cominciato a frequentare il carcere nove anni fa, in modo abbastanza casuale. Mi fu chiesto di fare due lezioni di montaggio a un corso di formazione professionale per video-editor e operatori che si teneva a San Vittore. Doveva essere una cosa una tantum, ma l'impatto con il gruppo dei detenuti che frequentava quel corso fu così forte che chiesi un permesso da volontario e da allora continuo a lavorare "dentro".
Cosa significa "lavorare dentro"?
Beh, formalmente è una specie di laboratorio di audiovisivi, che in certi casi ha portato anche alla realizzazione di lavori importanti, come Fine amore: mai, un documentario sulla sessualità in carcere del 2002, che ha girato anche per i festival. Altre volte produce piccole cose, cortometraggi o documentari, a "uso interno". Qualche volta abbiamo anche scritto delle sceneggiature. Ma soprattutto per me questo lavoro ha un significato umano. Credo che noi liberi viviamo in un mondo di plastica e di finta autodeterminazione. La brutalità della galera, invece, ti pone in una situazione limite in cui un uomo deve fare i conti con se stesso (tanto è vero che qualcuno non ce la fa e si suicida: sono circa cinquanta all'anno, in Italia). Da questa condizione nasce un'energia talvolta negativa, ma affascinante, se sai riconoscerla. E se vai dentro con onestà, non per fare il missionario o per salvare qualcuno, impari tante cose quante ne lasci lì. Alla fine il complimento più bello che puoi sentirti fare è che "sei uno di loro", come spesso mi hanno detto, anche se so benissimo che siamo profondamente diversi. Sostanzialmente, la galera può essere una grande scuola di umanità, nel bene e nel male, fuori da ogni romanticismo. (…)
Qual è stata la sua relazione con i detenuti-attori?
Innanzitutto devo dire che per anni ci siamo frequentati nei termini che dicevo sopra. Non si parlava certo di fare un film "vero". Questo tempo insieme ci è servito per costruire un rapporto di fiducia, così quando abbiamo girato non si è trattato della classica operazione da cinema "mordi e fuggi", ma il film si è inserito in una relazione personale di lunga data, anche con il personale penitenziario e con la direzione. Anzi, vorrei aggiungere che una delle scoperte di questi anni sono stati i direttori di carcere e - spesso - i loro agenti. Fuori dal luogo comune del "carceriere", i direttori sono intellettuali che gestiscono situazioni sempre al limite del collasso con un'intelligenza e una capacità degne di ammirazione assoluta. Insomma, quando abbiamo girato c'era una condizione generale di grande positività da parte di tutti e anche la contaminazione tra la troupe (pressoché nessuno era mai stato dentro) e i detenuti ha funzionato da stimolo per tutti.
Il film, però, non è "sul" carcere.
No, infatti, semmai è "nel" carcere. Ammesso che i film debbano essere per forza "su" qualcosa, Tutta colpa di Giuda parla della religione. Non mi sarebbe mai interessato un film "sul problema carcere". Quel tipo di lavoro lo faccio in altro modo e ne ho anche una forma di pudore. Ma quando ho pensato alla storia del film mi è subito parso evidente che il carcere sarebbe stato un formidabile catalizzatore per trasformare una storia "intellettual-filosofica" in una vicenda realistica con delle grandi potenzialità di commedia.
Vale a dire?
Prima di tutto, lasciatemi dire che sono un ateo convinto e sereno. Dio (o il suo silenzio) è un problema che non mi angoscia minimamente. Ma capisco il senso della religione come risposta alle grandi domande della vita, anche se sono totalmente contrario a qualsiasi forma di religione organizzata e, in generale, a chiunque decide di parlare, senza controprova, a nome di Dio. Mi sembra che nei miti religiosi (e anche quello cristiano lo è) ci siano delle prospettive affascinanti sul senso dell'esistenza. Per esempio, mi son sempre chiesto cosa sarebbe successo se Giuda, invece di cedere al famoso bacio, si fosse semplicemente rifiutato di collaborare all'autodistruzione di Gesù. Ci saremmo trovati di fronte al paradosso di un piano divino messo in mora dalla ribellione di un uomo. Se Gesù non fosse stato tradito e condannato, se non fosse morto e risorto - insomma, se non avesse potuto salvare il mondo, come credono i cristiani, che cosa sarebbe successo? Ripeto, tutto questo è pensiero, non storia. Ma all'improvviso mi è balenato in mente un luogo in cui nessuno farebbe il Giuda (in pubblico, naturalmente - perchè poi dentro gli infami ci sono, eccome): il carcere. E in particolare la recita di una Passione in cui nessuno vuole fare quel ruolo. Ho provato a pensare a cosa avrebbe fatto il regista... E da lì si è messo in moto tutto.
È vero che ha girato il film senza sceneggiatura?
Beh, venivo da un'esperienza come Dopo mezzanotte, premiato in importanti consessi per una sceneggiatura che non avevo mai scritto... Il fatto è che io credo che il cinema sia molto più ripresa e montaggio, che scrittura. In particolare, lavorando con venti detenuti veri, dentro dei tempi dettati dalla vita del carcere e, come avremmo scoperto poi, in condizioni atmosferiche sempre imprevedibili - insomma, non sarebbero stati attori credibili se non avessero interpretato se stessi. C'era cioé una parte di imponderabile che non si sarebbe risolta nelle battute scritte bene, ma piuttosto nel creare un clima in cui le cose accadevano e noi fossimo lì pronti a riprenderle. Un'esperienza quasi documentaria: e io, che il documentario lo amo più di tutto, non ero certo intimorito. Anzi, penso proprio che il continuo scambio tra piano documentario e fiction sia una delle forze trainanti del film, fino al finale a sorpresa...
(dal sito del film) |
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